domenica 28 febbraio 2010

Straziante appello

La mauritania è considerato uno dei tanti posti pericolosi. Il tizio c'è passato con la moglie per raggiungere i familiari di lei. E adesso l'italia "deve" tirarli fuori dai guai? Mi dispiace ma il governo italiano non dovrebbe fare proprio nulla a riguardo. Specie quando si tratta di terrorismo islamico.

Scavalcare le leggi

La Consulta beffa le Camere: precari assunti dalle toghe di Anna Maria Greco

Roma - Una sentenza della Corte costituzionale riapre le porte della scuola ai precari. Elimina, infatti, il blocco delle assunzioni a tempo determinato di insegnanti di sostegno, stabilito con la finanziaria 2008 dal governo Prodi. Vuol dire che migliaia di nuovi precari potranno entrare nelle scuole, senza concorsi ma per decisione discrezionale dei presidi, con le ripercussioni prevedibili sul bilancio dello Stato. In tempi di crisi economica e di tagli alle spese, dunque, gli effetti di questa sentenza, scritta dal giudice Maria Rita Saulle, possono essere pesanti. Anche perché non interviene solo in via di principio, lasciando al legislatore il compito di regolare la situazione, ma lo fa direttamente, ripristinando una parte della legge eliminata e dunque consentendo nuove assunzioni a livello locale, senza controlli centrali, con una possibile immissione sregolata di precari. La pronuncia dei «giudici delle leggi» è, infatti, immediatamente e concretamente efficace. E gli insegnanti di sostegno in Italia sono già 90mila, uno ogni due allievi handicappati. Negli ultimi anni, secondo i dati ufficiali, il numero degli insegnanti di sostegno è già aumentato moltissimo, fino ad arrivare appunto ai 90mila, di cui la metà sono appunto docenti a tempo determinato. Questi insegnanti rappresentano il 10,6 per cento del corpo insegnante e il rapporto tra alunni disabili e docenti è pari a 2 a livello nazionale non sembra così disastroso. Ma spieghiamo meglio come si è arrivati a questa decisione della Consulta. È stato accolto il ricorso presentato dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, che si è trovato di fronte al braccio di ferro tra un istituto scolastico nel catanese e i genitori di una bambina disabile. Per lei, dopo il blocco delle assunzioni, le ore di insegnamento di sostegno sono passate da 25 a 12 a settimana. La questione riguarda la coerenza costituzionale delle norme del 2007 (finanziaria 2008), che fissavano un limite al numero di insegnanti di sostegno per assistere gli alunni disabili. Queste norme, per l’Alta corte, sono «irragionevoli» e pertanto «illegittime» quando fissano un limite massimo invalicabile al numero dei posti degli insegnanti di sostegno ed escludono la possibilità di avvalersi, in deroga al rapporto studenti-docenti fissato per legge, di insegnanti specializzati che assicurino al disabile grave «il miglioramento della sua situazione nell’ambito sociale e scolastico». Per la presidenza del Consiglio la questione sollevata doveva essere inammissibile o infondata. L’Avvocatura dello Stato ha contestato il fatto che si richieda alla Corte una sentenza cosiddetta «additiva», che comporterebbe «nuove o maggiori spese a carico del bilancio statale senza indicare i mezzi per farvi fronte» e che «porterebbe la Corte a sostituirsi al legislatore, al quale è demandata l’individuazione delle concrete modalità con le quali realizzare» la tutela dei disabili, come dice una sentenza del 2008. Il Parlamento, sostiene, deve «bilanciare diversi interessi coinvolti (quello dello studio del disabile e del contenimento della spesa pubblica) e per questo ha varato delle leggi, pur senza negare in alcun modo il diritto allo studio degli handicappati. In sostanza, la riduzione delle ore di sostegno consentirebbe, comunque, l’integrazione scolastica delle persone disabili». Infatti, secondo l’Avvocatura dello Stato, la limitazione dei posti di insegnanti specializzati sarebbe controbilanciata da altri strumenti e direttive per assicurare l’assistenza a questi studenti, «anche mediante compensazioni tra Province diverse». Questa posizione, però, non ha prevalso al Palazzo della Consulta, malgrado un articolato dibattito con più voci che richiamavano ad una ottica «realistica» sulle concrete possibilità finanziarie del ministero dell’Istruzione, che ora si troverà a dover fronteggiare la situazione. Chi festeggia sono i Cobas degli insegnanti. Per il coordinatore nazionale della Gilda la sentenza della Consulta «è una vittoria della civiltà sulla insensibile logica del risparmio applicata dal ministro Tremonti». La fine di «una grave ingiustizia sociale e una palese violazione della Costituzione».

Di nessun orientamento...

Come mi diceva Eli in un suo commento, che bisogno c'era di mettere le mani avanti e dire che no, la corte costituzionale non ha alcun orientamento politico... Questo a conferma di quanto è vero che gran parte della magistratura E' a tutti gli effetti di un certo orientamento. Uno qualsiasi, magari... c'è poco da ribadire e da nascondere.

Le scuse non richieste della Corte di Cassazione di Elisa Borghi

Excusatio non petita... Il presidente della Corte di Cassazione Francesco Amirante, presentando l’annuale relazione di inizio anno alla stampa, dopo le classiche frasi di rito e un breve excursus sulle principali pronunce della Corte nel 2009 - tra cui spiccano quella sulla fecondazione assistita, il lodo Alfano, il segreto di Stato in relazione al caso Abu Omar e la Commissione di vigilanza Rai - si è lanciato, con una certa enfasi in alcune precisazioni politiche. O meglio, a-politiche. “La Corte Costituzionale non ha alcun orientamento politico: il suo orientamento, come doveroso, è sempre stato quello del rispetto e dell’attuazione dei principi costituzionali”, ha detto il numero uno della Consulta, sottolineando poi come tutte le decisioni prese “testimoniano la vastità e la diversità dei casi sui quali incide l’attività della Corte” rispetto alle quali ci sono stati “i più disparati giudizi”. Pregiudizi che, è sottointeso, sono degli altri. Non della Consulta che “dal primo gennaio 2009 è cambiata soltanto per un componente (Paolo Grossi, nominato dal Capo dello Stato, ndr). Chi volesse vedere nelle sentenze non dico un disegno, ma anche soltanto un orientamento coerente sul piano della politica di questo o quel partito, di questo o quel movimento, resterebbe deluso”, ammonisce Amirante. Ora, che il presidente della Corte di Cassazione precisi che nell’adempimento delle proprie funzioni l’organismo, che è appunto costituzionale, si sia attenuto al rispetto dei principi della Carta fondamentale dello stato un po’ fa sorridere. A cosa avrebbe dovuto fare riferimento? Allo statuto della proloco di quartiere? Continuando ad ascoltare si capisce dove vuole parare il presidente. Che parla di “rischio delegittimazione” dell’istituzione, pur non citando mai esplicitamente le accuse di cui è stata fatta bersaglio la Consulta all’indomani della bocciatura del lodo Alfano. Facendo due più due, il rischio delegittimazione c’è perché la Consulta sarebbe politicamente orientata. Parola del presidente. Accusatio manifesta?

