martedì 31 agosto 2010

Islam di pace


Treviso - Ancora una volta Islam e violenza. Voleva a tutti i costi che la sua convivente trevigiana di 39 anni abbracciasse la religione islamica, arrivando a ferirla con una forchetta e a brandire un coltello pur di convincerla a convertirsi. Per questo un operaio marocchino, 37 anni, regolare in Italia, è stato obbligato dal giudice a tenersi ad almeno 500 metri di distanza dai luoghi frequentati dalla donna e ad allontanarsi dall’abitazione familiare.

Religione e violenza domestica I due vivevano assieme da una decina di anni; dal 2006 l’immigrato aveva iniziato a picchiare la convivente motivando le violenze con la mancata conversione e con la incapacità della donna di essere una brava cuoca. In diverse occasioni la vittima si era recata in ospedale a causa delle ferite procurate dall’uomo, ma non aveva mai voluto denunciarlo. Solo dopo che il marocchino ha brandito un coltello da cucina davanti al suo volto, la donna ha deciso di raccontare i lunghi anni di violenze e di minacce agli investigatori.

Barroso e la Ue


E' sicuro che insieme al presidente Usa Obama entro novembre riuscirà a varare nuove misure per regolare i mercati finanziari. E in Europa presto arriverà una governance economica in grado di controllare i budget e «introdurre sanzioni e incentivi per raggiungere stabilità e crescita». José Manuel Durão Barroso, l'unico presidente della Commissione europea dopo Delors al secondo mandato, è ottimista sul futuro del Vecchio Continente ma chiede ai governi comportamenti più convergenti e meno egoismi. Lunedì a Bruxelles è convinto che sull'immigrazione, alias caso-Rom, vincerà il buon senso per difendere libera circolazione e diritto alla sicurezza dei cittadini.

Europa alla ricerca della sua identità. Mission impossible? «Bisogna abituarsi alla doppia identità. Sulla prima pagina del "Corriere della Sera", faccio un piccolo esempio, c'è il simbolo dell'Europa ma è un giornale italiano. Non possiamo più pensare a una identità esclusiva, dobbiamo abituarci al concetto di identità multipla. Sommare due parti che devono diventare complementari: la diversity e l'unità».

L'euro doveva creare questa identità. Non pensa che alla fine abbia creato dei problemi? «No. L'euro è un successo straordinario, ormai è la seconda valuta del mondo dopo il dollaro. E l'identità europea è cresciuta. Certo ci sono problemi con i deficit pubblici ma non oscurano i vantaggi che l'euro ha portato. Oggi l'Europa è uno dei mercati meglio integrati del mondo. Pensi cosa sarebbe successo se i Paesi europei avessero dovuto affrontare la crisi finanziaria ognuno con la sua moneta. Ognuno avrebbe fatto svalutazioni competitive. Per le piccole e medie aziende sarebbe stato un disastro. Senza euro e senza mercato unico alcuni Paesi non sarebbero riusciti a superare la crisi. Con opportuni aggiustamenti sulla stabilità interna tutti i governi ora devono difendere l'euro».

Anche Obama ha chiesto un'Europa più forte. «E' molto importante che questa richiesta venga anche dall'esterno, dai nostri partner più importanti. Immaginatevi in un mondo globalizzato come oggi se la Francia, la Germania o l'Italia si dovessero muovere da sole. Non sarebbero in grado di proteggere i loro interessi. Ai 27 diversi governi nazionali oggi conviene trovare una visione comune».

Con il presidente Usa lei si vedrà per un summit il 20 novembre a Lisbona. Può anticipare la sua agenda? «A dire la verità non c'è ancora una agenda definita. Sicuramente affronteremo i temi legati alla crescita e alla occupazione su entrambi i fronti atlantici. Così come discuteremo di politica estera a partire dall'Iran al Pakistan e il Medio Oriente. Il contributo comune sarà determinante».

La scorsa settimana l'eurobarometro ha segnato un'altra flessione del 6% sulla fiducia nei confronti delle istituzioni europee. Non è un bel segnale. «Lo stesso eurobarometro chiede però una governance economica europea più forte. In ogni caso è normale che durante una crisi la fiducia dei cittadini scenda. Così quando l'economia cresce, aumenta anche la fiducia. Riconosco che occorre fare di più insieme per dare sicurezza ai consumatori e ai cittadini. Mi lasci però dire la verità: i problemi non si risolveranno fino a che ogni nazione non vede il progetto europeo come il suo progetto. Questo è il fatto. Bisogna difendere gli interessi dell'Europa rispettando la sussidiarietà. E invece non è così: quando le cose vanno bene è merito loro quando vanno male la colpa è di Bruxelles».

Lei continua a invocare una maggiore governance economica. Ma concretamente cosa bisognerebbe fare? «Prima di tutto le scelte di politica economica di ogni Paese devono essere coordinate insieme agli altri. Una strategia che alla fine è stata accettata. Non c'è altra strada credibile: andare avanti con la concertazione pur accettando le prerogative dei parlamenti nazionali. Così come bisogna coordinarsi per anticipare comportamenti virtuosi verso benchmark di eccellenza. I budget vanno messi sotto controllo e occorre introdurre sanzioni e incentivi più forti per raggiungere stabilità e crescita. Il rischio è di mettere in discussione l'assetto del welfare europeo. Naturalmente non si può più rimandare l'approvazione di una rigida agenda per regolare il settore finanziario. Stiamo lavorando per creare una architettura istituzionale che garantisca una maggiore supervisione. E' stata concordata nuova strategia Europa 20-20 per il rilancio di una crescita intelligente, innovativa e inclusiva».

Dal rapporto Monti lei crede verranno approvate novità? «Penso di sì. Stiamo già lavorando per rimuovere una serie di ostacoli in grado di aumentare l'integrazione tra le varie economie. Entro settembre prenderemo delle decisioni».

Però l'asse franco-tedesco è sempre più forte. E' inevitabile questa asimmetria? «Il problema è molto semplice. Noi non siamo gli Stati Uniti, la Cina o il Brasile. In Europa ci sono 27 nazioni ognuna con le sue differenze. La lezione fondamentale che ci ha fornito l'ultima crisi è che dobbiamo convergere di più verso l'equilibrio dei conti pubblici. Purtroppo non stiamo andando verso l'uniformazione dei bilanci».

Mettiamola così: la debolezza di Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, i cosiddetti Pigs, può mettere in forse il futuro dell'euro o no? «Queste nazioni sono in reale difficoltà. Però la Grecia, per esempio, ha preso decisioni molto determinate e le altre sono pronte a seguire l'esempio. Non sono d'accordo con quella definizione sprezzante. Sono Paesi che stanno cambiando molto velocemente. E' una parola negativa che contiene molti pregiudizi».

Dall'apice della crisi sono passati quasi due anni. Molti i progetti per riscrivere le regole finanziarie internazionali. Si è parlato addirittura di una nuova Bretton Wood. Ma non è successo niente. Perché? «Su questo fronte c'è troppa paura. Alcune promesse e impegni non sono state prese. Non per colpa dell'Europa che nel G20 ha combattuto per introdurre nuove e più ambiziose regole. A Toronto, per esempio, ci siamo spesi per cambiare le normative sulle transazioni internazionali. Ma alcuni Paesi si sono opposti. E' un errore pensare che nulla stia accadendo. Nel G20 sono stati fatti passi avanti per superare il protezionismo e promuovere la crescita. Cina e Usa compresi. Al vertice di novembre sono certo che a qualche conclusione arriveremo. Nonostante le difficoltà tecniche siamo molto vicini a costruire una nuova architettura finanziaria per regolare private equità, hedge fund, derivati. Forse non è abbastanza. Le divisioni comunque non sono solo in Europa ma in tutto il mondo».

Lunedì prossimo a Bruxelles affronterete il problema dell'immigrazione. Potrebbe trasformarsi, sotto la spinta della Francia e dell'Italia, in un vertice contro i rom? «Sono convinto di no. La nostra preoccupazione principale è di garantire la libera circolazione senza discriminazione. Non è una questione ideologica. Sia la destra che la sinistra sono impegnati a rispettarla. Naturalmente la libera circolazione non è incondizionata. Vanno rispettati anche i cittadini e il loro diritto alla sicurezza sviluppando contemporaneamente la promozione dell'integrazione. Con questo approccio equilibrato verrà rispettata la legge europea. Prevarrà il buon senso».

Roberto Bagnoli

I danni della Ue


Chi l'avrebbe mai detto di trovare nell'Unione Europea il miglior sponsor della contraffazione. Sembra un'esagerazione, eppure, a giudicare dalle conclusioni dell'ultimo rapporto sul tema, non lo è. «Acquistare prodotti di marca contraffatti è una cosa positiva»: questa la rivelazione principale ricavata a spese dei cittadini comunitari. Ma non è l'unica. «I beni contraffatti possono effettivamente promuovere l'azienda che li crea, facendo conoscere le nuove collezioni a un pubblico più ampio». Conclusioni rivoluzionarie quelle contenute nella relazione riportata dal quotidiano britannico Daily Telegraph e co-scritta da un consigliere della Home Office, il dipartimento britannico per il controllo dell'immigrazione. Conclusioni che sfatano una serie di inutili preoccupazioni. Come quelle relative alla qualità dei materiali usati per la fabbricazione dei prodotti contraffatti, alla loro legittimità e a chi realmente trae profitto dalla loro vendita. Tutte spazzate via. Da chi non si sa però. Dispiace per le case di moda ma, secondo il rapporto, le perdite nel settore dovute alla contraffazione sarebbero ampiamente esagerate «perché la maggior parte di coloro che acquistano prodotti falsi non avrebbe mai pagato per l'originale». Come a dire: ringraziate chi compra l'imitazione del vostro prodotto, altrimenti, coi prezzi che avete, vi scordereste anche quello.

Ne è certo il professor David Wall, co-autore della relazione e consulente al governo in materia di criminalità, secondo il quale «ci sono prove che la vendita a basso costo aiuti effettivamente le grandi marche, accelerando il ciclo di sensibilizzazione al marchio. Dobbiamo concentrarci piuttosto sul commercio di farmaci contraffatti - ha continuato Wall - parti di aeromobili non sicure, e altre cose che creano danni reali ai cittadini». D'accordo sul fatto che ci siano altri settori sui quali porre attenzione, ma non si può nemmeno chiudere un occhio su un fenomeno illegale che, secondo gli ultimi dati Censis, vale in Italia oltre 7 miliardi di euro: una sua eventuale sconfitta garantirebbe circa 130mila posti di lavoro aggiuntivi. Nonostante il governo di Londra abbia deciso di non criminalizzare i consumatori, il mercato della contraffazione nel Regno Unito è stato stimato in un valore di 1,3 miliardi di sterline e fino a tre milioni di consumatori ogni anno acquistano le merci contraffatte. Difficile dunque andare a spiegare alle grandi marche che dovrebbero essere felici se vedono qualcuno camminare con al braccio una loro borsa falsa. Impossibile. Infatti già diverse case di moda hanno fatto sentire la loro voce.

