La libertà di stampa ha, in Italia, seri problemi, nessuno dei quali è stato colto da Reporters sans frontières e dal loro annuale rapporto. Naturalmente il nostro è il Paese, a loro dire, dove chi scrive le cose come stanno, senza guardare in faccia nessuno, rischia frequentemente d’essere frustato in sala mensa. Nella graduatoria ci collochiamo al posto 49, su 175. Perdendo cinque punti rispetto all’anno scorso e ben quattordici rispetto al 2007. Ora, vorrei sapere, che cosa è successo, dal 2007 ad oggi? Niente. Allora, passiamo alla seconda domanda: come fanno, i curatori del rapporto, a fare le misurazioni? Semplice, distribuiscono questionari ai giornalisti stessi. Ed è qui, che mi sono preoccupato, perché se siamo al quarantanovesimo dopo avere ascoltato l’opinione di quelli che sfilano e si sentono minacciati solo perché non tutti si spellano le mani ad applaudire, allora vuol dire che da noi c’è una libertà di stampa incontenibile e senza confini. Ma c’è un ultimo dato che lascia capire di che stiamo parlando: secondo Rsf gli Stati Uniti passano dal posto 40 al 20 per il solo fatto che è stato eletto Obama, il quale, oltre tutto, nel corso della campagna elettorale buttò fuori dei giornalisti dal suo seguito, e da Presidente si rifiuta di avere contatti con una rete televisiva che considera al pari di un partito avversario. E’ nei suoi diritti, ci mancherebbe altro, ma quando questo capita dalle nostre parti subito partono i funerali della libertà e della democrazia. Posto, dunque, che con questa roba senza frontiere ci si possono fare solo discorsi privi di senso, il problema vero del nostro mercato editoriale è che la quasi totalità degli editori ha interessi industriali che superano, di gran lunga, quelli editoriali. Il che li porta, inevitabilmente, ad utilizzare i primi come strumentali ai secondi. Ad un certo punto era venuto fuori un editore che, in effetti, pur avendo mosso i primi passi nell’edilizia, ed avere poi tentato l’ingresso nella grande distribuzione, comunque aveva creato una società il cui interesse prevalente era quello editoriale. Trattasi di Silvio Berlusconi. Lo stesso cui si fa riferimento ogni volta che la stampa in perdita di copie spera di annetterne la responsabilità alla diminuita libertà. Il conflitto d’interessi, pertanto, nel nostro mercato è endemico: riguarda gli editori che usano l’editoria, e riguarda chi, da editore, è divenuto soggetto politico. Se una buona legge sul conflitto d’interessi non s’è mai veramente fatta è perché non potrebbe riguardare solo Berlusconi. Il secondo motivo per cui non siamo messi bene consiste nel fatto che giornali e giornalisti sono querelabili da parte di magistrati, quindi trascinabili in tribunali dove a decidere sono i colleghi del querelante. Ne ho personalmente viste, in materia, di ridicole e di disgustose, ma non ho mai sentito una seria protesta a difesa della libertà di chi scrive. Sono stato, come altri, querelato da magistrati che ritenevano offeso l’onore dei magistrati stessi e chiedevano ad un magistrato di stabilire quale fosse la punizione adeguata per quanti attaccano i magistrati. Avrebbero meritato, tutti, un gran pernacchio, invece, da cittadino modello e senza scampo, mi sono fatto processare. A fronte di questi, che sono i problemi veri, quella di Reporters sans Frontières è robetta all’acqua di rose, poco più dell’aggregazione di pettegolezzi e lamentele generiche. Perché, ad esempio, non si sono chiesti in quale modo la stampa è finanziata, chi, nelle diverse parti del mondo, ci mette i soldi perché non chiuda. Lo avessero fatto avrebbero scoperto che qui in Italia i soldi li mettono i lettori, ma prima di loro ce li mette lo Stato, con il finanziamento pubblico e la copertura delle spese. Poi ci sono gli introiti pubblicitari, che se restassero da soli tutti avrebbero già chiuso. Non c’è libertà di stampa, quindi, in un Paese che finanzia la stampa con la spesa pubblica? Purtroppo, i giornali che oggi pubblicheranno quei dati non avranno il coraggio di mettere in pagina la verità più sgradevole: non mancano le strutture e non mancano i soldi per reggere ed alimentare la libertà, scarseggiano, invece, gli uomini liberi, che non siano luogocomunisti in servizio permanente effettivo, che sappiano difendere le proprie idee senza pensare che siano quelle di tutti.