Perle di Gianfranco Fini

Giustizia e immigrati, il "governo ombra" di Fini di Paola Setti

Il Pdl è «pigro», e si limita «a galleggiare». Il governo si «accapiglia» su questioni «non essenziali come la par condicio», e invece dovrebbe finalmente decidersi a «scegliere una linea», facendo quelle riforme, ma quale giustizia, qui è di welfare, fisco, sanità e pensioni che bisogna occuparsi, che «sono in agenda da 15 anni» e senza le quali a fine legislatura «sarà difficile spiegare perché siamo ancora alle prese con gli stessi titoli dell’agenda». Sul Corriere della Sera di ieri mattina c’era Massimo D’Alema che diceva più o meno le stesse cose, se pure, bisogna annotarlo, con toni meno sferzanti. Ma lui, Gianfranco Fini l’artefice della strigliata al governo, non ha bisogno di copiare. Del resto il punto non è questo. Non più. Non si tratta più di perfezionare l’opera di smarcamento dalle politiche berlusconiane cercando consensi nella vasta area critica che va da Casini a Bersani. Quanto di dare un’impronta nuova: un altro Pdl è possibile.
Così è se vi pare, e del resto basta ascoltarlo, il presidente della Camera. Già la sera prima, a Roma, davanti ai 600 commensali da mille euro a testa della cena elettorale di Fare Futuro, aveva rivendicato il diritto-dovere di fare politica nonostante il suo ruolo istituzionale, e come primo atto aveva scelto di dire che «un Pdl sempre con la bava alla bocca non è quello più gradito». Ieri, fra Milano e Vicenza, l’ex leader di An ha rincarato la dose, dettando il programma di una specie di «governo ombra». «Non parlo così perché mi diverto a seminare zizzania come spesso si legge», ha esordito alla tavola rotonda sulla crisi economica organizzata a Milano da Libertiamo, l’associazione del deputato Pdl Benedetto Della Vedova, ma nella convinzione che «senza confronto si rischia l’atteggiamento più pericoloso per una forza di governo, la pigrizia, il richiamare solo ciò che è stato fatto». Del resto a lui ciò che è stato fatto non piace granché. Il federalismo «sta moltiplicando e non riducendo i costi». La par condicio è «questione non essenziale, negli altri Paesi meriterebbe non più di una riga sui giornali». Quanto al tema del dibattito: il rigore che il ministro Giulio Tremonti ha imposto ai conti è stato giusto, ma «è un tampone»: adesso bisogna «far ripartire l’economia», tanto che Fini non vede «contrasto con la linea suggerita dal presidente della Banca d’Italia Mario Draghi», certo, ce n’è per tutti, basterebbe che «i ministri smettessero di litigare ognuno per il suo orticello». Ed è qui che l’eterno Delfino morde, elencando le cose su cui «il governo deve dare un’accelerata, con più coraggio». Se il momento, con le Regionali alle porte, non pare esattamente uno dei più azzeccati, è il come che ieri ha fatto dire alla Lega, con il deputato Raffaele Volpi: «Fini ha iniziato la campagna elettorale. Per il centrosinistra», e al Pd, con Cesare Damiano: «Da Fini un ripensamento radicale delle politiche del centrodestra perseguite con forte determinazione dai governi Berlusconi». Alle riforme istituzionali bisogna affiancare quelle «strutturali», avverte Fini. Il welfare, ricordando che accanto a cassintegrati, anziani e disabili c’è una categoria «più debole ancora, i giovani», che meritano un «welfare delle opportunità». Non fosse altro che sono alle prese con «una flessibilità del mondo del lavoro che ormai equivale a precarietà assoluta e sfruttamento legalizzato». E non fosse altro che «oggi sono loro a pagare le pensioni». Loro e gli immigrati, rilancia Fini, il cui «contributo è determinante per pagare le pensioni dei nostri vecchi». Che poi, a proposito di immigrati, dice l’ex leader di An che lui la legge con Umberto Bossi la rifirmerebbe «domani mattina», e però: «È necessario affrontare il problema più ad ampio raggio». Le pensioni, si diceva: «Tremonti e Sacconi hanno ragione nel dire che non abbiamo la stessa urgenza di altri Paesi, ma l’equilibrio può durare dieci anni, poi è destinato a rompersi». Quindi la stoccata: «Basta dire che non conviene, per esempio perché ci sono le Regionali. Non sempre la logica del non conviene è quella giusta». E i soldi per le riforme? Il governo deve tagliare la spesa pubblica, riducendo «il ceto politico. Detto brutalmente: di politica e burocrazia campano un paio di milioni di italiani», il che consentirà di realizzare l’altro «obiettivo strategico» del taglio delle tasse. Di giustizia, Fini parla solo se interpellato. Il processo breve passerà? «Al momento è in Parlamento, ma il verbo al futuro...», dice. Più tardi preciserà: «Stavo scherzando».

sabato 27 febbraio 2010

Senza di loro...

Il primo marzo la mobilitazione che apre la Primavera antirazzista. Cortei in molte città. Per la "rivoluzione in giallo" 50mila adesioni su Facebook e 60 comitati sul territorio. Arriva il primo "sciopero" degli immigrati. "Un giorno senza di noi e l'Italia si ferma". Dalle fabbriche alle famiglie, così il Paese non può fare a meno dei lavoratori stranieri di Vladimiro Polchi

ROMA - Astensione dal lavoro, sciopero degli acquisti, cortei, sit-in, presidi permanenti. Il black out è fissato per lunedì "Primo marzo 2010 - Una giornata senza di noi": e "noi" sono i quasi 5 milioni di immigrati che vivono in Italia. La "rivoluzione in giallo" (dal colore ufficiale della giornata) è arrivata dalla Francia e rimbalzata in Italia: 50mila le adesioni su Facebook, 60 comitati locali, tante le organizzazioni coinvolte: Amnesty, Arci, Acli, Legambiente, Emergency, Amref, Cobas, Fiom. Allo "sciopero degli immigrati" aderisce anche il Partito democratico, il Prc, Sinistra, ecologia e libertà e i Socialisti. L'appuntamento è per il primo marzo, in contemporanea con Francia, Spagna e Grecia. Non si tratterà di uno sciopero in senso tecnico, in verità. "Ci sarà uno sciopero solo in alcune città come Trento, Trieste e Modena, dove le sigle sindacali hanno accolto questa richiesta che arrivava dal basso - spiega Stefania Ragusa, presidente del Comitato "Primo marzo 2010" - per il resto i grandi sindacati a livello nazionale non ci hanno supportato, eppure nessuno ha mai pensato di indire uno sciopero etnico. Sarebbe bello che in Italia si tornasse a fare scioperi per tutti i diritti, non solo per quelli contrattuali. Vogliamo dare alla gente la possibilità di riflettere sull'importanza degli immigrati per la tenuta della società italiana. Quando saltano i diritti per qualcuno, è tutta la società che diventa più debole". Il logo della giornata (otto volti umani inseriti in quadrati sovrapposti) è opera dell'artista siciliano Giuseppe Cassibba, mentre per testimonial è stata scelta Mafalda, la bambina creata dalla matita di Quino. E il giallo sarà il colore dominante dei drappi che le colf appenderanno ai balconi e alle finestre, dei palloncini, dei braccialetti e dei foulard che in tutta Italia saranno indossati dai sostenitori dell'iniziativa. Il calendario con tutti gli appuntamenti città per città è sul sito del movimento (http://www.primomarzo2010.it/). E il primo marzo è solo l'inizio. Una campagna unitaria sotto il nome di "Primavera antirazzista" che andrà dal 1° al 21 marzo è stata infatti lanciata da un coordinamento costituito da diverse organizzazioni e comitati (tra queste Acli, Arci, Blacks out, Cgil, daSud, Nessun luogo e lontano, Sei-Ugl, Sos Razzismo, Uil, Antigone e Cnca). "Non c'è solo il primo marzo. Anche lo sciopero generale della Cgil del 12 marzo - spiega Pietro Soldini, responsabile immigrazione del sindacato - avrà tra i suoi punti la difesa dei diritti dei lavoratori immigrati. Sarà insomma un grande sciopero multietnico, perché i problemi dei lavoratori stranieri sono i problemi di tutti i lavoratori. Poi si proseguirà con le iniziative antirazziste fino al 21". "E' indubbio - prosegue Soldini - che senza immigrati ci sarebbe un black out. Il primo settore ad arrestarsi sarebbe quello delle costruzioni. Soprattutto nelle grandi città, dove la manodopera straniera raggiunge punte del 50%. I cantieri si fermerebbero di colpo. Poi toccherebbe all'industria manifatturiera: tessile, metalmeccanica, alimentare. Nelle fabbriche, infatti, i migranti svolgono ruoli chiave e sono difficilmente sostituibili. Un esempio? Gli addetti ai forni a ciclo continuo delle aziende di ceramica. Dopo l'industria entrerebbe in crisi l'agricoltura: la raccolta è in mano a immigrati stagionali e irregolari. Resterebbero vuoti i mercati ortofrutticoli. Poi sarebbe la volta delle aziende zootecniche: nella macellazione degli animali gli stranieri superano il 50% della forza lavoro. E ancora: nelle grandi città dovrebbero chiudere molti ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie si scatenerebbe il panico e un crollo della qualità della vita, per la scomparsa di badanti, colf e babysitter. Infine, ne risentirebbe la sanità: quella privata, dove lavorano quasi centomila infermieri stranieri e quella pubblica, che si avvale del loro lavoro tramite cooperative e piccole società di servizi". In queste ore è stato pubblicato il Manifesto contro il razzismo in Italia ("Non toccare il mio amico!") dell'associazione Sos Razzismo, per denunciare le leggi italiane sull'immigrazione e chiedere un risveglio della società civile contro la "deriva xenofoba" del Paese. Per sottoscrivere l'appello, simboleggiato dalla Gioconda in black di Oliviero e Lola Toscani, basta andare sul sito: http://www.nontoccareilmioamico.net. Tra i primi firmatari Roberto Saviano, Dario Fo, Beppe Grillo. Sul web circola anche un prontuario curato, tra gli altri, da Andrea Civati e Ernesto Ruffini, che smonta punto per punto tutti i luoghi comuni più negativi sugli immigrati. Rubano il lavoro? Commettono più crimini degli italiani? Si prendono tutte le case popolari? Voterebbero a sinistra? Tutto falso, come dimostrano i numeri citati su http://www.civati.it/mandiamoliacasa.pdf.