«La contraffazione è presa molto seriamente - ha commentato un rappresentante di Burberry -. Quando il caso è provato, spingeremo sempre per il massimo della pena». «La vendita di merce contraffatta è un reato grave - ha dichiarato un portavoce di Louis Vuitton - i cui fondi vanno alle organizzazioni criminali a spese di consumatori, aziende e governi». Per la verità anche quest'ultimo aspetto sarebbe smentito dal rapporto dell'Ue, secondo cui la contraffazione di marchi di lusso non finanzia né il terrorismo né la criminalità organizzata.

Con buona pace delle forze dell'ordine, invitate a non sprecare tempo a cercare di fermare i contrabbandieri. Inoltre, se le conclusioni del rapporto si estendessero ad altri settori, come quello agroalimentare dove il falso Made in Italy prodotto in Cina genera danni per 100 miliardi di euro, la sostanza aumenterebbe ancor più di peso. E pensare che proprio l'anno scorso l'Ue aveva creato l'Osservatorio sulla contraffazione e la pirateria che avrebbe dovuto lottare contro il fenomeno. E ora quale sarà il suo compito?

Crimini


MILANO - Percossa e accoltellata dal fidanzato marocchino, al punto da farle perdere il bimbo che aveva in grembo. Gli uomini della questura di Bergamo stanno indagando su un episodio di violenza avvenuto sabato scorso in città ai danni di una giovane donna bergamasca di 25 anni, incinta di tre mesi. È stata la stessa vittima, subito dopo l'aggressione, a indicare alle forze dell'ordine il suo fidanzato, quarantenne, come responsabile della violenza.

LA RICOSTRUZIONE - Sulla vicenda, riferita questa mattina dal quotidiano «L'Eco di Bergamo», le forze dell'ordine mantengono al momento il più stretto riserbo, limitandosi a confermare che sull'episodio è stata aperta un'indagine. La polizia sta cercando il marocchino da due giorni, ma l'uomo si è reso irreperibile. Secondo quanto è stato ricostruito finora, sabato sera i due giovani si trovavano nell'abitazione di lui, a Bergamo, quando tra i due è nata una lite. A un certo punto il magrebino ha iniziato a picchiare la sua fidanzata, colpendola con calci e pugni, poi ha afferrato il coltello e l'ha ferita all'addome. Il marocchino ha tentato di trattenere la vittima nell'appartamento, ma la ragazza è riuscita ad aprire la porta e a scappare per strada, dov'è stata soccorsa. La 25enne è ora ricoverata in gravi condizioni agli Ospedali Riuniti di Bergamo. Sottoposta a un'operazione chirurgica, non è più in pericolo di vita, ma le ferite riportate hanno causato la perdita del bimbo.

Terrorismo islamico


MILANO - Due passeggeri partiti da Chicago sono stati arrestati all'aeroporto di Amsterdam perchè sospettati di terrorismo. Lo ha reso noto la Abc, precisando che gli arresti sono stati effettuati su richiesta delle autorità americane. I due uomini sono stati identificati come Ahmed Mohamed Nasser al Soofi, di Detroit, in Michigan, e Hezem al Murisi, la cui residenza non è stata resa nota. Secondo la Abc, Al Soofi sarebbe un cittadino dello Yemen.

LE «FALSE BOMBE» - I due si erano imbarcati su un volo della United Airlines partito da Chicago e atterrato in mattinata ad Amsterdam, e secondo quanto riferito dalle autorità olandesi sono sospettati di «preparazione di un attacco terroristico». Secondo le prime informazioni raccolte, uno dei due, Al Soofi, era partito verso Chicago da Birmingham, in Alabama, e nei suoi bagagli sarebbero stati rinvenute quelle che le autorità hanno definito «false bombe». Le autorità sospettano che potesse trattarsi di un «volo di prova» in preparazione di un attentato vero e proprio. Il Natale scorso era stato arrestato un giovane nigeriano partito proprio dall'aeroporto di Amsterdam e diretto a Detroit, in Michigan con l'accusa di voler mettere a segno un attentato in volo. Il giovane, Umar Faruk Abdulmuttalab, 23 anni, era stato trovato in possesso di un ordigno rudimentale nascosto nelle mutande. Quell'ordigno era sfuggito ai controlli aeroportuali.

CONTROLLI SUI BAGAGLI - Citando fonti americane vicine alle indagini, la Abc ha precisato che uno dei due arrestati era partito di Birmingham, in Alabama, caricando il bagaglio per Chicago. Ma all'aeroporto O'Hare di Chicago ha fatto il check-in per spedire il bagaglio prima all'aeroporto internazionale di Washington Dulles, quindi a Dubai, negli Emirati, senza però seguire il bagaglio. L'uomo infatti si è successivamente imbarcato da Chicago per Amsterdam, insieme all'altro arrestato. Quando le autorità hanno verificato che il passeggero non stava volando insieme alle sue valigie, hanno allora disposto la rimozione del bagaglio dal volo Washington-Dubai. Ulteriori controlli al bagaglio hanno escluso la presenza di esplosivi, tuttavia le autorità olandesi, in accordo con quelle americane, hanno fatto scattare gli arresti, senza fornire ulteriori dettagli.

Sulle espulsioni


Ha «il cuore stretto» Bernard Kouchner - l’ex french doctor delle Ong umanitarie diventato ministro degli Esteri - dopo le polemiche esplose intorno alla scelta di tolleranza zero nei confronti dei rom del governo di cui fa parte. Il dibattito a tratti violento, in patria e fuori, le critiche senza mezzi termini del Vaticano e del Comitato anti-discriminazioni dell’Onu lo hanno scosso. Tanto che, ha confessato alla radio Rtl, aveva anche pensato di dimettersi. A farlo desistere dal proposito, ha raccontato ancora Kouchner, è stata la preoccupazione per «l’efficacia» dell’azione governativa sulla questione rom, su cui lavora «da 25 anni» e di cui «bisogna assolutamente occuparsi molto di più». «È importante continuare. Andarsene, è come disertare, è accettare» ha concluso, precisando di «non avere emicranie o cefalee, né di sentirmi particolarmente depresso» riguardo alla propria posizione nell’esecutivo.

L’uomo simbolo dell’impegno della Francia per i diritti umani, e dell’apertura politica voluta dal presidente Nicolas Sarkozy all’inizio del suo mandato, ha così per la prima volta espresso in pubblico un malcontento che, a sentire le indiscrezioni riportate dalla stampa d’Oltralpe, durerebbe ormai da tempo, tanto da far ipotizzare a molti un suo addio al ministero in occasione dell’imminente rimpasto di governo.

Additato dai suoi predecessori Hubert Vedrine e Alain Juppè per una presunta perdita di prestigio e influenza della diplomazia francese, privato di dossier cruciali come il Medio Oriente e l’Africa a favore di due dei più stretti consiglieri di Sarkozy, Claude Gueant e Jean-David Levitte, Kouchner ha però sempre negato di essere in partenza, pur ammettendo di essere in una situazione non facile con l’Eliseo. Il tutto mentre il governo non mostra alcuna intenzione di tornare sui suoi passi sulla questione delle espulsioni.

lunedì 30 agosto 2010

Donne


L'accusa maggiormente reiterata contro il becero maschilismo, che le antiche femministe hanno mosso agli uomini, riguarda la vergognosa e atavica discriminazione applicata alle donne, relegate in due tranquillizzanti (per i maschi) categorie: le sante e le facili. Nella prima rientravano le madri e le sorelle, nella seconda tutte le altre. Un volgare pregiudizio, un umiliante divide et impera strategico per costringere le donne a vivere in perenne competizione tra di loro, lasciandolo indisturbato e saldo al potere. Sono trascorsi oltre trent'anni dalle prime prese di coscienza femmininile di tale radicata discriminazione nella discriminazione e molte cose sono cambiate nel costume e nel rapporto tra i sessi; le donne non sono più disposte a dichiararsi guerra per la conquista del compagno o per sottrargli fette di potere. Finalmente si è affermata la solidarietà di genere e mai più le donne vogliono subire l'insulto di finire catalogate e incasellate come oggetti acefali, docili e rassicuranti, ingessate nei soli due ruoli concepiti per loro.

In effetti l'emancipazione femminile ha messo l'uomo di fronte a scelte ben più scomode e tormentate di prima ma, paradossalmente, oggi una nuova apartheid inflitta dalle donne ad altre donne si è affermata in un certo ambiente insospettabile. E non parliamo di lavandaie che spettegolano davanti al bucato della vicina, che non regge la prova finestra; purtroppo le nuove "sante" occupano posti di rilievo nel gotha delle intellettuali antropologicamente superiori (tocca pur dirlo), sedicenti liberali e indefesse animatrici del dibattito politico-mediatico di questo ultimo anno.

Anche loro mirano al divide et impera ma non per un proprio tornaconto sessuale ma piuttosto per quello politico del proprio caro leader, un uomo all'attacco di un altro uomo. Donne di Fini che definiscono prone e facili le donne berlusconiane! Donne del futuro che per amore dedicano al loro leader espressioni come queste: «La lunga “lettera” di Gianfranco Fini propone dunque una “visione politica” ed anche un “sogno”, un “sogno sognato collettivamente” che “non può che essere un sogno politico”, di una “società più prospera, più moderna, più giusta e più libera”. Mera retorica? Questo è il linguaggio dei grandi leader occidentali.»

Oppure, sempre a proposito di Fini: «Per quanto riguarda “la vita privata”, non è tanto quella che mi interessa, quanto il percorso personale (che è fatto di privato che si intreccia con la tensione verso la dimensione pubblica); credo inoltre che dal punto di vista dell’efficacia della comunicazione si tratti di un passaggio importante.»

Su questa affermazione, che rende appena l'idea del trasporto che muove l'autrice, tanto dotta quanto naif, verso il divino presidente, è il caso di soffermarsi un istante, per andare a leggere qui come reagisce Fini quando qualcuno mette a disposizione dell'opinione pubblica il suo privato. Per tacere del controverso vissuto che potrebbe risultare inadeguato e poco edificante raccontato nella meravigliosa splendida lettera dedicata ai giovani nati nell'89, scritta da Fini e recensita senza reticenze e pudore muliebre dalla arcinota e virtuosa politologa Sofia Ventura. E' di tutta evidenza (?) che da oggi le donne non si divideranno in "sante e facili" ma, in funzione della lotta politica senza quartiere e in quota rosa, potremo distinguerle tra finiane (categoria superiore) e berlusconiane (categoria inferiore).

