martedì 7 luglio 2009

Velature... ideologiche

Burqa o niqab, il velo che non si squarcia (prima parte) di Maurizio De Santis

La Francia, si sa, tende ad anticipare (assieme a Gran Bretagna, Olanda e Danimarca), di almeno un ventennio la realtà sociale che avremo in Italia nel prossimo divenire. Società aperta, con una forte componente migratoria, caratterizzata da una schiacciante percentuale di musulmani. Parigi, manco a farlo apposta, ha sovente dimostrato quanto “questa” percentuale (oscillante tra il 9 ed il 10%), sia già oggi determinante nelle scelte politiche dell’Esagono. Lo palesò in occasione della scottante “crisi delle vignette”, quando il governo transalpino tacque dinanzi la decisione del proprietario di France Soir di rimuovere il direttore del giornale, Jacques Lefranc, colpevole di averle pubblicate. Manco fossimo stati a Damasco o Algeri. In più di un’occasione la legislazione francese s’è dimostrata balbettante dinanzi alle richieste della comunità musulmana, composta per una buona metà da francesi di terza generazione, che chiedeva senza peli sulla lingua il riconoscimento di diritti ancorati più alla Sharìa piuttosto che alla Costituzione repubblicana (come il caso del ripudio per mancanza di verginità, legittimato in prima istanza, proprio lo scorso anno, dal tribunale di Lione). Oggi, dopo le polemiche sul velo (la legge del 15 marzo 2004 proibisce l’ostentazione dei simboli religiosi negli istituti d'istruzione pubblica), l’attenzione si sposta sul Burqa. Lo “scafandro” apparentemente disumano, nel quale sembrerebbe annientarsi l’identità di una donna. Invero, il burqa appare subito quale problema piuttosto contorto. Visto che questo “preziosismo” estetico è di mera sartoria afgana. Vestiario mai riscontrato, almeno fino a qualche lustro fa, né nel Maghreb, né nel Mashrek. Ma comunque adottato dalle frange integraliste di etnia araba, sull’onda della re-islamizzazione di stampo prevalentemente wahabita. Volessimo sottilizzare, non si vede per quale ragione una persona non dovrebbe godere del diritto di vestirsi come meglio crede. Visto il numero di ragazze che ostentano lombi generosi (spesso inguardabili), glutei “griffati” da improbabili mutandine, seni generosamente ostentati, accompagnati sovente dai più disparati tatuaggi o da una quantità tale di pearcing sufficiente a far impazzire un rilevatore dell’aeroporto. Si supporrebbe (il condizionale è di rito), che quest’indumento fosse portato sotto costrizione, del marito o della famiglia. Ma questa resta, per quanto probabilissima, una supposizione. A complicare le cose contribuisce anche la radice culturale dell’Occidente. Quella tanto contestata matrice giudaico-cristiana (che però, piaccia o non piaccia, è la colonna vertebrale dell’odierno Occidente), che il velo lo conobbe, eccome. La tradizione ebrea considerò a lungo prioritario che una donna dovesse coprirsi i capelli in segno di discrezione (e sottomissione), dinanzi agli uomini. Ed il cristianesimo andò ben oltre con S. Paolo. Ponendo la prima epistola ai Corinzi quale fondamento per imporre l’obbligo teologico del velo. Obbligo che, successivamente, venne “derubricato” per riservarlo alle sole religiose. In tutto questo bailamme l’islam, che interviene sette secoli dopo, non aggiunge né toglie nulla a questi precetti. Nel versetto 59 del Corano, l’avviso “ai naviganti” è quello di velare le donne, al fine di tutelare il loro rispetto e preservarle dalle offese. Ma, nel Corano, del burqa non c’è proprio traccia…. Se, dunque, le cose stanno così, dov’è l’inghippo che ossessiona i laicisti? L'occidente accetta, in genere, ogni specie di religioni e di sette. Resta una particolare idiosincrasia verso la fede cattolica-romana. Conseguenza delle soperchierie compiute dallo Stato Pontificio che, come oggi succede nella Repubblica iraniana o nel Regno Saudita (entrambi teocrazie belle e buone), non risparmiò la forca ai