Gianfranco Fini (2)

Fini: "Pdl scelga linea o rischia di galleggiare"

Roma - "Non va bene
- ha proseguito Fini - che ognuno coltivi il proprio orticello e che ogni ministro voglia salvare se stesso e le proprie competenze a scapito di altri". Dal presidente della Camera arriva una esortazione al confronto e alla discussione all’interno del Pdl: "che all’interno del Pdl non si affronti il tema di come riformare il Welfare, l’economia o le pensioni - ha detto Fini - io lo contesto". Per un partito che ha raggiunto in Italia un consenso "che poche volte si è visto nella storia", si impone di trovare una soluzione ai problemi "che sono in agenda da 10 o 15 anni". "Le elezioni Regionali - ha spiegato Fini - saranno l’ultimo appuntamento elettorale importante della legislatura. Poi il Pdl ha davanti un arco di tempo in cui discutere di questi temi e mettere in campo delle proposte, altrimenti sarà difficile spiegare perchè, con la maggioranza che abbiamo, alla fine della legislatura saremo ancora alle prese con gli stessi problemi in agenda".

"Pensioni, bisogna fare qualcosa". Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, auspica un intervento sulle pensioni nonostante riconosca ai ministri Sacconi e Tremonti che la riforma previdenziale è meno urgente che in altri Paesi. "Quando i giovani che oggi pagano diventeranno padri - ha detto Fini durante la tavola rotonda Placata la bufera, torniamo al libero mercato - rischiano di dover scoprire che hanno pagato molto per le generazioni precedenti e prendono poco per se stessi. Non si può non parlare di questi temi. Qualcosa bisogna fare". Incalzato dalle domande del deputato del Pdl Benedetto Della Vedova, il presidente della Camera ha aggiunto che Sacconi e Tremonti "hanno ragione quando dicono che non abbiamo la stessa urgenza di altri Paesi di riformare le pensioni, ma questo equilibrio è destinato inevitabilmente a rompersi, magari fra dieci anni". Fini ha sottolineato, in particolare, il contributo sempre più importante che viene dato in Italia dai lavoratori immigrati per il pagamento delle attuali pensioni. "Ci si accorge o no di questo contributo? Vorrei che nel Pdl se ne discutesse", ha aggiunto, auspicando che venga trovata una sintesi tra le diverse anime di ex liberali, di Alleanza nazionale, di ex democristiani o ex socialisti.

"Flessibilità non può essere precarietà". Il presidente della Camera Gianfranco Fini, che ad un convegno a Milano ha parlato della necessità di riforme in economia, ha contestato che la flessibilità del lavoro diventi "precarietà assoluta". "Abbiamo discusso per anni - ha detto - e abbiamo versato anche qualche lacrima, penso a Biagi e a D’Antona, per la riforma del mercato del lavoro. Non vorrei però che la parola flessibilità sia diventata sinonimo di essere sottopagati e per i giovani di aspettare una vita prima di trovare un lavoro stabile". "Oggi - ha aggiunto il presidente della Camera - rischiamo di passare da un estremo all’altro. Il sistema che c’era prima contro quello di adesso, dove la parola flessibilità equivale a precarietà assoluta e dove il lavoro flessibile è equiparato allo sfruttamento legalizzato".


"Processo breve, passerà...". Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha risposto con una battuta ad una domanda sull’approvazione definitiva o meno in Parlamento del provvedimento sul cosiddetto processo breve. "Il verbo è al futuro, è una ipotesi" è stata la sua risposta durante la tavola rotonda organizzata dall’associazione Libertiamo e dal deputato del Pdl Benedetto Della Vedova. Sollecitato in seguito sullo stesso tema Fini ha ribadito che si trattava di una battuta.

"Pensare alle nuove generazioni". "Tra i temi da affrontare nel 2010 - ha affermato - quello del welfare mi sembra di particolare importanza anche perchè si tratta di una sfida culturale". Fini ha ricordato che, per esempio, anche il presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha messo nel suo programma riforme che garantiscano i più deboli: "oggi parte dell’Occidente guarda - ha spiegato - a un sistema di welfare che noi in Europa già avevamo. Nel 2010 credo che sarebbe necessario discutere di un welfare che sia compatibile con la società in cui viviamo. Penso non solo al welfare delle garanzie ma a quello che oltre a mantenerle pensi anche alle opportunità". Il presidente della Camera ha quindi ricordato che l’attuale welfare nato sul modello di società del ’900 garantisce principalmente i lavoratori che perdono il lavoro, i disabili ed altri soggetti deboli: "oggi - ha spiegato - soggetti altrettanto deboli se non di più sono diventati i giovani. Vogliamo allora ragionare su un welfare che dia loro delle opportunità?". Ciò non vuol dire, secondo Fini, immaginare un welfare "allargando i cordoni della borsa ma tenendo presente la tirannia del bilancio".

Gianfranco Fini

Fini: "Immigrati indispensabili per pagare nostre pensioni"

MILANO - "Il contributo dei lavoratori immigrati e' indispensabile per pagare le pensioni dei nostri vecchi":
e' quanto affermato da Gianfranco Fini, a Milano per un seminario. Il presidente della Camera ha auspicato, a breve, una riforma del sistema previdenziale italiano che non penalizzi i giovani: "quando diventeranno padri - ha detto - rischiano di dover scoprire di aver pagato molto per le generazioni precedenti e poco per loro".

Fini: «No al partito con la bava alla bocca». E poi allude a Bondi: «Caporale di giornata» di Vincenzo La Manna

Roma - «In fondo, ragazzi, non ho mica detto nulla di particolare...». Gianfranco Fini sotto sotto se la ride, quando si avvicina al tavolo con in bella vista i taccuini, tra un piatto di portata e l’altro. Perché in realtà, il presidente della Camera, chiamato a presiedere a Villa Miani la cena di autofinanziamento per la sua fondazione Farefuturo (600 invitati, mille euro a coperto è la cifra del «sostanzioso contributo»), non le manda a dire. A Silvio Berlusconi, a Sandro Bondi, alla Lega, a chiunque insista nel credere che il suo ruolo debba rimanere confinato al piano nobile di Montecitorio. «Non sono qui per fare un intervento politico-programmatico - attacca, in crescendo, prendendo la parola dopo Adolfo Urso e Renata Polverini, la candidata del Pdl alla Regione Lazio - perché il ruolo di presidente della Camera mi impone di non fare campagna elettorale, ma non mi esime dal dovere di fare politica. Questo qualcuno non l’ha capito, ma è bene che se lo metta in testa». Ma è solo l’inizio. Si parla di economia, del pil che non può rappresentare, da solo, l’elemento chiave per valutare il benessere di un Paese. E da lì il passo verso la battaglia anti-evasione è breve. «Non credo che siamo in uno stato di polizia, perché se lo fossimo non ci sarebbe questo livello di evasione fiscale. Ovvero, la piaga peggiore per il nostro Paese». Chissà come la prenderà il Cavaliere, che sull’argomento batte di continuo. La terza carica dello Stato va avanti come un rullo, dopo i maltagliati agli asparagi e prima della tagliata di manzo. E rivendica così il merito avuto dalla sua fondazione («qualche volta esagera, ma meno male che lo fa, altrimenti rischieremmo di appiattirci») nello stimolare il dibattito nel centrodestra su diversi temi, a partire da quello dell’immigrazione. Anche perché, sottolinea, «il centrodestra perennemente con la bava alla bocca non è quello più gradito, soprattutto in una città come Roma». E poi, ribadisce, «non ha senso il pensiero unico: è una limitazione della società». E allora, cosa si fa? «Dobbiamo essere capaci di partorire delle idee, anche a costo di non essere capiti e con il rischio che qualche caporale di giornata ci richiami all’ordine». Leggasi Bondi, declassato da ministro e coordinatore a caporale. «Reo» di aver bollato Farefuturo, in un’intervista di due giorni fa al Giornale, come il vero problema del centrodestra.

Ssst, parla D'Alema

L'intervista / L'ex premier: rotto il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini. D'Alema: «Riforme o si rischia: Fini e Pisanu lo sanno, il premier arretri». «Il Pdl ha diffuso la percezione che si può farla franca. Casini preoccupato ma ha fatto errori nelle alleanze»

ROMA — Onorevole D’Alema, siamo davanti a una nuova Tangentopoli?
«Siamo in un momento effettivamente molto difficile per il Paese. Anzitutto per la gravità della crisi economica e sociale. Non è vero, come il governo ha sostenuto con faciloneria, che ne siamo fuori. Al contrario, cresce la disoccupazione, è in pericolo una parte della struttura industriale del Paese e non c’è alcuna politica da parte del governo. In questa situazione di sofferenza sociale si innesta un decadimento della classe dirigente del Paese. È un inutile esercizio stabilire se siamo di nuovo a Tangentopoli o no. Quello che emerge è che fenomeni di corruzione investono sia la società che la politica. Ma la politica ha una responsabilità in più perché anziché costruire degli argini ha lavorato per abbatterli. E ciò ha contribuito alla rottura del rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini. L’orientamento della politica impresso dal centrodestra va verso l’impunità. L’indebolimento e la delegittimazione della magistratura non aiutano certo la lotta alla corruzione e alla criminalità. E in un contesto di questo genere i fenomeni di illegalità vengono a crescere perché la percezione che la si possa fare franca tende a essere diffusa».