Ma c'è un paradosso al quadrato di cui l'antiberlusconismo femminile da destra a sinistra si fa fieramente portatrice: dopo aver graffiato a fondo le belle carni delle elette nel Pdl, tanto stupide da non voler tradire il capo libidinoso, talmente povere di spirito da non inchinarsi e provare gratitudine per la verità rivoluzionaria che viene loro rivelata a suon di insulti e dileggi per i loro tacchi a spillo e un recente passato poco encomiabile, genere escort, cosa fanno le nostre teste d'uovo sui loro giornali e media di riferimento? Ti elevano al rango di eroine interessanti, intelligenti e martiri tutte le escort, veline ed ex veline, distintesi per aver messo nei guai Silvio Berlusconi o per essere diventate compagne e sostenitrici di Gianfranco Fini.

E' chiaro che non è l'altezza del tacco o la testolina apparentemente frivola che offende l'orgoglio di genere delle signore grandi firme come Perina, Ventura, Ravera, Eduati, Dominijanni, eccetera, ma è lo stare dalla parte sbagliata, quella di Berlusconi. Passino armi e rossetto dalla parte di Fini e ogni inadeguatezza sarà esaltata, i demeriti perdonati e la dignità restituita!

Numeri


Solo il 49% dei cittadini europei considera “una cosa positiva” l’appartenenza del proprio paese all’Unione Europea, che ha subito un tracollo, quanto a fiducia riscossa tra i suoi cittadini, passando dal 48% rilevato nell’autunno del 2009 al solo 42% della primavera del 2010. Questi dati del sondaggio Eurobarometro (basati su ben 26.641 interviste ad altrettanti cittadini europei) sono sicuramente influenzati dal periodo del rilevamento (in piena crisi monetaria, causata dal possibile default della Grecia), ma sono anche estremamente indicativi del fallimento politico cui l’Europa rischia di andare incontro, innanzitutto sul piano interno. Addirittura il 75% degli intervistati, infatti, auspica una maggiore governance economica europea e proprio il fatto che questa, in realtà, non si vede, latita, è insufficiente, motiva poi la perdita di fiducia.

Non nuovi, non sorprendenti, i risultati di questo rilevamento ufficiale della Ue (presentati, però dalla stessa Ue, al solito, in modo edulcorato, in modo da nascondere l’evidente disagio diffuso nei suoi confronti) mettono all’ordine del giorno quello che i governi europei non riescono a mettere all’ordine del giorno: la necessità di fare chiarezza. L’Ue continua a fare finta di essere in cammino verso il certo approdo di una forma alta di unione politica, portato obbligato dell’unione monetaria e della “volontà dei padri”. Ma così non è. Dopo il fallimento della Convenzione Europea, non funziona neanche il Trattato di Lisbona, che definisce un cammino sostitutivo verso l’unità politica, tanto che, ogni volta che viene messo alla prova, si inceppa. Non ha funzionato durante la crisi greca (è bastato che la Merkel si impuntasse, per paura di elezioni regionali in Germania, per fare andare tutto a carte quarantotto), crea situazioni addirittura imbarazzanti sul terreno della politica estera (lady Ashton, ministro degli esteri Ue, è il personaggio più irrilevante della scena regionale mediterranea) e per di più, viene solo utilizzato da questo o quel commissario (in genere “de sinistra”), per mettersi in mostra criticando questa o quella politica nazionale sulla sicurezza. Le roventi accuse prima rivolte all’Italia, e ora alla Francia di Sarkozy per le espulsioni dei rom che delinquono o che non vogliono inserirsi, ne sono un poco onorevole esempio.

E’ insomma evidente che l’appartenenza nazionale, l’attaccamento stesso al concetto pieno di patria, non stanno affatto cedendo il passo ad un sentimento positivo nei confronti di un governo europeo che i cittadini continuano a sentire astratto, confuso e per di più, potenzialmente avverso, o quantomeno, totalmente estraneo. L’Ue, dunque, soffre di una forte crisi, la cui spinta più forte è il senso di appartenenza nazionale dei suoi cittadini, elemento sempre sottovalutato dalle opzioni illuministe degli europeisti. Questa è la ragione principale dello scollamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’idea stessa di una Unione Europea effettivamente governante e unita politicamente. Scollamento, di cui però le classi dirigenti europee, in particolare quelle più “europeiste”, cioè quelle di sinistra, non vogliono neanche prendere atto. Sarebbe bene, invece, che il tema venisse affrontato di petto, da sinistra, come da destra, spiegando ai cittadini europei la verità: l’Ue –giusto o sbagliato che sia- non riesce ad essere altro che un consiglio di amministrazione che governa solo e unicamente l’economia del continente. Per le utopie europeiste non c’è più spazio. Almeno per ora.

Cervelli in fuga (2)


Niente vesti stracciate, né invettive scandalizzate, né appelli a crociate per profezie alla Gheddafi. Nessuno come il cristiano deve rispettare l'imprevedibilità della storia. E, questo, sin dall'inizio: chi, all'apogeo dell'Impero romano, avrebbe preso sul serio l'annuncio che i fasti pagani avrebbero fatto posto all'adorazione di un oscuro predicatore ebraico, giustiziato con la pena infamante dei criminali senza cittadinanza? Trionfato, poi, il Cristianesimo, come credere a chi avesse annunciato che i luoghi stessi di Gesù, che le città convertite da Paolo, che le terre dei grandi Padri della Chiesa sarebbero stati sommersi da orde sbucate all'improvviso dalle profondità del deserto arabico e che avrebbero declassato il Cristo a semplice annunciatore di Muhammad, l'ultimo profeta?

La Provvidenza, nella prospettiva cristiana, ha percorsi spesso incomprensibili, le vie di Dio non sono le nostre. Dunque, non contrasta con la fede nel Vangelo nessuna possibilità storica: neppure quella annunciata da Gheddafi che ciò che resta di cristianità nell'Europa secolarizzata debba cedere alla fede che conquistò Gerusalemme, Costantinopoli, Alessandria, Toledo. Nessuno scandalo davanti alle esternazioni del raìs tripolino, almeno per chi crede in quel Nazareno che rifiutò di essere re, che impedì l'uso delle armi a sua difesa, che annunciò ai discepoli che sarebbero stati «piccolo gregge» e che avrebbero avuto la funzione di «sale» e di «lievito». Materie indispensabili, certo, ma solo in quantità ridotta. A ben pensarci, l'habitat naturale dei credenti in Colui che finì sulla croce non è la cristianità di massa, bensì la diaspora. Lo stesso Benedetto XVI sembra ipotizzare un futuro di comunità cristiane piccole e al contempo ferventi e creative: venga pure un destino minoritario, purché non marginale. Sale e lievito, ricordavamo. Dunque non fuori dalla storia, bensì nell'intimo stesso della pasta degli eventi umani per dare loro sapore e significato. Senza pretendere di imporsi, se non con la «debolezza» dell'annuncio pacifico e della persuasione fraterna.

Ma, per scendere dai cieli della teologia alla concretezza del presente: per quanto è dato scorgere, ci sono davvero le condizioni che potrebbero portare alla sostituzione dei campanili con i minareti? Lo storico sa bene che le conquiste islamiche dei primi secoli non possono aiutarci a ipotizzare un futuro: in Africa e in Medio Oriente, tra settimo e ottavo secolo, l'arrivo dei musulmani (scambiati spesso, tra l'altro, per cristiani eretici) fu facilitato dalle sette cristiane in lotta tra di loro e unite dall'odio contro Bisanzio e dalle comunità ebraiche perseguitate. Sempre la storia, poi, ci dice che l'Islam non riuscì mai a stabilizzarsi in Europa: ci vollero secoli, ma alla fine fu respinto dalla Spagna, dai Balcani, dalla Sicilia, da Malta. E nel cuore dell'Africa già cristiana, l'Egitto, secoli di lusinghe e di angherie non sono bastati a estirpare la fede nel Vangelo. Si dimentica inoltre troppo spesso che l'ostilità islamica per il cristianesimo è blanda rispetto all'autentico odio che contrappone le due tradizioni principali: il sunnita Gheddafi può predicare liberamente a Roma ma nessuno garantirebbe della sua vita se tentasse di pontificare nella Teheran sciita.

Per quanto conta, noi siamo tra coloro che pensano che la radicalizzazione attuale dell'Islam sia determinata non dalla sicurezza del trionfo ma dal timore - inconfessato, magari inconscio - dell'inquinamento, dell'assimilazione. Come dimostra in modo esemplare la parabola dell'Iran - spinto a stanare dal suo esilio un vecchio ayatollah che sembrava dimenticato e a cacciare lo scià perché «occidentale» - il mondo musulmano, in questo unito, è percorso dall'inquietudine che spinge al fanatismo. Non teme le nostre virtù, teme i nostri vizi. Non è preoccupato dalla nostra religione, ma dal nostro secolarismo. Se qualche discepolo del Corano immigrato tra noi giunge a uccidere la figlia perché veste, mangia, beve, amoreggia come le compagne di scuola, non c'è famiglia islamica in Occidente che non constati ansiosa quanto sia devastante per i figli la nostra way of life. L'Islam si regge sul legalismo, non può vivere senza il rispetto - da parte di tutti, ma proprio tutti - di una serie di norme: proprio ciò che è impossibile pretendere in una Europa, e in un'America, non solo libere ma sempre più «libertine». La nostra «società liquida» non sopporta ormai i precetti cristiani. Potrebbe accettare quelli coranici, ancor più rigorosi e imposti come legge garantita da lapidazioni, decapitazioni, impiccagioni?

Vittorio Messori

Liberal


La settimana scorsa Adriano Sofri e Gad Lerner sono intervenuti sulla questione dei Rom e la decisione di Sarkò di rimpatriarli, con due articoli apparsi su Repubblica. Gli autori hanno giocato la carta più facile, quella del razzismo, giudicando gli italiani un popolo stupido e ignorante. Vi suggeriamo di leggere questo editoriale di Charles Krauthammer come una risposta ideale all'elitismo dei nostri "commentatori morali" e alla crisi del pensiero liberal. I liberal sotto assedio sono senza dubbio una brutta immagine. Appena ieri tutto era speranza, cambiamento e ridare il potere al popolo. Ma questo 'popolo' si è mostrato davvero deludente. In soli 19 mesi, la riluttanza della gente ha trasformato l’ascesa dei liberal preconizzata da James Carville per i prossimi 40 anni in una piena ritirata. Eh sì, il popolo, i poveri, la gente di provincia, la folla “triste” (come la definì una volta memorabilmente in un'incauta circostanza Barack Obama) che si aggrappa “alle armi o alla religione o – questa parte viene ricordata meno – all’antipatia nei confronti della gente che non è come loro”. Si tratta di una maniera educata di dire: restano attaccati al loro bigottismo. E le confuse accuse di bigottismo sono precisamente il modo in cui i nostri attuali governanti e i loro numerosi aiutanti nei media reagiscono a una cittadinanza ribelle che insiste nell’avere un modo di pensare "scorretto".

