Dalla minigonna al burqa. E’ stata questa la peculiare trasformazione di Fatima Hssisni, la donna che è saltata alle cronache dei quotidiani internazionali per aver sfidato la magistratura spagnola quando, durante una deposizione davanti ai giudici, ha rifiutato di togliersi il burqa in pubblico perché sarebbe “un atto impudico”. Alla fine però ha dovuto cedere alle istituzioni. Dietro questa storia si nasconde, in realtà, qualcosa di molto più inquietante. Una verità nascosta e mai rivelata che, da un giorno all’altro, ha portato Fatima a rinunciare alle gonne molto corte, al trucco vistoso e alle magliette un po’ troppo attillate per abbracciare la sua religione nella versione più radicale. La storia di Fatima, una donna di 48 anni di origini marocchine che vive da 22 anni in Spagna, è quanto meno sconcertante. Sposata da 15 anni con Francisco Ródenas, un pizzaiolo spagnolo di Jaén, in Andalucia, nel 2006 venne arrestata insieme al marito e poi incarcerata per due anni con l’accusa di appartenere ad una rete islamista integrata al Gruppo Islamico Combattente e a quello Salafita per la Predicazione e il Combattimento (cui fa capo niente meno che il braccio destro di Osama Bin Laden, Abu Musab Al Zarqawi). La principale attività dell’organizzazione era quella di reclutare i mujaheddin, i combattenti della Guerra Santa, da mandare in Iraq. Tra questi, spiccano nomi già tristemente noti alle cronache come quello di Belgacem Bellil, uno dei due kamikaze che guidavano il camion bomba nell’attentato di Nassiriya in cui morirono i 19 militari italiani e altri 9 iracheni, ma anche il nome di Hassan Hssisni, uno dei fratelli di Fatima. Lui, invece, si fece saltare in aria nel 2005 in un attentato a Falluja, provocando altrettante vittime. Per Fatima e altri otto accusati, il pm ha chiesto condanne tra i 7 e i 18 anni. Qualche giorno fa, nel corso del processo sulla presunta cellula radicale islamica, Fatima è tornata sulle prime pagine dei giornali. E’ stata cacciata dall’aula di un tribunale di Madrid perché si rifiutava di deporre la sua testimonianza senza il burqa. Secondo lei svelare il suo volto ai magistrati sarebbe stata “un’oscenità senza pudore”. Di fronte all’opposizione della donna, il presidente del tribunale Javier Gómez Bermúdez – che è un habitué dei processi a movimenti islamici radicali dopo aver presieduto il processo per gli attentati di Atocha del 2004 –, invece di sanzionarla per aver cercato di ostacolare la giustizia, le ha chiesto di lasciare l'aula e l’ha convocata nel suo ufficio al termine dell’udienza. Non prima di averle spiegato che nei tribunali spagnoli è obbligatorio testimoniare a volto scoperto: “Vedendo il suo volto, posso vedere se mente o no, se è sorpresa da una domanda o meno”, ha spiegato l'alto magistrato alla donna ricordandole che in Spagna la legge civile ha il sopravvento su quella religiosa. In Spagna, il dibattito si è logicamente infuocato. A metter legna sul fuoco c’era il premier Zapatero che, proprio in quei giorni, aveva ripreso a sventolare la sua ormai famosa “Alleanza delle Civiltà” come modello di convivenza tra la cultura occidentale e quella musulmana. In quelle stesse giornate, Fatima compariva di fronte ai tribunali spagnoli sostenendo ai cronisti che si stava facendo una polemica “da ignoranti” e insinuando che la Spagna è retrograda “visto che in altri Paesi il burqa è un indumento normale”. Molti spagnoli si sono sentiti presi per i fondelli. Sia da Fatima che da Zapatero. Giudice e imputata alla fine hanno trovato un compromesso. Pochi giorni dopo Fatima ha accettato di sollevare il velo del burqa nero a doppio strato che copriva interamente la sua faccia per