Per la verità il cosiddetto sistema Bertolaso era in voga anche con Prodi. «Io non ho detto che questi sistemi sono stati creati dal governo Berlusconi. Ma non si può sostenere che centrosinistra e centrodestra siano uguali. Noi abbiamo un sottosegretario della Repubblica, Cosentino, che è inseguito da un mandato di cattura per associazione a delinquere di stampo mafioso a cui il premier ha detto di rimanere al suo posto. Il sindaco di Bologna, invece, accusato di reati infinitamente minori, per rispetto verso le istituzioni della sua città si è dimesso».

Onorevole D’Alema, che è successo, all’improvviso è diventato giustizialista? «Figuriamoci, sono sempre stato molto prudente, più di una volta ho detto che i magistrati hanno compiuto delle forzature ma il modo in cui il Pdl e il presidente del Consiglio festeggiano la sentenza della Cassazione sul caso Mills mi sembra francamente eccessivo. È vero che la Cassazione ha detto che i magistrati di Milano hanno forzato l’interpretazione in materia di prescrizione però ha detto anche che la corruzione c’è stata».

Tornando al discorso che stava facendo sulla corruzione... «Io penso che il rischio di una frattura tra Paese e istituzioni e lo spettacolo di una classe dirigente alla ricerca di un facile arricchimento mentre c’è gente che perde il lavoro configurino un quadro estremamente preoccupante. Ed è per questo che si impone la ripresa di un’azione riformatrice. Il sistema politico deve reagire dandosi delle regole per fare pulizia al proprio interno e deve dire quali riforme intende intraprendere. Il punto più grave è la crisi del Parlamento. In questi anni si è pensato a come rafforzare il governo e l’effetto di tutto questo è stato un restringimento della democrazia e dei controlli che non ha prodotto maggiore efficacia e qualità delle decisioni. Quindici anni di berlusconismo non hanno prodotto nessuna decisione importante per il Paese».

Ma lei che cosa propone a questo punto? C’è una ricetta, una soluzione? «Penso che tutto questo richieda una forte iniziativa. Anche da parte delle personalità della destra che avvertono questo rischio. È tempo di reagire. Non è tollerabile che le riforme che tutti dicono da anni di voler fare non vengano fatte: alla fine la caduta di credibilità diventa micidiale. Sono anni che si dice che bisogna uscire dal bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari e io aggiungo che sarebbe bene ridurre anche i membri dei Consigli regionali, comunali ecc».

Onorevole D’Alema, quali sarebbero le personalità della destra di cui parla? «Pisanu nell’intervista al vostro giornale faceva delle considerazioni che vanno in questa stessa direzione. E, comunque, come ha detto Fini, non dobbiamo sprecare questa legislatura dal punto di vista delle riforme che si possono fare. E io sono persuaso che la condizione perché si apra una stagione di riforme è che Berlusconi esca ridimensionato dal voto delle Regionali. Così queste voci più riflessive del centrodestra potranno avere un peso».

E Berlusconi? «La sua voce è veramente stridente rispetto al Paese. Invece di spiegare che le Regionali sono l’occasione per scegliere buoni amministratori, il presidente del Consiglio ha detto che sono uno scontro tra il bene e il male. È un’affermazione che, se presa sul serio, suscita indignazione. Fortunatamente, ormai, si comincia a non prenderlo più sul serio. Anche tutta questa "fuffa" del governo del fare si è molto ridimensionata. L’Aquila era uno dei fiori all’occhiello di questo governo, ora non hanno più coraggio di ripresentarsi lì che la gente li rincorre. C’è stata una grande esagerazione mediatica».

Su Berlusconi Casini non dice cose tanto diverse, eppure è vostro alleato solo in alcune regioni, altrove sta con il centrodestra. «Sono perplesso per alcune delle scelte fatte da Casini. Lui è tra le persone che esprimono preoccupazioni non dissimili dalle nostre. Detto questo, le sue scelte per le Regionali appaiono abbastanza contraddittorie. Come conciliare, ad esempio, la polemica che l’Udc conduce in Parlamento contro la politica anti-meridionale del governo e l’alleanza con il Pdl in Campania e Calabria? In particolare in Campania a Casini e De Mita non può certo sfuggire quale sia la realtà del Pdl».

Come mai il Pd ha aderito al secondo "No-Bday"? «Non si può non guardare con rispetto e simpatia a chi scende in piazza per la legalità contro la corruzione. Ma movimenti e partiti hanno funzioni diverse. E poi che vuole, mi hanno anche dato la patente. Se non fossi a fare comizi elettorali quasi quasi...».

Onorevole D’Alema, a proposito di lotta alla corruzione, che cosa si può fare per prevenire certi fenomeni? «Il governo annuncia provvedimenti. Vedremo di che si tratta. Il primo provvedimento sarebbe quello di ritirare la proposta di legge del cosiddetto processo breve, che avrebbe l’effetto di una amnistia per corrotti e corruttori. Ma, al di là delle misure legislative, è molto importante che i partiti abbiamo serietà e rigore nella selezione del ceto politico. Ci sono dei buchi nella legislazione. Il principio di presunzione di innocenza, che è un principio fondamentale del nostro ordinamento, non può però essere applicato in modo meccanico nei criteri di selezione delle candidature. In Italia uno ha diritto a essere innocente fino alla sentenza definitiva (che purtroppo è spesso la prescrizione del reato), questo vale per i cittadini normali, ma chi viene rinviato a giudizio per reati gravi e odiosi è uno di quegli innocenti di cui si può tranquillamente fare a meno nelle assemblee elettive».

Fabio Granata

Finiano con la patente viola di antiberlusconiano di Francesco Cramer

Roma - Il finiano Fabio Granata si mette alla guida del popolo viola visto che adesso ha pure in tasca la licenza di antiberlusconiano doc. «Patente a punti di difensore dell’articolo 3 della Costituzione» si chiama il sinistrorso permesso di condurre che l’onorevole pidiellino (?) è andato personalmente a ritirare davanti a Montecitorio. La sorta di motorizzazione civile mobile, furgone violaceo da giorni in sosta all’ingresso della Camera, aveva mandato anche a lui, oltre ai parlamentari dell’opposizione, l’avviso: il documento è pronto. In effetti Granata, in virtù di quelle assenze strategiche durante le votazioni del cosiddetto legittimo impedimento, ha meritato la patente color ciclamino, seppur decurtata di quattro punti. Avesse votato contro l’avrebbe ottenuta intonsa ma, in fondo, meglio di niente: così il riccioluto Granata s’è presentato dagli antiberluscones più radicali e, infilatosi l’agognato patentino in saccoccia, ha pure firmato il libro dei simpatizzanti manettari con tanto di dedica: «Un segnale di vita in questa Italia conformista e ipocrita». Un messaggio che gli assicura la presa del volante dell’agguerrito movimento che proprio oggi scende in piazza a Roma, al grido di «Basta con questo governo che stravolge la giustizia e la Costituzione per salvare Berlusconi dai processi». La frase di incoraggiamento del deputato della maggioranza è balsamo di tigre sui muscoli tesi dei neo-girotondini perché vale di più, molto di più, dello scontato sostegno di un Flores d’Arcais, di un Marco Travaglio, di un Dario Fo o di un Asor Rosa qualsiasi. Non solo: siccome i contestatori lilla sono sì pittoreschi e colorati ma anche molto estremisti e radicali, non hanno ricevuto più di tanto carburante dai piddini, quasi imbarazzati a ritirare il certificato da ultras anti-Cav, ben venga la benzina dell’uomo nero. Massimo D’Alema è stato quasi costretto a fermarsi al presidio giustizialista e, per non far loro torto, ha vergato un «Cerchiamo di risalir la china, una strada difficile per questo povero Paese» ma poi è corso da Fini a parlare di «politica, da anni picconata dall’antipolitica e dal mito della società civile»; fermata obbligata anche per Beppe Fioroni e Giovanna Melandri mentre Walter Veltroni e Piero Fassino hanno ingranato la marcia e se la sono data a gambe. Uno ha giurato «Ripasso più tardi», l’altro ha preso tempo «Dopo, dopo, non ora...». Meno male che accanto ai più fieri e massimalisti difensori della legalità quali Tonino Di Pietro, Massimo Donadi e Franco Barbato (i primi a sfoggiare la patente viola, ndr) s’è aggiunto il finiano rosso-nero-granata. Dal presidio spiegano le norme in vigore per poter circolare «a testa alta»: «Chi vota a favore di leggi ad personam, meno dieci punti. Per chi le propone, ritiro immediato. Per chi entro sei mesi non propone o non appoggia una legge sul conflitto di interessi del Caimano, meno dieci punti». Granata è avvertito: se non vuole prendere l’autobus per il resto dei suoi giorni... Le licenze di guida sono in cantiere anche per i senatori, visto che il testo sul legittimo impedimento, passato alla Camera i primi di febbraio, giace ora a Palazzo Madama. «Per i senatori è pronto il foglio rosa - spiegano al presidio -. Anche in questo caso c’è il ritiro immediato se votano la legge o il conferimento della licenza vera e propria se non la votano». «Meno male che Granata c’è», sembra essere il nuovo slogan dei micromeghiani urlanti, viste le ultime sortite dell’ex missino ed ex frontistadellagioventù col pallino del bipartisan: due giorni fa, durante la discussione sulla norma dei «sorvegliati speciali», aveva ricevuto applausi scroscianti dalla sinistra; dieci giorni prima aveva chiesto la testa del coordinatore nazionale del suo (?) partito Denis Verdini («Fossi in lui mi autosospenderei», ndr); prima era esploso contro il reingresso della Santanchè nel Pdl («Esprime le posizioni più retrive della società», ndr); prima aveva espresso perplessità sulla presenza al governo del collega di partito Nicola Cosentino; prima aveva criticato chi aveva criticato la gola profonda Spatuzza; prima aveva presentato con il piddino Sarubbi un testo per dimezzare i tempi per la concessione della cittadinanza; prima aveva tuonato contro i «medici spia»; prima ancora aveva contestato la legge «salva Eluana». Insomma, un Granata rosso che tira al viola: nel Pdl ne succedono di tutti i colori.