- La resistenza alla vasta espansione del potere del governo, alla sua intrusione e al debito, come rappresentata dal movimento del Tea Party? Viene interpretata come il risentimento razzista nei confronti di un presidente di colore.

- Il disgusto e l’allarme nei confronti della mancata volontà del governo federale di frenare l’immigrazione illegale, così come dimostra la legge dell’Arizona? Puro nativismo.

- L’opposizione alla ridefinizione più radicale nella storia dell’umanità del concetto di matrimonio, così come è stato richiesto nella Proposition 8 in California? Omofobia.

- La contrarietà alla costruzione di un centro islamico e di una moschea di 15 piani nelle vicinanze di Ground Zero? Islamofobia.

Ora sappiamo perché il Paese è diventato ingovernabile”, cioè la scusa utilizzata l’anno scorso dai Democrats per giustificare il fallimento della loro governance: chi può governare un Paese di razzisti, nativisti, omofobi e islamofobi? E’ interessante notare che cosa unisce tutte queste questioni. In ognuna di esse, i liberal hanno perso le proprie argomentazioni nei confronti dell’opinione pubblica. La maggior parte di essa – spesso composta da una maggioranza sbilenca – si oppone all’agenda socialdemocratica del presidente Obama (come per esempio al piano di stimolo economico e all’Obamacare), e sostiene la legge in Arizona, si oppone ai matrimoni gay e rifiuta una moschea accanto a Ground Zero. Cosa fa un liberal a questo punto? Allontana le accuse di bigottismo e gli squilli di tromba che anticipano il dibattito e non dà alcun credito alla serietà e alla sostanza di qualsiasi argomentazione contraria. La più vulnerabile di queste grandi fanfare è, senza alcun dubbio, la carta del razzismo. Quando è nato il Tea Party – una reazione spontanea, perfettamente naturale e sorta senza alcun leader (nella tradizione americana), alla vasta espansione del governo che invece è intrinsecamente legata all’agenda di trasformazione degli orgogliosi proclami presidenziali – il gruppo di commentatori liberal ha giudicato il movimento come una banda di zoticoni bianchi e arrabbiati che dissimulano la loro antipatia nei confronti di un presidente di colore parlando furbescamente in termini economici.

Poi è arrivata la legge dell’Arizona e la legge del Senato num. 1070. Per la sinistra sembra impossibile credere che la gente di buona volontà possa difendere l’idea che: a) l’immigrazione illegale dovrebbe essere illegale; b) i controlli di frontiera effettuati dal governo federale non dovrebbe essere ostaggio delle riforme comprensive del settore (per esempio, quella dell’amnistia); c) ogni Stato ha il diritto di determinare la composizione della propria popolazione di immigrati.

Per quanto riguarda la “Proposition 8”, è davvero così difficile capire come la gente possa pensare che la scelta di un singolo giudice che ha ribaltato la volontà di 7 milioni di votanti sia un affronto alla democrazia? E che conservare la struttura della più antica e fondamentale di tutte le istituzioni sociali sia un merito, qualcosa di molto diverso dal supposto odio nei confronti dei gay, in particolare da quando il requisito del genere sessuale opposto ha caratterizzato virtualmente ogni società della Storia fino ad appena qualche anno fa? E ora la questione della moschea vicino a Ground Zero. L’intellighenzia è praticamente unanime sul fatto che l’unico fondamento alla sua opposizione è il bigottismo nei confronti dei musulmani. Una tale attribuzione compiaciuta di bigottismo rivolta ai due terzi della popolazione poggia sull’insistenza di una completa mancanza di connessione tra l’Islam e l’Islam radicale, un’affermazione che coincide perfettamente con la pretesa dell’Amministrazione Obama che siamo in guerra contro nient’altro che dei “violenti estremisti” dalle motivazioni impenetrabili e dalla fede indistinguibile. Coloro che rifiutano tale presupposto perché lo considerano sia ridicolo che politicamente corretto (una ridondanza ampiamente riconosciuta ) vengono definiti islamofobi, lo slogan del momento.

Il fatto che spesso si ricorra di riflesso all’esca più spicciola, quella della razza (con tutta una vivace varietà di forme), dimostra la corruzione del pensiero liberal e il collasso della fiducia che aveva in se stesso quando si scopre ripudiato talmente tanto. Infatti, come si può ragionare con una nazione di gentaglia che maneggia i forconi pieni di “antipatia nei confronti della gente che non è come loro” – ossia ispanici, gay e musulmani; un Paese che, come una volta ha sinteticamente spiegato Michelle Obama , “è completamente meschino”? Il prossimo novembre i Democrats verranno duramente sconfitti. Non solo perché l’economia è in brutte condizioni. E non solo perché Obama ha reinterpretato eccessivamente il suo mandato governando troppo a sinistra. I Democrats saranno sconfitti perché la colpa di questa punizione ricade sulle elite arroganti il cui disprezzo evidente nei confronti di una massa di plebei li porta a guardare con prevenzione e a non concedere alcuna serietà alle idee di coloro che osano opporsi.

Tratto da The Washington Post© - Traduzione di Fabrizia B. Maggi

Cervelli in fuga


ROMA — «Il mio ragazzo mi ha detto: finalmente ti sei coperta, prima per strada ti guardavano tutti...». Ha gli occhi verdissimi e ride, Rea Beko, 27 anni. Esce con il chador nero dall’accademia libica di via Caldonazzo. Sembra felice: «Mi sento purificata, ora faccio il digiuno, rispetto il Ramadan». Telecamere e microfoni la inseguono, ma lei sale muta sul pullman di «Hostessweb». Più tardi, però, ha voglia di parlare, di raccontare il suo giorno più lungo davanti a Gheddafi. «Il Colonnello — dice — è come uno di quei saggi antichi a cui si rivolgevano i cavalieri prima di andare in battaglia. Un saggio che dà consigli...». Laureata in scienze sociali all’università La Sapienza, frequenta un master in politiche pubbliche: «Il mio sogno è diventare sindaco di Roma», dice scherzando ma mica poi tanto.

Rea è nata a Tirana, Albania, ma vive in Italia da quando ha 15 anni. Papà imprenditore, mamma stilista, lei lavora come promotrice finanziaria. «Cominciai a leggere il Corano fin da piccola — racconta la biondissima neomusulmana — Prima ero cristiana ortodossa, ma in realtà tutte le religioni mi hanno sempre interessato, il buddismo, l’induismo, il cristianesimo, ho letto molto, ho studiato molto, forse perché sono nata in un Paese in cui non era così facile professare apertamente il proprio culto. Ma Dio è inspiegabile, non mi potete adesso chiedere di Dio, non è un cielo che si illumina all’improvviso». Il suo abbraccio all’Islam, così, è arrivato alla fine di un percorso, cominciato un anno fa con le lezioni di Corano del raìs e proseguito con i viaggi in Libia, ospite di Gheddafi insieme ad altre hostess come lei: «Ma voi sbagliate a fare distinzioni — avverte Rea —. Cristiani e musulmani, siamo tutte persone, anche la mia amica Clio Evans, hostess e attrice mezzo inglese e mezzo romana, è venuta in Libia a trovare Gheddafi. Anche a lei il Colonnello ha regalato una collanina d’oro con il suo ritratto, ma Clio è rimasta cristiana. E non per questo non siamo più amiche».

Fabrizio Caccia

domenica 29 agosto 2010

Coi sabotatori

Peccato che in italia ancora vige la libertà di pensiero e quella di parola... ma per certi individui, sarebbe meglio non avere nè l'uno e nè l'altra. E chissà perchè, tanti cattolici cominciano ad abbandonare il cattolicesimo. Soprattutto a causa di certe tonache... rosse. Si, dovrebbero essere rosse di vergogna quelle tonache.


Genova - "Da un parte l'auspicio che tutti facciamo è che si risolva la vertenza Fiat nel modo migliore per tutti, dall'altra parte le parole che il Capo dello Stato ha detto mi pare siano proprio una linea di azione valida per tutti". E' l'invito dell'arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, fatto a margine delle celebrazioni per il 520/mo anniversario dell'apparizione della Madonna della Guardia, a Genova. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva esortato affinché sui "tre lavoratori licenziati poi reintegrati a Melfi si rispetti la decisione dei giudici". Sulla vertenza Fiat e la disoccupazione crescente in Italia Bagnasco ha lanciato un appello alla politica: "Il lavoro è fondamentale per costruirsi una famiglia. Ripeto: speriamo che attraverso un dialogo insistente e intelligente si possa arrivare a una soluzione definitiva ed equa per tutti". "Una nuova classe politica, cristiana nei fatti non nelle parole, è un richiamo da sempre. Fa parte della fede di ogni credente essere in modo intelligente coerente con la propria fede e presente nelle diverse responsabilità sociali, civili e politiche". "E' indubbio - ha indicato il cardinale Bagnasco - che anche il mondo politico abbia bisogno sempre di presenze qualificate e coerenti; sia quelle che ci sono in questo momento, come quelle di ieri e come quelle di domani. Presenze qualificate affinché la storia proceda".

"Trascurando la famiglia la società si sgretola". "Trascurare la famiglia, ad esempio nelle sue esigenze economiche, significa sgretolare la società stessa" ha anche detto l'arcivescovo di Genova nell'omelia pronunciata al santuario. "Per contro - ha proseguito l'alto prelato - mettere in atto delle politiche adeguate ai reali bisogni della famiglia perché possa avere dei figli, significa guardare lontano, assicurare un corpo sociale equilibrato. Non si finirà mai di insistere perché le misure siano sempre più aderenti ed efficaci alla reltà della famiglia grembo della vita". Bagnasco ha anche osservato che se "l'Italia non gode di buona salute sul piano della natalità", "la Liguria si trova nelle primissime posizioni in quella che è una vera corsa verso la morte". "Per la verità - ha proseguito - i segni di una ripresa esistono anche da noi, e non solo grazie agli immigrati. Ma l'inversione di tendenza non è ancora decisa". "Il mondo - ha detto il cardinale Bagnasco - può guardare con fiducia al futuro finché un uomo e una donna uniranno le loro vite per sempre nel vincolo del matrimonio". "La famiglia fondata sul matrimonio, e in modo tutto speciale nel sacramento, é una prova che Dio continua ad amare il mondo, che ha fiducia nell'uomo, che esiste il futuro, che l'amore e la speranza sono più forti del male".

sabato 28 agosto 2010

I laureati

Assassini.