propri contestatori. In barba al proprio Dio misericordioso. Resta però il fatto che l’Occidente civilmente più avanzato (intendendo con ciò i paesi di maggiore tradizione democratica, dalla Gran Bretagna, alla Francia, all’Olanda), non sopporta il velo. Figuriamoci il burqa. Identificato quale equivalente del crocifisso cristiano, è stato rapidamente posto sotto l’indice. E, occorre dire, i musulmani non hanno fatto granchè affinchè ciò non accadesse. L'islam europeo, difatti, ha dimostrato di saper conservare una rilevante forma di allergia per tutto ciò che non sia “islamicamente corretto”. Ha indiscutibilmente fallito ogni seria forma di dialogo. Tanto che, ancora oggi, i riformisti musulmani sono poco meno di una sparuta minoranza. Le organizzazioni islamiche ufficiali hanno semmai saputo abilmente sfruttare l’illusione di una certa sinistra, di strumentalizzare questa fetta di elettorato a “costo zero”. Reintroducendo in Francia una casistica politica ben nota in Italia: il voto di scambio. Ma, anche fra i massimalisti, ci si è presto accorti che, malgrado lo scorrere delle generazioni immigrate, non ci sono state “fughe in avanti” da parte delle nuove leve. Nessuna “rilettura” del Corano, comunque impossibile, data la natura “increazionista” (ossia eterna ed immutabile), del Sacro Tomo. Anzi. Le comunità arabo-musulmane francesi hanno cominciato ad adottare il burqa, che arabo non è stato mai. Indumento originario dell’Afghanistan, letteralmente sconosciuto nel Mediterraneo, semplicemente estraneo alle culture del Maghreb e del Mashrek, oggi è al centro del dibattito politico francese. Il problema sarebbe sintomatico tanto di un radicalismo religioso quanto di una ricerca identitaria, dove la vera pietra angolare sarebbe il prototipo di donna musulmana, da contrapporre al modello occidentale. Il diritto, insomma, di interpretare la “propria” identità di donna. Il diritto di non conformarsi ad un modello univoco; quello “occidentale”. Una sessantina di parlamentari francesi, di ogni schieramento politico, hanno sollecitato una commissione d'indagine sul burqa. Scatenando, s’intende, le ire sia degli ambienti massimalisti di sinistra (che protestano sempre, a prescindere), quanto dei rappresentanti delle organizzazioni islamiste più radicali. Sconcertante, di converso, il silenzio delle principali organizzazioni musulmane francesi, probabilmente assai preoccupate di non “irritare” i cuginetti più osservanti. Nell’”assordante” quiete, icona dell’ennesima occasione persa per un dibattito costruttivo tra istituzioni musulmane ed organizzazioni laiche francesi, l’unico fatto di rilievo è stata l’imbarazzante contrapposizione, fra due personaggi del governo Sarkozy. E’ successo così che mentre il portavoce del governo, Luc Chatel, giudica auspicabile una legge che proibisca, in Francia, il burqa (ma pure il niqab), il ministro per l’immigrazione, Eric Besson, reclamasse una specie di “vuoto normativo”, il mantenimento di uno status quo che, secondo lui, eviterebbe tensioni inutili. Vietare “tout-court”, equivarrebbe a “provocare”. Mentre un’opera di persuasione pedagogica sarebbe assolutamente più produttiva. Ma, purtroppo, il ministro francese per l’immigrazione non è riuscito a spiegare come far aderire a questa “opera di mediazione culturale” le migliaia di immigrati musulmani osservanti che, pur di non mischiarsi con gli asili della Repubblica (rigorosamente haram, vietati), preferiscono servirsi di asili semi-clandestini, sovente strutturati in stile Madrasa. Forse il portavoce Luc Chatel è memore di un divieto molto stagionato. Quello che la Francia repubblicana impartì, nel settembre del 1900, ai sacerdoti di indossare la famosa “sottana”. L’abito di ordinanza, oggi praticamente scomparso, che costituiva la divisa dei preti. E, se lo si fece per i cristiani, perché non farlo con le musulmane?

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