venerdì 26 febbraio 2010

Unione europea

La Germania, costretta al salvataggio della Grecia, rimpiange d’essere passata all’Euro di Nicholas Kulish

BERLINO - Mentre l’Europa si prepara a dare garanzie d’emergenza per arginare il panico dei mercati causato dai membri più in deficit del blocco dell’Euro, il Paese al quale tutta la regione guarda in cerca di leadership, la Germania, è dilaniato da forti dubbi sull’esperimento europeo, del quale per molto tempo è stato uno dei principali sostenitori. I riluttanti leader tedeschi sono ora obbligati ad aiutare la Grecia a rimanere solvibile; altrimenti il rischio è di vedere il mercato attaccare uno dopo l’altro i membri più deboli dell’Unione, dal Portogallo alla Spagna all’Italia, minacciando la stabilità dell’euro, la moneta unica europea per creare la quale la Germania si batté strenuamente. Fonti ufficiali dicono che, durante una riunione congiunta con i ministri delle Finanze dei sedici paesi che hanno adottato l’euro, con Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, si sono dovute prendere delle misure per tranquillizzare i mercati e allentare la pressione sulla Grecia. Ma mercoledì sera - alla vigilia del summit di tutti i 27 paesi dell’Unione europea che si terrà giovedì - non si era ancora deciso quale forma avrebbe assunto questo salvataggio, se con prestiti, garanzie su prestiti o con la promessa di acquistare titoli governativi greci. E’ apparso comunque chiaro che la Germania, con l’assist della Francia, dovrà prendere l’iniziativa: “I tedeschi sono gli unici ad avere tasche capienti” ha detto Daniel Gros, direttore del centro Europeo per gli Studi Politici di Bruxelles. “Se fosse stato solo per la Grecia, potevano pensare anche di lasciarla affondare, ma la questione minaccia l’intera euro-zona”. Berlino è stata molto taciturna sulla questione. In parte per esercitare pressioni sulla Grecia, dove mercoledì il pubblico impiego ha manifestato contro i tagli che il governo ha promesso per ripianare il suo enorme deficit. Ma un salvataggio finanziario della Grecia sarebbe politicamente difficile da far digerire per il governo del Cancelliere Angela Merkel. Si tratta proprio della pietra angolare finanziaria sulla quale l’opposizione aveva messo in guardia, quando la Germania aveva rinunciato al suo prezioso Marco. Una mossa alla quale all’epoca la maggior parte della popolazione tedesca era contraria, in netto contrasto con i suoi leader politici. “Se il governo tedesco trasferisse dei fondi alla Grecia, la gente in Germania penserebbe che i suoi peggiori timori si sono avverati” ha detto Thomas Mayer, il capo economista della Deutsche Bank. Il ruolo del salvatore è stato affidato alla Germania in mancanza di alternative. Il blocco dell’euro ha miriadi di leggi e regolamenti che hanno lo scopo di evitare che i suoi membri più ricchi debbano correre in soccorso degli altri con economie più deboli. Ma i mercati hanno ignorato le regole, e hanno oscillato alla notizia non confermata che la Germania aveva deciso di salvare la Grecia, il che sottintende che tutti soffriranno se ciò non venisse fatto. Dato che quella tedesca è l’economia europea più grande e con la maggiore flessibilità fiscale, la Germania è cruciale per qualsiasi sforzo da parte dell’euro-zona per salvare la Grecia. Ma le preoccupazioni in Germania sono molto più profonde di quelle innescate da una singola crisi. Vi si aggiunge il fatto che durante quella stessa settimana la Germania ha perso un primato di cui andava molto orgogliosa, quello di campione delle esportazioni mondiali. Ha dovuto cederlo alla Cina e questo ha fatto crescere la paura di un declino del proprio status internazionale e della propria importanza globale. La Germania inoltre deve fronteggiare una crisi demografica, perché la popolazione non solo sta invecchiando ma si riduce di numero. Nel mese scorso il governo ha annunciato che, per la prima volta dal 1995, il numero degli abitanti è sceso sotto gli 82 milioni di persone. Ciò significa che ci saranno meno persone in grado di ripagare un debito nazionale sempre crescente, che per quest’anno prevede un deficit di 118 miliardi di dollari. Dopo la rielezione della Merkel in settembre, e una trionfante apparizione sul palcoscenico mondiale a novembre, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il suo indice di fiducia è calato fino al livello più basso degli ultimi tre anni. Critiche crescenti sono state rivolte al suo governo per la litigiosità della coalizione che lo compone, soprattutto quando si tratta dei tagli delle tasse e del bilancio. Sulla crisi della Grecia la Merkel è stata molto reticente, parlando molto di più di altri argomenti populisti come la caccia agli evasori fiscali che nascondono fondi in Svizzera. “E’ una decisione deliberata quella di mantenere il silenzio”, ha detto Jakob von Weizsächer, economista del Bruegel, un istituto di ricerche sulla politica economica a Bruxelles, che un tempo lavorava per i ministeri dell’economia a Berlino “in realtà stanno pensando cosa possono fare”. Questa pressione è diventata evidente in un comunicato emesso dai partner della coalizione del governo Merkel, i Liberi Democratici, in cui si criticava aspramente l’idea di un salvataggio della Grecia. Non vi deve essere “nessun aiuto finanziario diretto per la Grecia” - diceva il comunicato - “perché manderebbe un segnate totalmente sbagliato alle altre nazioni europee, ovvero che nessuna nazione deve più fare sacrifici per risparmiare” Ma anche i Tedeschi che si oppongono all’euro hanno dovuto riconoscere che il salvataggio è probabile. Joachim Starbatt, professore di Economia dell’Università di Tübingen, è uno dei quattro professori che intentarono causa presso la Corte Costituzionale Tedesca nel 1998 per fermare l’unificazione della moneta europea, ricorso che fu respinto dalla corte perché ‘ovviamente privo di fondamento’. Il professor Starbatty ha detto d’esser convinto che la Germania si piegherà alle pressioni e dovrà dare sostegno a misure per proteggere la Grecia dalla pressione dei mercati. “Guardando le cose con realismo, penso che vedremo una qualche forma d’aiuto che non sarà di troppo danno per la nazione donatrice” ha detto. Peter Bofingerm, professore di Economia dell’Università di Würzurg e membro del Consiglio indipendente di esperti economici del governo tedesco, nella sua relazione dello scorso novembre ha detto che il Consiglio raccomandava che l’Unione Europea desse della garanzie per i nuovi Buoni governativi emessi per salvare la Grecia, purché questa presentasse un piano realizzabile per rimettere in ordine le proprie finanze. Dopo che i governi europei hanno aiutato a stabilizzare le istituzioni finanziarie durante la crisi, era necessario dare un segnale che essi non erano autorizzati a rompere l’unione monetaria, ha detto il prof. Bofinger: “E’ importante anche per i politici mostrare che non ti permetteremo di mettere in pericolo la nostra nave. Abbiamo fatto così tanto per salvarti, tu ti sei quasi autodistrutto ma ti abbiamo salvato”. Stephen Castle ha contribuito con un reportage da Bruxelles.

Pkk

L'operazione di polizia. Reclutavano giovani per il Pkk, 11 arresti. C'è anche un trevigiano. Venezia, Andrea Orlando era già in carcere: nel 2006 era stato fermato in Francia con l'auto piena di armi. Manette anche a dieci turchi

VENEZIA
- Una presunta associazione con finalità di terrorismo internazionale è stata smantellata dalla Digos di Venezia che sta eseguendo 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere. I provvedimenti - eseguiti dagli agenti della questura di Venezia con il supporto dei colleghi delle Digos di Pisa, Roma, Milano e il coordinamento operativo dell’Ucigos-Dcpp - riguardano 10 turchi e un italiano. Secondo quanto emerso dalle indagini, la presunta organizzazione era finalizzata al reclutamento, indottrinamento e addestramento di giovani di etnia turca da inviare a combattere tra le file del Pkk, il partito dei lavoratori curdi che l’Unione europea ha incluso nelle liste terroristiche. Sarebbero stati individuati campi di addestramento in Italia e in Francia.