La tolleranza che uccide


Ancora una volta un bambino è morto nel rogo sviluppatosi in un campo nomadi abusivo. Questa la notizia di oggi. Ma io ho già scritto molti articoli per i bambini nomadi morti in un incendio. Per quelli morti a Roma, lo ricordo con tanta rabbia e con tanto dolore, questo è il terzo (e speriamo che almeno si salvi il fratellino rimasto gravemente ustionato). Avevo anche scritto che, almeno noi, gli italiani, non avremmo più sopportato simili morti e che chiunque difenda la cultura nomade ne è responsabile. Vogliamo, almeno (...)

(...) questa volta, provare a non fare un discorso fra sordi? Accantoniamo per un momento il dolore per i morti e guardiamo con obiettività e con realismo alle sofferenze, ai disagi, soprattutto all'impossibilità per questi bambini di partecipare oggi, ma soprattutto quando saranno adulti, alla vita contemporanea del mondo occidentale, con tutti i suoi difetti ma comune a tutti. Insomma «normale». Oggi il problema è venuto alla ribalta per l'ennesima volta anche a causa delle espulsioni decise dal governo francese, sulle quali gli Esseri astrali che vivono nelle torri di Bruxelles, alzano le loro critiche prive di concreto interesse per il bene delle persone, in nome del rispetto per le culture.

Bisognerà, allora, ripetere ancora una volta che quella dei «nomadi» è una cultura morta. Anche se nell'Unione europea sono state abolite le competenze delle Scienze sociali, soprattutto dell'Antropologia, perché l'unico sapere valido è quello stabilito dai politici in nome della «tolleranza», speriamo che ci sia almeno qualcuno fornito di buon senso che si renda conto di quanto sia assurdo protestare, come hanno già minacciato di fare, per le espulsioni decise dal governo francese. La banalizzazione del Bene può fare molto più danno del Male. Di fatto non indurre i nomadi a rinunciare al loro modo di vivere non è segno di bontà o di tolleranza, perché nell'organizzazione moderna della società europea non esiste più neanche uno dei fattori costitutivi di una cultura nomade.

Il nomadismo nasce dalla necessità di spostarsi continuamente laddove si vive appropriandosi dei frutti della foresta, cercando il posto adatto per l'allevamento dei cavalli, entrando nei luoghi abitati soltanto per il piccolo commercio di manufatti in rame e in vimini, e per farsi regalare qualche cosa dagli abitanti suonando qualche breve melodia o prevedendo il futuro a quelli che ci credono inventandolo sulle linee della mano. Tutte cose, com'è chiaro, che oggi non sono più possibili e che hanno ridotto i cosiddetti «nomadi» a fingere di esserlo soltanto perché la roulotte è una casa con le ruote, e perché l'elettricità e il gas hanno degli attacchi provvisori invece che fissi e perché raccattano rame o ferro qua e là (quando non lo rubano). Ma una cultura, se non fa storia tutti i giorni, se non si evolve insieme al contesto, se non produce, non inventa, è morta. Le culture muoiono. Questa è una constatazione che tutti possono fare. Le «riserve» degli Indiani d'America sono anch'esse riserve di cultura morta, quanto i campi nomadi.

Non si scontrano con la realtà della società moderna perché nell'immenso spazio degli Stati Uniti possono fingere di essere isolati nel loro mondo. Ma per i nomadi dell'Est europeo nelle nostre città questo non è possibile. Dunque l'unica cosa giusta da fare è sollecitarli a vivere nella società contemporanea, negli Stati di cui sono cittadini e di cui conoscono la lingua, abbandonando il costume nomade. Questo non è affatto offenderli, come vorrebbe il politicamente corretto, ma invitarli a essere «vivi»; il che non significa altro che fare quello che tutte le culture oggi viventi hanno fatto: consegnare alla storia il proprio passato, scrivendolo, raccontandolo, facendone arte, teatro, romanzo, avanzare nell'attualità portando con sé il passato, ma guardando al futuro. La Chiesa protesta contro le espulsioni dei nomadi perché è solita interpretare il Vangelo come difesa dei deboli. Ma stare dalla parte dei deboli non significa non insegnare loro come fare a non rimanere sempre «deboli». Nel caso particolare dei nomadi sarebbe dare loro la vita.

L'onu contro Sarkò


Anche le Nazioni Unite si uniscono al coro di condanne alle espulsioni dei Rom dalla Francia, e Parigi, già bacchettata da Bruxelles e dal Vaticano, nuota sempre più controcorrente. Non ci sono però segnali di tentennamenti, anzi. «Eccessivo e caricaturale» è stato definito il rapporto di Ginevra, mentre si va avanti con il giro di vite del presidente Sarkozy, che prevede la revoca della nazionalità ai naturalizzati colpevoli di gravi delitti. Dal comitato dell’Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale è arrivata un’esortazione ad «evitare» le espulsioni collettive dei Rom e i «discorsi politici discriminatori». Ma ieri è arrivata anche un’altra dura presa di posizione dal Vaticano, con il segretario del Pontificio consiglio per i migranti, mons. Agostino Marchetto, che ha condannato le leggi francesi contro «persone deboli e povere che sono state perseguitate». Quanto all’Onu, in Francia ha colpito il fatto che gli esperti del Cerd, per una volta e contrariamente alle abitudini, si siano pronunciati su una questione di bruciante attualità. A preoccuparli è il carattere «collettivo» delle espulsioni, che secondo loro sono portate avanti senza «libero assenso». Ciò dà l’impressione che la Francia se la prenda con «un gruppo» piuttosto che con individui e ciò è contrario alle convenzioni internazionali, secondo l’interpretazione del relatore, l’americano Pierre-Richard Prosper. Dalla patria dei diritti dell’uomo, che da giorni fa fronte alle accuse internazionali, alle «preoccupazioni» della Commissione europea e alla condanna del Vaticano, si è levata una replica secca e senza appello: «no, noi non accettiamo le caricature. No, noi non accettiamo l’amalgama - è stata la reazione indignata del ministro degli Esteri Bernard Kouchner - mai il presidente della repubblica ha preso di mira una minoranza sulla base della sue origini. Mai accetteremo che una minoranza venga sanzionata in quanto tale».

Colui che fu tra i fondatori di organizzazioni umanitarie come Medecins sans frontieres e Medecins du monde, ha ricordato poi: «vi mentirei e rinnegherei il mio impegno di una vita, se vi dicessi che queste polemiche sui Rom mi hanno fatto piacere». La Francia, giunta con i voli di ieri a 8.313 espulsioni di romeni e bulgari dal 1 gennaio, «rispetta scrupolosamente la legislazione europea e i suoi impegni internazionali in materia di diritti umani», ha sottolineato Bernard Valero, portavoce del Quai d’Orsay. Intanto, si va avanti con il giro di vite annunciato da Nicolas Sarkozy con il discorso di Grenoble a fine luglio, nato per reazione ad alcuni gravi episodi di criminalità. Il governo ha pronti un paio di emendamenti con i quali sarà possibile revocare la nazionalità ai naturalizzati che abbiano attentato alla vita di un rappresentante delle forze dell’ordine o che siano in flagrante reato di poligamia. Sembra però che i ministri degli Interni, Hortefeux, e dell’Immigrazione, Besson, siano in forte disaccordo.

venerdì 27 agosto 2010

Otto per mille senza musulmani


ROMA - «Di resistenze vere e proprie in questi casi non ce ne sono, no, però sa come si dice in politica: esistono altre priorità...». Il senatore pdl Lucio Malan, valdese, la racconta con ironia, i disegni di legge presentati assieme al costituzionalista del pd Stefano Ceccanti arriveranno in Parlamento alla riapertura dalle ferie per ratificare le nuove intese dello Stato con altre sei confessioni religiose, materia delicata anche perché le «intese» permettono di partecipare alla ripartizione dell'otto per mille. Tra i nuovi ingressi, peraltro, non ci saranno né erano previsti i musulmani, e l'imam Yahya Pallavicini, del Coreis, non nasconde l'amarezza: «Sarebbe opportuno che si iniziasse a lavorare per riconoscere giuridicamente quei musulmani moderati che da anni si sono dimostrati interlocutori affidabili e autonomi da ogni ideologia fondamentalista».

Finora, oltre alla Chiesa cattolica, lo Stato ha riconosciuto l'Unione delle comunità ebraiche italiane, la Tavola valdese, la Chiesa evangelica luterana, l'Unione delle Chiese avventiste del 7° giorno e le Assemblee di Dio, tutte leggi approvate tra gli anni Ottanta e Novanta. Le nuove intese - già definite dal governo Prodi e sottoscritte da quello Berlusconi il 4 aprile, con relativi disegni di legge approvati dal consiglio dei ministri il 13 maggio - aggiungeranno all'elenco cristiani ortodossi, buddisti, mormoni, induisti, apostolici e testimoni di Geova. Non è ancora finita, la Lega ha già pronti una serie di emendamenti, dai matrimoni all'ora di religione «ci sono una serie di questioni che meritano approfondimento», dice il capogruppo al Senato Federico Bricolo.

I cattolici come la Cei, peraltro, negano preoccupazioni per l'otto per mille, «siamo sempre stati favorevoli all'allargamento né ci preoccupa: è una conferma del sistema stesso, nessuno potrà accusare la Chiesa di volere un abito su misura», dice il vescovo Domenico Mogavero, responsabile degli Affari giuridici della Cei. Intanto, però, su una cosa tutti quanti appaiono d'accordo: per l'Islam la faccenda è ancora tutta da impostare. Lo dice il vicepresidente pdl della Camera, Maurizio Lupi: «La libertà religiosa non è in discussione. Ma il problema è duplice: da una parte non esiste un interlocutore unico, i musulmani sono divisi tra vari soggetti; e dall'altra c'è la questione oggettivamente delicata che riguarda la regolamentazione delle attività intorno alle moschee, non sempre di culto, talvolta contaminate dall'estremismo terroristico».