giovedì 22 ottobre 2009
Libertà di stampa
Libertà di stampa di Davide Giacalone
La libertà di stampa ha, in Italia, seri problemi, nessuno dei quali è stato colto da Reporters sans frontières e dal loro annuale rapporto. Naturalmente il nostro è il Paese, a loro dire, dove chi scrive le cose come stanno, senza guardare in faccia nessuno, rischia frequentemente d’essere frustato in sala mensa. Nella graduatoria ci collochiamo al posto 49, su 175. Perdendo cinque punti rispetto all’anno scorso e ben quattordici rispetto al 2007. Ora, vorrei sapere, che cosa è successo, dal 2007 ad oggi? Niente. Allora, passiamo alla seconda domanda: come fanno, i curatori del rapporto, a fare le misurazioni? Semplice, distribuiscono questionari ai giornalisti stessi. Ed è qui, che mi sono preoccupato, perché se siamo al quarantanovesimo dopo avere ascoltato l’opinione di quelli che sfilano e si sentono minacciati solo perché non tutti si spellano le mani ad applaudire, allora vuol dire che da noi c’è una libertà di stampa incontenibile e senza confini. Ma c’è un ultimo dato che lascia capire di che stiamo parlando: secondo Rsf gli Stati Uniti passano dal posto 40 al 20 per il solo fatto che è stato eletto Obama, il quale, oltre tutto, nel corso della campagna elettorale buttò fuori dei giornalisti dal suo seguito, e da Presidente si rifiuta di avere contatti con una rete televisiva che considera al pari di un partito avversario. E’ nei suoi diritti, ci mancherebbe altro, ma quando questo capita dalle nostre parti subito partono i funerali della libertà e della democrazia. Posto, dunque, che con questa roba senza frontiere ci si possono fare solo discorsi privi di senso, il problema vero del nostro mercato editoriale è che la quasi totalità degli editori ha interessi industriali che superano, di gran lunga, quelli editoriali. Il che li porta, inevitabilmente, ad utilizzare i primi come strumentali ai secondi. Ad un certo punto era venuto fuori un editore che, in effetti, pur avendo mosso i primi passi nell’edilizia, ed avere poi tentato l’ingresso nella grande distribuzione, comunque aveva creato una società il cui interesse prevalente era quello editoriale. Trattasi di Silvio Berlusconi. Lo stesso cui si fa riferimento ogni volta che la stampa in perdita di copie spera di annetterne la responsabilità alla diminuita libertà. Il conflitto d’interessi, pertanto, nel nostro mercato è endemico: riguarda gli editori che usano l’editoria, e riguarda chi, da editore, è divenuto soggetto politico. Se una buona legge sul conflitto d’interessi non s’è mai veramente fatta è perché non potrebbe riguardare solo Berlusconi. Il secondo motivo per cui non siamo messi bene consiste nel fatto che giornali e giornalisti sono querelabili da parte di magistrati, quindi trascinabili in tribunali dove a decidere sono i colleghi del querelante. Ne ho personalmente viste, in materia, di ridicole e di disgustose, ma non ho mai sentito una seria protesta a difesa della libertà di chi scrive. Sono stato, come altri, querelato da magistrati che ritenevano offeso l’onore dei magistrati stessi e chiedevano ad un magistrato di stabilire quale fosse la punizione adeguata per quanti attaccano i magistrati. Avrebbero meritato, tutti, un gran pernacchio, invece, da cittadino modello e senza scampo, mi sono fatto processare. A fronte di questi, che sono i problemi veri, quella di Reporters sans Frontières è robetta all’acqua di rose, poco più dell’aggregazione di pettegolezzi e lamentele generiche. Perché, ad esempio, non si sono chiesti in quale modo la stampa è finanziata, chi, nelle diverse parti del mondo, ci mette i soldi perché non chiuda. Lo avessero fatto avrebbero scoperto che qui in Italia i soldi li mettono i lettori, ma prima di loro ce li mette lo Stato, con il finanziamento pubblico e la copertura delle spese. Poi ci sono gli introiti pubblicitari, che se restassero da soli tutti avrebbero già chiuso. Non c’è libertà di stampa, quindi, in un Paese che finanzia la stampa con la spesa pubblica? Purtroppo, i giornali che oggi pubblicheranno quei dati non avranno il coraggio di mettere in pagina la verità più sgradevole: non mancano le strutture e non mancano i soldi per reggere ed alimentare la libertà, scarseggiano, invece, gli uomini liberi, che non siano luogocomunisti in servizio permanente effettivo, che sappiano difendere le proprie idee senza pensare che siano quelle di tutti.