L'INDAGINE - L’operazione resa nota dal prefetto Stefano Berrettoni, direttore centrale della polizia di prevenzione Ucigos, è la sintesi di un’indagine cominciata nel 2008. La presunta organizzazione operava secondo le indagini attraverso il reclutamento di giovanissimi curdi, tra cui molte donne che venivano avviati poi a corsi di addestramento in campi allestiti in Italia - quattro quelli individuati - e in altre parti d’Europa, specie in Francia. Al momento in Italia non sono state trovate armi, ma nella documentazione sequestrata dalla Digos veneziana, diretta da Diego Parente, ci sono atti che comproverebbero addestramento anche con l’uso di armi in campi allestiti fuori dall’Italia. L’italiano coinvolto è Andrea Orlando, 41 anni, di Treviso, che era già in carcere. Nel 2006 venne arrestato ad Avignone (Francia): nell’ auto su cui viaggiava vennero trovati un fucile mitragliatore, un revolver e munizioni. Orlando è conosciuto come molto vicino agli ambienti dell’estrema sinistra, che avrebbe avuto parte nel reclutamento di una ragazza curda. In un appartamento a sua disposizione a Marsiglia (Francia) sarebbe stata trovata documentazione ritenuta estremamente interessante. L’organizzazione aveva campi di formazione e indottrinamento, chiamati in gergo matrimoni, in turco «Tugun». Uno, secondo gli investigatori, era attivo in provincia di Pordenone fino allo scorso anno; un altro era attivo, sulle colline pisane. Al vaglio degli investigatori, secondo quanto si è appreso, c’è la posizione di un altro centinaio di persone, tutte curde, per valutare eventuali coinvolgimento nell’organizzazione o la loro posizione rispetto ai permessi di soggiorno. In un campo scoperto dagli agenti della polizia di Stato sarebbero state trovate una settantina di persone. Una giovane detenuta in Francia con l’accusa di appartenere al Pkk ha ammesso di aver partecipato lo scorso anno a Taranto a un «corso di indottrinamento ideologico», al termine del quale veniva chiesto ai partecipanti di unirsi alle fila del Pkk per andare a combattere.

CONTROLLI NELLE PROVINCE DEL NORD E A PISA - Le operazioni di controllo sono in corso nelle province di Treviso, Venezia, Pisa, Modena, Udine, Pordenone e Milano. L’indagine è svolta parallelamente in Italia e in Francia con il contributo delle strutture antiterrorismo di Germania, Belgio ed Olanda. Un cittadino turco, tratto in arresto, era stato fermato a Venezia nel marzo dello scorso anno. In quell’occasione, oltre a fotografie che lo ritraevano mente imbracciava un fucile mitragliatore, era stato trovato in possesso di alcune lettere con le quali una ragazza turca poco più che maggiorenne, scomparsa qualche mese fa dalla provincia di Viterbo, manifestava ai propri genitori l’intenzione di voler andare a combattere per la causa del Kurdistan.

Via Padova, Milano

Ancora un episodio di violenza in città dopo la morte del giovane egiziano il 13 febbraio. Milano, ancora paura in via Padova. Magrebino accoltellato: è grave. Il 118, chiamato dalla polizia, lo ha trasportato in codice rosso all'ex clinica Santa Rita

MILANO
- Un cittadino magrebino è stato trovato accoltellato giovedì sera in via Clitumno, angolo con via Padova. L'uomo si trova ricoverato in gravi condizioni. Il ferimento è accaduto intorno alle 21. Il 118, chiamato dalla polizia, lo ha trasportato in codice rosso all'ex clinica Santa Rita. Secondo quanto riferito dalla polizia il giovane nordafricano è stato ferito con almeno una coltellata all'inguine. Il magrebino è stato trovato a terra, tra le auto, dagli agenti di una Volante che stava pattugliando la zona, richiamati da un passante che aveva notato il corpo. Poco dopo è giunto anche il 118, che lo ha trasportato in arresto cardiaco all'ospedale. Secondo le prime notizie, che però devono ancora trovare conferma in una ricostruzione ufficiale della polizia, l'uomo sarebbe stato accoltellato altrove, dato che ci sarebbero tracce per strada. I rilievi però sono resi difficili dalla pioggia. Secondo alcune voci, alcuni testimoni avrebbero riferito di una rissa, ma il particolare è ancora da confermare. Il ferimento è avvenuto a poca distanza da dove, il 13 febbraio scorso, è stato accoltellato e ucciso un egiziano di 19 anni, causando una sommossa della comunità araba nel quartiere, il più multietnico della città, con auto ribaltate, vetrine sfondate e motorini rovesciati.

Blitz in via clitumno dopo la rissa di giovedì sera. Il ferito migliora. Via Padova, fermato l'accoltellatore. Il Comune: controlli sugli affitti. I contratti di locazione dovranno essere depositati al comando dei vigili. «Amministratori-sentinella»

MILANO
- Via Padova ancora al centro dell'attenzione dopo l'ennesimo fatto di cronaca nera, l'accoltellamento tra due spacciatori giovedì sera (il ferito se la caverà, già preso l'aggressore). Il sindaco Letizia Moratti ha presentato venerdì, dopo il vertice in prefettura e in questura, le iniziative che il Comune di Milano intende adottare per evitare il ripetersi di fatti come la rivolta degli immigrati in via Padova dopo l'omicidio del giovane egiziano, lo scorso 13 febbraio. Per facilitare i controlli negli alloggi, in particolare quelli dove vivono gli immigrati irregolari, il Comune è pronto a emanare un'ordinanza che obblighi gli amministratori di condominio a depositare i contratti di locazione o di comodato d'uso al comando dei vigili, con una multa di 500 euro per i trasgressori. «Una proposta, questa, che ci è stata avanzata dal Pd», ha riferito la Moratti. Il nuovo provvedimento, possibile grazie ai nuovi poteri che il Viminale assegna ai sindaci in materia di sicurezza, potrebbe vedere la sua prima applicazione proprio in via Padova. Dal canto suo il vicesindaco Riccardo De Corato si è spinto a ipotizzare la trasformazione degli amministratori di condominio in «sentinelle di caseggiato». «Potremmo ordinare agli amministratori - ha spiegato - di segnalare ai vigili anche fatti anomali, per esempio la presenza di troppi inquilini in uno stesso appartamento, per facilitare non solo i controlli di polizia ma anche quelli patrimoniali e fiscali da parte della guardia di Finanza». E' stato inoltre concordato un tavolo tecnico per verificare la possibilità di un coordinamento fra le diverse forze dell'ordine, i vigili del fuoco e la polizia locale per quanto riguarda le indagini sulle abitazioni, sui negozi e sui circoli culturali che «mascherano» ritrovi d'altro genere.

IL BLITZ - Nella notte di giovedì l'aggressore di Mohammed Belouafi, il marocchino 21enne accoltellato giovedì sera in via Clitumno, è stato posto in stato di fermo dalla polizia. Gli agenti sono arrivati a lui grazie alle indicazioni fornite dalla persona che ieri sera si trovava con l’amico al momento dell’aggressione. Il presunto aggressore è stato bloccato nella notte in un ospedale cittadino dove si trovava per una ferita al gluteo, rimediata presumibilmente nel corso dello scontro. Secondo quanto si è appreso, l'aggressione sarebbe maturata nell'ambito di una lite tra i soli due nordafricani, entrambi spacciatori. Il ferito è ricoverato in prognosi riservata, le sue condizioni si sono stabilizzate. Venerdì mattina una cinquantina tra poliziotti e carabinieri hanno eseguito un controllo nel degradato palazzo al civico 11 di via Clitumno, abitato quasi interamente da immigrati, in molti casi irregolari e pregiudicati. La polizia e i carabinieri, accompagnati dal nucleo cinofili e coadiuvati da un elicottero, hanno controllato 20 dei 90 appartamenti che compongono lo stabile; 12 cittadini extracomunitari sono stati accompagnati in Questura per accertamenti sulla loro posizione in Italia.