In più, aggiunge il pd Pierluigi Castagnetti, «non si può derogare sul riconoscimento esplicito, non solo implicito, della Costituzione: un riconoscimento formale che già ai tempi del tavolo aperto da Amato e fino ad oggi non è mai arrivato». Lo stesso vescovo Mogavero fa notare: «Poligamia, il ruolo della donna, l'educazione dei figli, ci sono norme e usi islamici che vanno contro i postulati fondamentali della nostra Costituzione: per questo l'impegno a rispettare la Carta è la condizione essenziale». Il tema è aperto, l'imam Pallavicini sospira: «C'è una responsabilità politica nel non voler arginare l'estremismo, le difficoltà esistono ma non è giusto che per una minoranza pretestuosamente maschilista o poligama ci vada di mezzo un milione di fedeli».

Gian Guido Vecchi

Cultura islamica


MILANO - Una giovane marocchina di 19 anni è stata aggredita a Torino nella serata di giovedì da un uomo che si è avvicinato in strada e le ha versato dell'acido muriatico addosso. La ragazza è stata ricoverata al Cto per le ustioni. Altre tre persone sono rimaste ferite dagli schizzi: una donna anziana e suo figlio, italiani, e un uomo marocchino. I tre, soccorsi dal 118, sono stati portati in ospedale, ma sono stati dimessi già in nottata. Hanno riportato qualche bruciatura guaribile in un paio di settimane.

L'AGGRESSIONE - Secondo le prime ricostruzioni, la ragazza - regolarmente residente sul territorio italiano - era appena scesa dal bus alla fermata di corso Principe Oddone e stava rincasando. Arrivata all'altezza del bar Lupi è stata avvicinata dall'aggressore che ha agitato una bottiglia contenente l'acido muriatico. In quel momento di fronte al locale si trovavano diverse altre persone. L'aggressore si è poi allontanato a bordo di una vettura di colore scuro. La ragazza marocchina si trova tuttora ricoverata in condizioni gravi, con ustioni su tutta la parte alta del corpo. I carabinieri della compagnia Oltredora che stanno effettuando le indagini su quanto accaduto non escludono nessuna ipotesi, tuttavia quella più accreditata resta quella passionale.

Olocausto rom


CITTÀ DEL VATICANO - La «persecuzione» di cui sono oggi vittime i rom è una sorta di nuovo «Olocausto». Lo afferma il segretario del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti, arcivescovo Agostino Marchetto, in un'intervista all'agenzia francofona I.Media. Nel deplorare le espulsioni dei rom dalla Francia, aggiunge Marchetto, il Vaticano non intende «entrare nelle discussioni politiche» ma solo proporre il suo punto di vista in tema di «difesa dei diritti umani e della dignità delle persone». La Chiesa «non è né di destra né di sinistra» aggiunge. «Quando ci sono delle espulsioni, ci sono delle sofferenze - osserva mons. Marchetto - e io non posso certo rallegrarmi delle sofferenze di queste persone, in particolare quando si tratta di persone deboli e povere che sono perseguitate, che sono vittime anch'esse di un 'olocausto' e vivono sempre fuggendo da chi dà loro la caccia».

I RIMPATRI - Nei giorni scorsi il governo di Parigi ha proceduto a rimpatriare centinaia di Rom. La politica di linea dura governativa ha sollevato forti critiche nell'opposizione di sinistra e in gruppi di destra, anche appartenenti alla stessa area conservatrice di Sarkozy. La Chiesa a sua volta ha espresso dure critiche, in ultimo con l'arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois che ha detto che la repressione, in particolare contro i rom, anche se legale, ha creato un "clima insano". Ma un sondaggio dell'istituto Csa, condotto tra il 24 e il 25 agosto e pubblicato da Le Parisien, ha rilevato come il 48% degli intervistati appoggi la condotta di Sarkozy, contro il 42% che la osteggia.

Nomadi


ROMA - Un bimbo di 3 anni morto carbonizzato e il fratellino di 4 mesi ricoverato al Gemelli con ustioni sul 40% del corpo. Notte di tragedia in un campo nomadi abusivo alla periferia di Roma, in zona Eur, in via Ruggero Ercole Morselli. All'1,30, per cause non ancora chiare, un incendio è divampato nell'accampamento non autorizzato che si trova in via Morselli, nella zona della Muratella, poco distante dal campo della Muratella. Le fiamme hanno distrutto quattro baracche. I vigili del fuoco sono arrivati verso l'una e trenta nel campo nomadi con quattro mezzi: quando hanno concluso le operazioni di spegnimento, hanno trovato, in una delle baracche, il corpo senza vita di uno dei due bambini.

I SOCCORSI - II figlio più piccolo della coppia, nato a Roma il 24 maggio scorso, è stato invece trasportato prima al San Camillo e poi trasferito al reparto di terapia intensiva del Gemelli. Le sue condizioni sono gravi, ma non sarebbe in pericolo di vita. I genitori sono stati invece accompagnati al pronto soccorso del Sant'Eugenio e dimessi poco dopo con 25 giorni di prognosi per ustioni di secondo grado. Delle indagini si occupano i carabinieri del Nucleo investigativo e della stazione Torrino nord.

NAZIONALITA' STRANIERA - Non è stato possibile accertare l’identità esatta delle persone coinvolte. L’uomo, che sarebbe il padre del bimbo ricoverato, si è dichiarato di nazionalità straniera; il bimbo morto sarebbe il figlio maggiore della coppia.

L'INSEDIAMENTO - L'insediamento abusivo di via Morselli, dove la scorsa notte è morto carbonizzato un bambino di 3 anni e sono rimasti ustionati il fratellino di 3 mesi (e non 4 come si è appreso in precedenza) e i genitori, è a poca distanza dal campo nomadi della Muratella, a circa un paio di chilometri. In via Morselli vivono centinaia di romeni in una quarantina di baracche. I carabinieri e il nucleo investigativo dei vigili del fuoco sono impegnati per i rilievi; i vigili urbani hanno isolato l'area per evitare che curiosi e fotoreporter possano avvinarsi.

giovedì 26 agosto 2010

Piccoli litigi...


MILANO - È iniziata in una lite per un banale incidente. Si è trasformata in tragedia. Vi ha perso la vita un 49enne originario di Castellafiume, in provincia dell'Aquila, in Abruzzo, che viaggiava, insieme alla moglie di 45 anni, su un furgone. È avvenuto a sulla A22, l'autostrada del Brennero, alla barriera di Vipiteno. Il conducente del furgone, un italiano di 49 anni, si è sdraiato davanti al tir, mentre questo era fermo al casello autostradale di Vipiteno, per obbligare il camionista a costatare il danno. Il mezzo pesante è però ripartito uccidendolo sul colpo. Il camionista, un romeno di 31 anni, è stato arrestato per omicidio volontario. Tutto era iniziato alle 1.20 di mercoledì notte all'area di servizio Trens Est, poco lontano dal confine di Stato. Durante una manovra il tir con targa spagnola appartenente alla ditta di trasporti Sm Transinternational Express avrebbe strisciato la fiancata del furgone Fiat Ducato guidato da Moreno Mariani, di Castellafiume in provincia dell'Aquila. È nato un diverbio tra l'italiano e il camionista.

Il tir è ripartito senza aver constatato il danno. Il conducente del furgone, che era in compagnia della convivente, non si è arreso e ha inseguito il mezzo pesante. Quando questo dopo solo circa cinque chilometri si è fermato alla barriera autostradale di Vipiteno per pagare il pedaggio, Mariani è sceso dal furgone. Approfittando dalla sosta ha raggiunto a piedi il tir per invitare il camionista a visionare il danno. Questo si è però rifiutato. A questo punto Mariani si è sdraiato per terra per impedire che il tir ripartisse. Il camionista ha però ripreso la marcia passando con il mezzo sopra all'uomo, uccidendolo sul colpo, davanti agli occhi della convivente e di alcuni casellanti. Sul posto sono subito intervenuti la polizia stradale di Vipiteno e la Croce bianca, ma per l'uomo non c'era più nulla da fare. La sua compagna, di 45 anni, ha subito un forte choc ed è stata ricoverata in ospedale. Il camionista, accompagnato nella caserma della polizia stradale ed interrogato dal pm Giancarlo Barmante, ha negato di aver volontariamente investito il conducente del furgone, ha infatti dichiarato di non averlo visto disteso per terra davanti al suo tir. Il magistrato ha anche sentito i testimoni per ricostruire la vicenda nei minimi dettagli. Il camionista è stato infine arrestato per omicidio volontario e accompagnato al carcere di Bolzano.

Talebani, alluvioni e aiuti umanitari


MILANO - È «inaccettabile» la presenza degli stranieri che vogliono portare aiuti umanitari alle popolazioni alluvionate in Pakistan. Lo ha detto il portavoce dei talebani, Azam Tariq, contattato telefonicamente dall'agenzia Associated Press. Per chiarire il concetto, Tariq ha aggiunto che, quando «i talebani utilizzano certe parole - inaccettabile - , tirate voi le conclusioni». Secondo Tariq gli Stati Uniti e le nazioni che hanno aderito alla richiesta di aiuti del Pakistan, dell'Onu e di numerose organizzazioni umanitarie, con la scusa di portare aiuti umanitari in realtà hanno «altre intenzioni». Gli Usa hanno lanciato l'allarme per possibili attacchi da parte del gruppo Tehrik-e-Taliban contro gli operatori umanitari stranieri. Le alluvioni hanno colpito oltre 17 milioni di persone e provocato almeno 1.500 morti.

AIUTI - Gli Usa hanno finora stanziato quasi 800 milioni di dollari e mobilitato uomini e mezzi per il soccorso alle popolazioni pakistane, soprattutto delle zone settentrionali, alcune delle quali sotto l'influenza dei talebani, colpite da spaventose alluvioni monsoniche all'inizio di agosto. La Croce Rossa Italiana rinnova l'appello per raccogliere fondi in favore delle popolazioni colpite dalle devastanti inondazioni in Pakistan. È possibile donare attraverso le seguenti modalità: donazione online causale Pro emergenza Pakistan www.cri.it; bonifico bancario causale Pro emergenza Pakistan IBAN IT66 - C010 0503 3820 0000 0218020. L'Ong Agire e altre cinque del suo network impegnate in Pakistan hanno raccolto solo 100 mila euro dopo l'appello lanciato sei giorni fa. Donazioni ad Agire con carta di credito al numero verde 800.132870 Donazioni online dal sito internet www.agire.it. Versamento con bollettino postale sul conto corrente n. 4146579 intestato a AGIRE onlus, via Nizza 154 - 00198 Roma. Causale Emergenza Pakistan Bonifico bancario sul conto BPM - IBAN IT28 I 05584 03208 000000000096. Anche Medici senza frontiere (Msf) continua ad aumentare le sue attività nelle zone colpite e si prepara ad estenderle ad altre aree dove migliaia di persone sono ancora escluse da ogni tipo di assistenza. Per sostenere gli interventi di Msf in Pakistan: www.medicisenzafrontiere.it. Numero verde: 800.99.66.55 Il direttore esecutivo dell'Unicef, Anthony Lake, ha detto che se il mondo non risponderà immediatamente all'emergenza Pakistan, più di 3,5 milioni di bambini corrono il serio rischio di contrarre malattie mortali come dissenteria e colera perché costretti a bere acqua contaminata. La Caritas segnala in una nota «una fiammata dei prezzi di tutti i beni di prima necessità. Inoltre, il movimento di migliaia di sfollati sta causando una fortissima pressione logistica e sociale su città e territori che non sono stati direttamente toccati dalle inondazioni».