La libertà di stampa ha, in Italia, seri problemi, nessuno dei quali è stato colto da Reporters sans frontières e dal loro annuale rapporto. Naturalmente il nostro è il Paese, a loro dire, dove chi scrive le cose come stanno, senza guardare in faccia nessuno, rischia frequentemente d’essere frustato in sala mensa. Nella graduatoria ci collochiamo al posto 49, su 175. Perdendo cinque punti rispetto all’anno scorso e ben quattordici rispetto al 2007. Ora, vorrei sapere, che cosa è successo, dal 2007 ad oggi? Niente. Allora, passiamo alla seconda domanda: come fanno, i curatori del rapporto, a fare le misurazioni? Semplice, distribuiscono questionari ai giornalisti stessi. Ed è qui, che mi sono preoccupato, perché se siamo al quarantanovesimo dopo avere ascoltato l’opinione di quelli che sfilano e si sentono minacciati solo perché non tutti si spellano le mani ad applaudire, allora vuol dire che da noi c’è una libertà di stampa incontenibile e senza confini. Ma c’è un ultimo dato che lascia capire di che stiamo parlando: secondo Rsf gli Stati Uniti passano dal posto 40 al 20 per il solo fatto che è stato eletto Obama, il quale, oltre tutto, nel corso della campagna elettorale buttò fuori dei giornalisti dal suo seguito, e da Presidente si rifiuta di avere contatti con una rete televisiva che considera al pari di un partito avversario. E’ nei suoi diritti, ci mancherebbe altro, ma quando questo capita dalle nostre parti subito partono i funerali della libertà e della democrazia. Posto, dunque, che con questa roba senza frontiere ci si possono fare solo discorsi privi di senso, il problema vero del nostro mercato editoriale è che la quasi totalità degli editori ha interessi industriali che superano, di gran lunga, quelli editoriali. Il che li porta, inevitabilmente, ad utilizzare i primi come strumentali ai secondi. Ad un certo punto era venuto fuori un editore che, in effetti, pur avendo mosso i primi passi nell’edilizia, ed avere poi tentato l’ingresso nella grande distribuzione, comunque aveva creato una società il cui interesse prevalente era quello editoriale. Trattasi di Silvio Berlusconi. Lo stesso cui si fa riferimento ogni volta che la stampa in perdita di copie spera di annetterne la responsabilità alla diminuita libertà. Il conflitto d’interessi, pertanto, nel nostro mercato è endemico: riguarda gli editori che usano l’editoria, e riguarda chi, da editore, è divenuto soggetto politico. Se una buona legge sul conflitto d’interessi non s’è mai veramente fatta è perché non potrebbe riguardare solo Berlusconi. Il secondo motivo per cui non siamo messi bene consiste nel fatto che giornali e giornalisti sono querelabili da parte di magistrati, quindi trascinabili in tribunali dove a decidere sono i colleghi del querelante. Ne ho personalmente viste, in materia, di ridicole e di disgustose, ma non ho mai sentito una seria protesta a difesa della libertà di chi scrive. Sono stato, come altri, querelato da magistrati che ritenevano offeso l’onore dei magistrati stessi e chiedevano ad un magistrato di stabilire quale fosse la punizione adeguata per quanti attaccano i magistrati. Avrebbero meritato, tutti, un gran pernacchio, invece, da cittadino modello e senza scampo, mi sono fatto processare. A fronte di questi, che sono i problemi veri, quella di Reporters sans Frontières è robetta all’acqua di rose, poco più dell’aggregazione di pettegolezzi e lamentele generiche. Perché, ad esempio, non si sono chiesti in quale modo la stampa è finanziata, chi, nelle diverse parti del mondo, ci mette i soldi perché non chiuda. Lo avessero fatto avrebbero scoperto che qui in Italia i soldi li mettono i lettori, ma prima di loro ce li mette lo Stato, con il finanziamento pubblico e la copertura delle spese. Poi ci sono gli introiti pubblicitari, che se restassero da soli tutti avrebbero già chiuso. Non c’è libertà di stampa, quindi, in un Paese che finanzia la stampa con la spesa pubblica? Purtroppo, i giornali che oggi pubblicheranno quei dati non avranno il coraggio di mettere in pagina la verità più sgradevole: non mancano le strutture e non mancano i soldi per reggere ed alimentare la libertà, scarseggiano, invece, gli uomini liberi, che non siano luogocomunisti in servizio permanente effettivo, che sappiano difendere le proprie idee senza pensare che siano quelle di tutti.
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