PENATI: «LA MORATTI VADA IN VIA PADOVA» - «La Moratti si rimbocchi le maniche: vada, come aveva promesso che avrebbe fatto, in via Padova e ascolti i suoi cittadini», chiede Filippo Penati, candidato del Pd alla presidenza della Regione Lombardia. Secondo Penati, il primo cittadino milanese dovrebbe chiedere al ministro dell'Interno Maroni una «maggiore presenza delle forze dell'ordine, a partire dai 500 poliziotti che aveva invocato nella manifestazione per la sicurezza del 2007», e assumere «i 500 agenti di polizia locale che mancano». Oltre ad avviare «un piano di riqualificazione e di forti politiche di integrazione sociale per il quartiere». «E, a partire da via Padova», ha concluso, «torni a mettere al centro dell'iniziativa amministrativa il tema della qualità della vita nei quartieri popolari».

giovedì 25 febbraio 2010

I purificatori dell'occidente

Contro i facili costumi (???). "Prendete le donne senza veli e rendetele schiave"

Una lettera scritta in arabo e inneggiante alla «Jihad» (la guerra santa) è arrivata nella mattinata di ieri via mail alla Gazzetta di Reggio. Nel messaggio, firmato «I leader della Jihad nel Mondo Islamico» si ordina alle donne «di usare l’abbigliamento islamico». La mail è stata inviata da un indirizzo alfanumerico che rimanda a un nome proprio piuttosto frequente fra i musulmani. «I leader della Jihad nel Mondo Islamico», la firma posta in calce al messaggio. «Obiettivo di ogni musulmano - si legge nella lettera spedita alla Gazzetta - è di impedire qualsiasi fatto osceno, in casa sua, nelle strade e nel suo paese...Il punto della questione, è quello di prendere le donne svestite e senza velo come schiave nelle case dei musulmani, di notte portate a letto e di giorno messe a servire le nostre donne, come promesse del Messaggero di Allah». Si farebbe quindi riferimento a un testo islamico: «Le prove di questo sono le seguenti: Non ammazzate le donne apostate ma richiamatele all’I slam, se rifiutano allora prendetele come schiave per i musulmani, ma non uccidetele». «Come si vede - prosegue - noi ordiniamo alle donne di seguire gli ordini Divini e la Sunna del Messaggero, di usare l’abbigliamento islamico. Ma se continuano nei loro misfatti osceni, esse apostate contro l’Islam, Corano e contro la Sunna è un dovere per ogni musulmano di sequestrarle e impedire loro di far male ai musulmani nelle strade». «Come lo vediamo ora - si legge più avanti nella mail - la profezia del Profeta è stata realizzata, l’unica cosa rimasta è quella di rialzarsi come il vento per sequestrare le apostate, e usarle come schiave per i musulmani». «O genti dell’Islam - conclude il messaggio - saremo martiri in nome di Allah, dobbiamo sradicare la falsità dal nostro paese e lodare il giusto in quanto comandato da dio altissimo». Nel novembre 2009 era arrivata alla Gazzetta di Reggio, questa volta tramite posta, un’altra lettera inneggiante alla Jihad. Lì, in un italiano stentanto, si minacciavano attentanti nel periodo natalizio verso le scuole reggiane. Nel testo si faceva riferimento anche all’attentato nella scuola di Beslan, nel Caucaso, costato la vita a centinaia di persone.

Schengen in pericolo? Magari...

Crisi Libia-Svizzera Maroni: "Ora rischia il trattato di Schengen"

Bruxelles
- La tensione tra Libia e Svizzera, che ha portato Tripoli a decidere di non rilasciare più visti d’ingresso ai cittadini dei Paesi che aderiscono al Trattato di Schengen, sta mettendo a rischio il Trattato stesso. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, a Bruxelles per il Consiglio della Giustizia e degli Affari Interni, ne ha discusso con gli altri colleghi della Unione Europea e della Svizzera: "Non credo sia giusto che uno strumento di cooperazione internazionale sia utilizzato per forzare su questioni bilaterali - ha detto Maroni - se passa questo principio, sarà la fine di Schengen".

Problema bilaterale. Maroni ha espresso nella riunione "le forti perplessità del governo italiano sull’uso di un sistema di sicurezza internazionale per affrontare questioni bilaterali. La black list deve contenere i nomi di persone che mettono davvero a rischio la sicurezza nazionale - ha proseguito - e non diventare uno strumento di pressione politica".

Immigrazione clandestina. I timori maggiori da parte dell’Italia riguardano la possibilità che la Libia riduca i controlli alle frontiere previsti per il contrasto all’immigrazione clandestina: "Non possiamo permettere che queste tensioni portino al deterioramento dell’ottimo rapporto che l’Italia ha con la Libia", ha osservato. Per questo, il ministro ha chiesto a Bruxelles "che la Commissione prenda un’iniziativa sul piano diplomatico perché la situazione sia risolta rapidamente. Bisogna vedere se ci sono le condizioni perché Schengen possa continuare a funzionare come ha fatto finora - ha concluso - ci vuole l’accordo di tutti come abbiamo sollecitato oggi".

Di nessun colore politico

E sui ricorsi per conflitti Stato-Regioni: «Sono troppi, c'è qualcosa di patologico». «La Consulta non ha un colore politico». Il presidente della Corte costituzionale, Amirante: il nostro orientamento è solo il rispetto della Costituzione.

ROMA
- La Corte Costituzionale non ha alcun «orientamento politico»: il suo «orientamento, come doveroso, è sempre stato quello del rispetto e dell'attuazione dei principi costituzionali». A ribadirlo è il presidente della Consulta, Francesco Amirante, nella sua relazione in occasione del tradizionale incontro con la stampa di inizio d'anno. Dopo aver compiuto un excursus sulle principali pronunce della Corte nel 2009 (342, di cui 162 sentenze, +7% rispetto al 2008) - tra cui quella sulla fecondazione assistita, il lodo Alfano, sul segreto do Stato in relazione al caso Abu Omar, sulla Commissione di vigilanza Rai, sullo spoil system negli enti locali, etc - il presidente della Consulta sottolinea come tutte queste decisioni «testimoniano la vastità e la diversità della vita sociali sui quali incide l'attività della Corte» rispetto alle quali ci sono stati «i più disparati giudizi, come è giusto che sia». «Tuttavia - aggiunge - la Corte dal primo gennaio 2009 è cambiata soltanto per un componente (Paolo Grossi, nominato dal Capo dello Stato, ndr). Chi volesse vedere nelle sentenze non dico un disegno, ma anche soltanto un orientamento coerente sul piano, alla Corte estraneo, della politica di questo o quel partito, di questo o quel movimento, resterebbe deluso», ammonisce Amirante.

«RISCHIO DELEGITTIMAZIONE» - «Quando si delegittima un'istituzione, a lungo andare si delegittima lo stesso concetto di istituzione - ha sottolineato Amirante - e, privo di istituzioni rispettate, un popolo può anche trasformarsi in una massa amorfa». Il presidente della Corte non ha mai citato esplicitamente le accuse di cui è stata fatta bersaglio la Consulta all'indomani della bocciatura del lodo Alfano. Tuttavia ha sentito il dovere di dedicare alla difesa di principi costituzionali gran parte della sua relazione. Secondo Amirante «rispettare la Corte significa anche, e forse soprattutto, conoscerne e considerarne i tempi» in particolare in relazione al «bilanciamento dei principi e dei diritti fondamentali, di valutazione delle decisioni nello scorrere del tempo, della previsioni dei loro effetti e, quindi, alle cosiddette 'ricadute». Per Amirante la Corte deve essere «sensibile ai segni dei tempi o della Storia, ma anche, aggiungerei, indifferente ai clamori della cronaca». Soprattutto perchè - spiega - la nostra Costituzione «rigida» comporta «tempi diversi da quelli di una legislatura e comporta l'abbandono della teoria» di ideologia giacobina «secondo la quale il popolo, esprimendo la volontà generale, può in ogni momento cambiare tutti i principi e le regole della propria convivenza». Non è così - avverte Amirante - soprattutto se si considera che l'art.1 della Carta nel prevedere che la sovranità appartiene al popolo, subito dopo stabilisce che questo la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

«TROPPI RICORSI, E' PATOLOGICO» - Entrando nel merito del lavoro dei giudici della Consulta, Amirante ha commentato che c'è un «qualcosa di patologico» nel perdurante alto numero dei ricorsi in via principale, vale a dire quelli che lo Stato compie contro leggi di Regioni e Province autonome o di queste contro leggi statali. I ricorsi in via principale alla Consulta sono stati nel 2009 110, un numero molto vicino a quello massimo di 116 raggiunto nel 2004, a fronte della inflessione che era stata registrata nel 2007 (52 ricorsi). «Non credo - afferma Amirante - che i cittadini ritengano normale e proficua la frequenza delle controversie tra Stato e Regioni e il continuo intervento della Corte per definire i confini delle loro rispettive competenze legislative».

mercoledì 24 febbraio 2010

Perdere voti...