PIENA - Ora la piena dell'Indo si sta spostando a sud e arriva a minacciare Hyderabad, città di 2,5 milioni di abitanti. Secondo quanto riferiscono gli organi d'informazione locali, nella parte occidentale della città il fiume - che in condizioni normali è largo tra i 200 e i 300 metri - ha raggiunto una larghezza di 3,5 chilometri. Le acque hanno oltrepassato i livelli di guardia di uno sbarramento che si è già rotto in diversi punti nonostante l'intervento dell'esercito per rinforzarli. Diversi villaggi nei dintorni di Hyderabad sono già stati allagati e la popolazione è stata trasferita in zone più sicure. Il governo ha disposto l'evacuazione di circa 400 mila persone nelle regioni del sud. Le autorità hanno messo in allerta le popolazioni delle città di Sujawal, Mirpur Bathoro e Daro consigliando agli abitanti di mettersi in salvo in luoghi più sicuri. Dalla cittá di Shahdadkot sono già state messe in salvo 100 mila persone.

Il nuovo pd

... e nel frattempo con queste geniali idee antiberlusconiste e ammucchiate varie, il centrosinistra continuerà a perdere elezioni su elezioni. Se non altro, la situazione italiana non peggiorerà più di adesso. E il Pdl, anche coi cocci e gli strascichi, continuerà a governare senza grossi problemi d'opposizione. Bersani, grazie di esistere...


Roma - Bersani ci riprova e lancia la solita idea: una santa alleanza contro Berlusconi, un nuovo Ulivo per mandare a casa il governo. Se si andasse a elezioni anticipate "con questa sciagurata legge elettorale" il Partito democratico proporrebbe un’alleanza democratica per sconfiggere il populismo: lo spiega Pier Luigi Bersani, leader del Pd, nella sua lunga lettera al quotidiano la Repubblica. In quel caso, dice, "la nostra proposta avrebbe la stessa ispirazione che oggi ci fa proporre un governo di transizione".

Alleanza democratica. E quindi, dice ancora il segretario democratico, "noi proporremmo un’alleanza democratica per una legislatura costituente. Un’alleanza capace di sconfiggere il populismo, capace di riaffermare i principi costituzionali, di rafforzare le istituzioni rendendo più efficiente una salda democrazia parlamentare (a cominciare da una nuova legge elettorale) e di promuovere un federalismo concepito per unire e non per dividere". Una simile proposta potrebbe essere "un patto politico" vero e proprio oppure guardare a "forme più articolate di convergenza", cioè "potrebbe coinvolgere - chiarisce Bersani - anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto politico normale (come già avviene in Europa) avrebbero un’altra collocazione". Ma i primo passo, per rendere la sinistra capace di adottare una simile strategia, è "la proposta di un percorso comune delle forze di centrosinistra", che però "dovrebbe lasciarci definitivamente alle spalle l’esperienza dell’Unione e prendere semmai la forma e la coerenza di un nuovo Ulivo".

Pdl: "La solita ammucchiata". "Siamo alle solite. Al di là delle fumisterie, delle formule politiciste, del gioco tutto italiano di cambiare il nome alle cose, Pier Luigi Bersani ripropone la solita vecchia logica, il solito schema stantio, e cioè un’ammucchiata in salsa antiberlusconiana, che unisca tutto e il contrario di tutto". Lo dichiara Daniele Capezzone, portavoce Pdl. "Ma gli italiani - dice - hanno ripetutamente bocciato questa proposta, ed è avvilente che, dopo mesi di silenzio, il leader del Pd che aveva vinto il congresso su una linea riformista non sappia trovare altro che riscaldare la solita minestra".

Sulla moschea a Ground zero


Il discorso del sindaco Bloomberg punta sulla libertà come valore fondamentale e distintivo della società americana. Ma permettere la costruzione di una moschea a Ground Zero non ha niente a che vedere con tutto questo. Non è la costruzione di una nuova moschea a Manhattan ad aver sollevato la polemica. Se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi, è altrettanto vero che tutti i terroristi dell'11 settembre erano musulmani. Costruire una moschea a Ground Zero è una vittoria per al Qaeda.

Questo è un ampio estratto del discorso che il sindaco di New York ha tenuto in occasione della cena annuale per celebrare la fine del Ramadan, ospitata nella Gracie Mansion, la sua residenza ufficiale. All’incontro erano presenti molti leader della comunità musulmana di New York. L’America è una nazione di immigrati e nessun posto spalanca le porte al mondo più di New York. Gli Stati Uniti sono la terra delle opportunità e nessun altro luogo offre ai suoi abitanti più occasioni per inseguire i sogni che New York. L’America è la culla della libertà. Nessuno la difende con più ardore o è stato attaccato con più ferocia a causa della sua libertà, come New York. Nelle ultime settimane è sorto un dibattito che va al nocciolo di chi siamo come città e come Paese. La proposta di costruire una moschea e un centro comunitario a Lower Manhattan ha generato un dibattito nazionale sulla religione in America e poiché il Ramadan offre lo spunto per una riflessione vorrei discuterne. Ci sono persone di buona volontà in entrambi gli schieramenti e auspico che il dialogo possa continuare in modo civile. Penso che la maggior parte delle persone sia d’accordo sulle due questioni fondamentali: la prima è che i musulmani hanno il diritto garantito dalla Costituzione di costruire una moschea a Lower Manhattan e, secondo, che il luogo del World Trade Center è un terreno sacro. L’unica domanda che abbiamo dinanzi è: come onoriamo quel terreno? Dopo gli attentati, alcuni sostennero che tutta la zona dovesse essere riservata a un monumento. Decidemmo però che il modo migliore per onorare coloro che abbiamo perso e per battere i nostri nemici, era costruire un monumento commovente e ricostruire l’area. Volevamo che quel posto ricordasse al mondo che questa città non dimenticherà mai i suoi morti e non smetterà di vivere. Abbiamo promesso di riportare in vita Lower Manhattan - più forte che mai - come simbolo della nostra sfida e l’abbiamo fatto. Oggi, e più di prima, è una comunità di vicini con più persone che là vivono, lavorano, giocano e pregano.

Ma se sosteniamo che una moschea e un centro comunitario non dovrebbero essere costruiti vicino al perimetro del World Trade Center, comprometteremmo il nostro impegno per combattere il terrore con la libertà. Colpiremmo i nostri valori e i principi per cui tanti eroi sono morti per proteggerli. Alimenteremmo le impressioni sbagliate che alcuni americani hanno dei musulmani. Manderemmo un segnale al mondo che i musulmani americani sono uguali per la legge, ma diversi agli occhi dei loro compatrioti. E consegneremmo un prezioso strumento di propaganda ai reclutatori dei terroristi che diffondono falsità dicendo che l’America è in guerra con l’Islam. L’Islam non ha attaccato il World Trade Center, è stata Al Qaeda. Coinvolgere tutto l’Islam nelle azioni di pochi che hanno deviato da una grande religione è disonesto e non americano. Proprio in questo momento, ci sono giovani americani - alcuni dei quali musulmani - che sorvegliano le libertà in Iraq e Afghanistan e nel mondo. Uomini e donne del nostro esercito sono impegnati a combattere per i cuori e le menti. E la loro più grande arma è la forza dei valori americani che hanno sempre ispirato persone nel mondo. Ma se noi non mettiamo in pratica in patria ciò che predichiamo all’estero - se non guidiamo con l’esempio - miniamo i nostri soldati, gli scopi della nostra politica estera e la nostra sicurezza. In un’altra epoca, con sfide internazionali diverse per il Paese, il Segretario di Stato del presidente Kennedy, Dean Rusk, spiegò al Congresso perché è importante essere all’altezza dei nostri ideali in patria. Disse: «Gli Usa sono considerati la dimora della democrazia e l’avamposto della battaglia per libertà, diritti umani e dignità. Ci è richiesto di essere un modello».

Quasi cinquant’anni più tardi, queste parole risuonano ancora vere. Nel combattere i nemici non possiamo affidarci interamente al coraggio dei soldati o all’abilità dei diplomatici. Tutti noi dobbiamo fare la nostra parte. Come abbiamo combattuto il comunismo mostrando al mondo la forza del libero mercato e delle libere elezioni, così dobbiamo combattere il terrorismo mostrando il potere della libertà religiosa e la cultura della tolleranza. La libertà e la tolleranza sconfiggeranno sempre la tirannia e il terrorismo. Questa è la grande lezione del XX secolo e non dobbiamo abbandonarla nel XXI. Capisco l’impulso a cercare un altro luogo per la moschea. Comprendo il dolore di coloro che sono spinti da una perdita grande. Ci sono persone di ogni fede che sperano che una compromesso metterà fine al dibattito. Ma non sarà così. Perché poi la questione muterà: quanto grande dovrebbe essere l’area bandita alla moschea attorno al World Trade Center? Già c’è una moschea a quattro isolati da là. Dovremmo spostarla? Siamo dinanzi a una verifica della nostra adesione ai valori americani. Dobbiamo avere il coraggio delle convinzioni e fare ciò che è giusto, non ciò che è facile. E riporre fiducia nelle libertà che hanno sostenuto questo grande Paese per oltre 200 anni.

I primi coloni approdati sulle coste Usa aspiravano alla libertà religiosa e i padri fondatori scrissero una Costituzione che la garantiva. Fecero sì che al governo non sarebbe stato permesso preferire una fede piuttosto che un’altra. Tuttavia, non molto tempo fa, ebrei e cattolici dovettero superare stereotipi e costruire ponti verso coloro che li consideravano con sospetto e non pienamente americani. Nel 1960 molti temevano che Kennedy avrebbe imposto la legge del Papa all’America. Ma egli ci insegnò che la devozione a una religione di minoranza non è un ostacolo al patriottismo. È una lezione che dobbiamo aggiornare oggi ed è nostra responsabilità accettare la sfida.