spiegare ai giudici la sua versione dei fatti, dando le spalle ai giornalisti e alle persone presenti nella sala. Ai magistrati la donna ha spiegato che, prima di morire, il fratello l’aveva chiamata per spiegarle che si trovava in Iraq in un campo di addestramento di Al-Qaeda e che, qualche mese dopo, qualcuno aveva chiamato i genitori per informarli che si era sposato (cioè si era suicidato, secondo il gergo dei terroristi). Ha anche risposto ad alcune domande su un altro fratello, un personaggio ben noto alle autorità, catturato quando cercava di andare dalla Siria in Iraq per integrarsi alla rete di Al Zarqawi. Non era uno qualsiasi, insomma. La vera dichiarazione, però, è stata quella rilasciata all’uscita del tribunale. Incalzata da un giornalista che gli ha chiesto se era orgogliosa del fratello kamikaze, la donna ha risposto con un secco “certo che lo sono”. Ma il marito, secondo molti solo un “bonaccione”, ha subito corretto il tiro con un “ma come volete che sia orgogliosa? Certo che non lo è”. C’è chi ha difeso la donna sostenendo che Fatima non avesse capito bene la domanda. E c’è chi, invece, pensa che l’avesse capita, eccome. Ma dietro questa storia c’è qualcosa di inquietante. A Castelldefells, a poco più di 20 chilometri da Barcellona, in molti ricordano Fatima da giovane, la figlia di un pescatore di Larache, un paesino vicino a Tangeri, che appena arrivata si mise a lavorare come badante di un anziano francese. Ma di lei ricordano soprattutto le sue minigonne da paura, il suo decolleté sempre ben in vista e la passione per le discoteche, così come la preferenza per le Marlboro rosse e il “cuba libre”, in particolare se fatto col J&B e cola. Nel ristorante dove lavora come cuoca, Fatima conosce Francisco, detto “Paquito”, e vanno a vivere insieme, una convivenza fuori dal matrimonio in tutta regola. Qualche anno dopo toccano le nozze, sia quelle cattoliche che quelle col rito musulmano in Marocco. Alcuni parenti del marito la descrivono come “una immigrata che cercava di integrarsi nella società”. Una marocchina modello verrebbe da aggiungere. Se non fosse che, dopo un viaggio nel suo Paese natale, Fatima e Francisco – ribattezzato Yusef dopo aver abbracciato la fede musulmana – cambiano radicalmente. Smettono di fumare e bere alcool. Non escono più la notte e rompono con le relazioni sociali. Entrambi diventano sempre più freddi con amici e parenti: ad un certo punto Francisco non può più neanche baciare la cugina “perché non lo permetteva la sua nuova religione”. Diventano sempre più radicali nelle loro opinioni e riescono a convincere vari compagni di lavoro a pregare ogni giorno. Sulla testa di Fatima prima compare un timido velo che le copre i capelli scuri. Poi inizia a vestire anche il vestito largo che nasconde le sinuose forme del suo corpo. Infine il burqa, guanti neri inclusi. Cosa è avvenuto in quel viaggio in Marocco lo sanno solo Fatima e Francisco. Lei sostiene che di averlo fatto come reazione agli arresti del 2006. Alcuni dicono che in Marocco hanno incontrato alcuni gruppi islamisti che hanno convinto la coppia ad entrare nella rete dell’islamismo radicale a cambio di qualcosa molto più “tangibile” che andare in Paradiso. Altri ritengono che la coppia abbia semplicemente ritrovato la fede.
La questione però va ben oltre la legittima libertà di religione di ciascuno. Si tratta di una scelta religiosa che, di fatto, ha cercato di mettere in discussione un intero sistema di diritto. Per evitare situazioni del genere, forse è giunto il momento di determinare qual è la linea tra ciò che è permesso e ciò che non lo è. Anche in Italia.
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