La repubblica - Federico Rampini: "Quando Ground Zero era una cittadella araba"

Il pezzo di Rampini punta sul passato multiculturale della zona, raccontando come, nell'800, fosse stata battezzata 'Little Syria'. Come si può leggere nel pezzo, "l´impronta araba sul quartiere non coincideva con un influsso islamico. All´origine l´immigrazione a New York in provenienza dal Medio Oriente, in prevalenza dalla Palestina, era dominata da famiglie di religione cristiana. Anche siriani e libanesi erano soprattutto di fede cristiana. (...) I musulmani rappresentavano solo il 5% sulla popolazione araba di Manhattan tra fine Ottocento e primo Novecento. Non risulta che ci fosse una moschea, mentre tre chiese servivano i libanesi e i siriani.". Se anche la maggioranza degli immigrati fosse stata musulmana, non cambierebbe la situazione. La polemica sulla costruzione della moschea a Ground Zero non ha niente a che vedere con libertà di espressione e di professare la propria fede. E' la scelta del luogo a lasciare perplessi. Ai futuri gestori del Cordoba Center è stato proposto di costruirla in un altro sito, la risposta è stata negativa. Ground Zero è un luogo fortemente simbolico, costruire una moschea là, significa costruire un monumento al terrorismo di al Qaeda.

Ground Zero come Damasco o Beirut? Non è una profanazione, è solo un ritorno al passato. Le polemiche sulla moschea da costruire a due isolati dall´ex-cratere dell´11 settembre si arricchiscono di un nuovo colpo di scena. A movimentare la controversia stavolta non è l´intervento di Hamas, o il contributo di capitali sauditi, o la scomunica di qualche leader della destra repubblicana. È dagli archivi del Museum of the City of New York che riemerge una litografia di fine Ottocento intitolata "La Colonia Siriana". Il disegnatore, dal nome non proprio anglo-protestante (Bengough), illustra una scena tipica di una città araba. In primo piano una donna col velo. Sul retro un anziano col fez, seduto davanti all´uscio di casa, intento a fumare il narghilé. Mercanti e bancarelle come si vedono a Marrakech: stessa frutta esotica, stesse spezie, stessi tessuti colorati. Ma la scena del quadro, che il New York Times riproduce in prima pagina, è ambientata a Washington Street. Nella punta meridionale di Manhattan, vicino alla sede del municipio.

Pochi isolati a Sud di Ground Zero, due secoli fa c´era il quartiere "Little Syria". Un pezzo di mondo arabo era a casa sua lì, molto prima che quella diventasse l´area del World Trade Center e dei potentati finanziari di Wall Street. Lo ricorda lo storico Jabaly Orfalea, autore di un saggio su "Gli Arabi Americani" e lui stesso di origini siriane. «Washington Street era una enclave di Medio Oriente dove gli arabi facevano commercio ambulante, lavoravano in misere botteghe artigianali, vivevano in dormitori collettivi. Mia nonna Jabaly Orfalea, arrivata a New York nel 1890, passeggiava per Washington Street offrendo la sua merce ai passanti». Il giornale più diffuso del quartiere si chiamava Al-Hoda. Le insegne dei negozi portavano i nomi dei Fratelli Sahadi, di Noor & Maloof, di Rahaim & Malhami. Oppure erano semplicemente scritte in arabo, incomprensibili per il resto della popolazione newyorchese. Uno studioso della storia cittadina, Konrad Bercovici, nel 1924 descriveva «le grida in arabo delle mamme che chiamavano i bambini, mescolate con le note di jazz di qualche locale, e con le bestemmie omeriche di un camionista» (la parte araba confinava con il quartiere greco).

A "Little Syria" i linotipisti delle tipografie adattavano le macchine per stampare in caratteri arabi anziché latini, nella casa editrice di Naoum Salloum Mokarzel. Lo stesso New York Times in un articolo del 1948 cantava le lodi del suo concorrente locale in lingua araba, Al-Hoda: «Ha consentito e stimolato una straordinaria crescita del giornalismo arabo». L´archivio del New York Times ha foto di pasticcerie arabe con le caratteristiche baklava, rosticcerie con la carne marinata e aromatizzata alla libanese, la shawarma. Datate del primo Novecento. A poche centinaia di metri da dove sarebbero sorte, ma molto più tardi, le Twin Towers.

A onor del vero l´impronta araba sul quartiere non coincideva con un influsso islamico. All´origine l´immigrazione a New York in provenienza dal Medio Oriente, in prevalenza dalla Palestina, era dominata da famiglie di religione cristiana. Anche siriani e libanesi erano soprattutto di fede cristiana. Al numero 103 della Washington Street c´era la cappella di San Giorgio, di rito melchita. Altri erano maroniti. C´erano anche arabi protestanti, convertiti dai missionari occidentali che a quell´epoca erano attivi nelle terre dell´Impero ottomano decadente. I musulmani rappresentavano solo il 5% sulla popolazione araba di Manhattan tra fine Ottocento e primo Novecento. Non risulta che ci fosse una moschea, mentre tre chiese servivano i libanesi e i siriani. Ma ritrovare quelle immagini d´epoca è una lezione. «Serve a ricordare - scrive David Dunlap sul New York Times - che questa città è fatta a strati, proprio come una baklava. Nessuno ha dei diritti esclusivi o definitivi su questo o quel quartiere».

L´aggressione di un tassista musulmano pugnalato da un cliente ieri a Manhattan ha rilanciato la paura che questo paese sia attraversato da un´ondata di "islamofobia". Ma è una psicosi contraddetta dai fatti. Solo nel 2001, l´anno dell´attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle, l´Fbi registrò un balzo nelle aggressioni o minacce verbali contro cittadini di fede musulmana: +1.600%. Una percentuale che fa impressione ma il numero assoluto era basso: 481 casi. Assai meno dei "reati di odio" contro i neri o i gay. Passato lo choc dell´11 settembre, già nel 2003 le aggressioni contro musulmani erano ridiscese a 149. Negli anni successivi si sono assestate sulla media di sempre, circa un centinaio all´anno. Su una popolazione americana di 300 milioni, con oltre 5 milioni di musulmani praticanti e dichiarati, non si può parlare di un´ondata di intolleranza. Come ai tempi in cui la nonna siriana Jabaly Orfalea sbarcò nella "Little Syria" di Manhattan per sfuggire alla miseria, all´oppressione e all´intolleranza religiosa, per molti arabi l´America è un paese più ospitale della loro terra d´origine.

La distruzione delle donne


La libertà finisce anche quando non puoi più colpire un pallone di testa. Le giocatrici di calcio dell’Iran non lo faranno più. Per paura di qualcuno, non di qualcosa. Non è il pallone che fa male, è il terrore che succeda quello che è successo qualche giorno fa: la palla che fa scivolare il copricapo con cui sono costrette a giocare, un pezzettino di capelli si vede. La normalità per chiunque altro al mondo è un problema per chi sa che quella ciocca innocente possa valere un rimprovero, o forse di più una punizione.

Le foto raccontano molto di più di quello che fanno vedere. Dicono che spesso ci dimentichiamo delle donne che vivono nello spavento continuo, si muovono sperando che non ci sia vento, che nulla alzi i loro veli. Uno, due, tre: la sequenza contiene il fatto, ma soprattutto la reazione. Perché ormai non ci colpisce neanche più che delle atlete debbano giocare a calcio tutte coperte: nessuno s’indigna, nessuno protesta, nessuno vieta. La Fifa una volta voleva addirittura che le donne giocassero con le gonne per attirare più pubblico e adesso tace di fronte alle divise da sciatrici che alcuni paesi impongono alle loro sportive. Ecco, ammesso che si possa accettare una cosa così, come fai ad accettare quello che queste foto mostrano così chiaramente? La ragazza iraniana che colpisce di testa facendo cadere inavvertitamente il copricapo si gira di spalle alla telecamera per non farsi vedere, poi soprattutto, viene soccorsa immediatamente dalle compagne che cercano di coprirla. È l’istinto di protezione, una solidarietà sincera, immediata, non richiesta eppure così angosciante. Mostra l’ansia, il tormento, l’incubo delle donne che non sono libere di essere normali.

Il mondo vuole trattare con l’Iran, vuole parlare con Teheran, pensa di convincere il governo di Ahmadinejad a smetterla di essere una minaccia per l’Occidente però sta zitto di fronte a una cosa del genere. Il silenzio è l’imbarazzo collettivo e contemporaneamente il lasciapassare dell’oppressione. È la complicità. È assenso implicito ai soprusi e al clima di paura che Teheran fa vivere ai suoi cittadini. Ecco perché è terrorizzata l’espressione del volto della giocatrice che aiuta la compagna a coprirsi prima che sia troppo tardi. Sa che se qualcuno davanti alla tv vede quelle immagini è finita: la compagna sarà giudicata immorale e quindi da punire il fatto di aver perso il copricapo in un’azione da gioco. Il disonore della normalità. Quell’espressione preoccupata è l’aiuto che queste ragazze chiedono senza la possibilità di chiederlo usando la voce. Ecco, la risposta è il silenzio. Non c’è censura globale, non c’è neanche il rimbalzo su internet di immagini così agghiaccianti. Solo il sito di Repubblica ha il merito di metterle in rete. Poi il vuoto. Poi niente. È già un miracolo che qualcuno non abbia invocato le legittime tradizioni culturali e religiose dell’Iran. Come per Alì Karimi, anche lui calciatore iraniano, anzi il più forte calciatore iraniano contemporaneo: licenziato dalla sua squadra, lo Steel Azin di Teheran perché ha bevuto un bicchiere d’acqua durante il Ramadan e riabilitato solo dopo che i compagni l’hanno difeso in blocco: «Abbiamo mangiato e bevuto tutti». Prima della retromarcia Karimi ha dovuto vedere anche la tv pubblica che mostrava a tutto il paese il peggio della sua carriera: gol sbagliati, falli, errori. Come a dire: ecco chi è questo giocatore che non rispetta le regole e non si comporta come dovrebbe.

Karimi e la sua collega donna dovrebbero essere i simboli della libertà che non c’è. La rivoluzione verde, ha vinto il silenziatore imposto, ha stravinto la repressione. La prova è questa sequenza che fa paura per la paura che le si legge oltre la superficie. Non c’è nulla di naturale, nulla di accettabile, nulla di nulla. C’è solo la dimostrazione che vivere in Iran significa avere paura di colpire una palla di testa anche se giochi a pallone, o di bere un bicchiere d’acqua d’estate dopo un allenamento, dopo una sudata, dopo qualunque cosa. Non c’è religione, non c’è cultura, non c’è niente. C’è terrore, solo quello.