Fini: sugli immigrati io e Silvio non siamo d'accordo. Il presidente della Camera: bisogna pensare anche ai loro diritti

Sugli immigrati il Pdl non ha proprio un'opinione condivisa. Lo ha detto Gianfranco Fini, il quale ha dato il nome alla legge in vigore, ma non l'approva al cento per cento. «La mia opinione non coincide al 100% con quella del presidente del Consiglio e questo è notorio», ha affermato infatti il presidente della Camera rispondendo ad una domanda a Bruxelles sulle dichiarazioni di Silvio Berlusconi riguardanti l'immigrazione. Sugli scontri di via Padova, a Milano, Fini ha detto: "Quel che accade a Milano non è poi diverso da quel che accade a Bruxelles a Malmoe o a Marsiglia: è un problema non solo italiano ma europeo quello del rapporto con le minoranze culturali, etniche o religiose, che tutti vogliono integrare ma poi - ha proseguito il presidente della Camera - quel che significa integrare è la grande sfida della cultura europea. Qualcuno pensava - ha ricordato Fini - che la Francia avesse indicato la strada, con il modello dell’assimilazione, ma poi la cronaca ha poi indicato che non era proprio così. Altri e in particolare la sinistra, guardavano al modello olandese o britannico, quello del 'melting pot', di tante diverse comunità, ma ora i primi che rimettono in discussione questo modello sono proprio gli olandesi e i cittadini di Sua Maestà". Insomma, ha concluso Fini, "Non basta dire che una politica corretta determini una corretta integrazione: la sfida è capire che cosa significa davvero integrazione non solo nell’ambito dei doveri ma in quello dei diritti degli immigrati".

Islam

La teoria del cavallo forte. L'analisi di Daniel Pipes

La violenza e la crudeltà degli arabi spesso sconcerta gli occidentali. Non solo il leader di Hezbollah proclama: "Amiamo la morte", ma lo fa anche un ventiquattrenne che il mese scorso ha gridato: "Amiamo la morte più di quanto voi amate la vita", mentre andava a sbattere con la sua automobile sul Bronx-Whitestone Bridge a New York. Se due genitori di St. Louis hanno perpetrato un delitto d'onore contro la loro figlia adolescente assestandole tredici colpi con un coltello da macellaio, un padre palestinese ha gridato: "Muori! Dai muori! (…) Stai zitta, bambina! Muori, figlia mia, muori!" – e in entrambi i casi la locale comunità araba li ha spalleggiati contro le accuse di omicidio. Un principe di Abu Dhabi ha di recente torturato un commerciante di grano che lo accusava di averlo truffato; malgrado un video delle atrocità sia stato mostrato dalle televisioni di tutto il mondo, il principe è stato assolto mentre i suoi accusatori sono stati condannati. Su una scala più larga, un computo rileva che dopo l'11 settembre sono stati perpetrati 15.000 attacchi terroristici. I governi di tutti i Paesi di lingua araba fanno più affidamento sulla brutalità che sul principio della legalità. Gli sforzi per eliminare Israele continuano a persistere anche quando le insurrezioni fanno presa; la più recente è scoppiata in Yemen. Esistono parecchi tentativi eccellenti volti a spiegare la patologia della politica araba; tra quelli che preferisco vi sono i saggi a cura di David Pryce-Jones e Philip Salzman. A questi ora si aggiunge The Strong Horse: Power, Politics, and the Clash of Arab Civilizations (edito Doubleday), una piacevole, ma profonda e importante analisi di Lee Smith, un corrispondente per il Medio Oriente di Weekly Standard. Smith parte da un commento espresso da Osama bin Laden nel 2001: "Quando la gente vede un cavallo forte e uno debole, per natura, tenderà a mostrare preferenza per quello forte". Ciò che Smith definisce il principio del cavallo forte contiene due banali elementi: prendere il potere e mantenerlo. Questo principio predomina perché la vita pubblica araba "non presenta alcun meccanismo per i pacifici passaggi di autorità o per la condivisione del potere, e pertanto [essa] considera il conflitto politico come una lotta senza quartiere fra cavalli forti". Smith rileva che la violenza è "essenziale per la politica, la società e la cultura del Medio Oriente di lingua araba". Ciò comporta altresì con più sottigliezza il dover guardare con circospezione il prossimo cavallo forte, riguardo al quale bisogna prendere una posizione e soppesare i pro e i contro. Smith sostiene che il principio del cavallo forte, e non l'imperialismo occidentale né il sionismo, "ha determinato il carattere basilare del Medio Oriente di lingua araba". La stessa religione islamica ben si accorda al vecchio schema dell'affermazione del cavallo forte e poi lo propaga. Maometto, il profeta islamico, era un uomo forte, com'era pure una figura religiosa. I musulmani sunniti hanno governato per secoli ricorrendo alla "violenza, alla repressione e alla coercizione". La famosa teoria della storia di Ibn Khaldun equivale a un ciclo di violenza in cui i cavalli forti rimpiazzano quelli deboli. L'umiliazione subita dai dhimmi ricorda quotidianamente ai non-musulmani chi governa. Il prisma di Smith offre delle intuizioni sulla storia moderna mediorientale. Il nazionalismo pan-arabo viene presentato come un tentativo di trasformare i mini-cavalli degli stati nazionali in un unico super-cavallo e l'islamismo viene mostrato come un tentativo di rendere i musulmani di nuovo potenti. Israele funge da "cavallo forte per conto" degli Stati Uniti e del blocco saudita-egiziano nella rivalità da guerra fredda che contrappone quest'ultimo al blocco guidato dall'Iran. In un ambiente in cui predomina il principio del cavallo forte, la legge delle armi attrae molto di più di quella delle urne. In mancanza di un cavallo forte gli arabi liberali fanno pochi progressi. Essendo il Paese non-arabo e non-musulmano più potente, gli Stati Uniti rendono l'antiamericanismo tanto inevitabile quanto endemico. Il che ci porta alle politiche esercitate dagli attori non-arabi: se essi non sono forti e non dimostrano realmente di stare al potere, sottolinea Smith, perderanno. Essere gentili – dice con riferimento al ritiro unilaterale dal Libano meridionale e da Gaza – porta all'inevitabile fallimento. L'amministrazione di George W. Bush ha avviato a ragione un progetto di democratizzazione, suscitando grandi speranze, ma poi è stata tradita dai progressisti arabi che non l'hanno portato a termine. In Iraq, l'amministrazione ha ignorato il consiglio di insediare un uomo forte favorevole alla democrazia. Più in generale, quando il governo Usa è esitante altri (p.es. la leadership iraniana) hanno l'opportunità di "imporre il loro stesso ordine alla regione". Walid Jumblatt, un leader libanese, ha asserito in tono semiserio che Washington "invia autobombe a Damasco" per far arrivare il proprio messaggio e mostrare che l'America ha compreso il modo di fare arabo. Il semplice e quasi-universale principio di Smith fornisce uno strumento per comprendere il culto della morte, i delitti d'onore, gli attacchi terroristici, il dispotismo, il guerreggiare e molto altro ancora che è tipico degli arabi. Egli ammette che il principio del cavallo forte potrebbe colpire gli occidentali per il fatto di essere indicibilmente rude, ma Smith insiste opportunamente sul fatto che esso costituisce una realtà indifferente che gli osservatori esterni devono riconoscere, prendere in considerazione e alla quale dover reagire.

Dhimmi

“Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo.” di Ugo Volli

In un recente articolo di Sergio Minerbi ho trovato una storia che mi ha molto colpito, tanto da cercarla sul web. Eccola, nella versione più completa che ho potuto recuperare: per bocca di "S.E. Mons. Ernesto Vecchi, Vescovo Ausiliare, Vicario Generale, Moderatore della Curia" di Bologna. Durante la Seconda Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, S.E. Mons. Giuseppe Germano Bernardini, Arcivescovo di Izmir in Turchia, dove è rimasto per oltre 40 anni e dove i musulmani sono il 99,9%, ha messo in evidenza la persuasione di tanti autorevoli personaggi musulmani così formulata: “Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo”. Tale persuasione fu espressa anche al Cardinale Oddi di v.m., durante il suo servizio diplomatico, da un noto Capo di Stato islamico che gli disse: “Voi ci avete fermato a Lepanto nel 1571 e a Vienna nel 1683. Noi invaderemo l’Europa, senza colpo ferire, grazie alla vostra democrazia”. (discorsi) A parte le "sue eccellenze" e le "venerate memorie" (questo significano le sigle), vale la pena di riflettere su queste dichiarazioni, perché corrispondono a un problema che non riguarda solo i cattolici, ma tutti: l'uso degli strumenti democratici contro la democrazia, delle garanzie per abolire le garanzie, delle leggi contro la legge. E' una vecchia abitudine delle forze dittatoriali: Mussolini e Hitler, a capo di movimenti già violenti, conquistarono il potere con le elezioni e istaurarono la dittatura per legge; lo stesso fecero i comunisti in Cecoslovacchia, Hamas nei territori palestinesi e sta facendo Erdogan in Turchia. Sul piano più vasto il tentativo si ripete in tutt'Europa: si invocano i diritti democratici per il velo, le moschee, la legalizzazione degli immigranti, col solo scopo di abolirli per tutti gli altri e applicare le "leggi religiose islamiche" che stabiliscono l'inferiorità dei "dhimmi", i non musulmani – come accade in tutti i paesi islamici. La cosa nuova e più preoccupante è che ci sono in Europa e nell'Occidente, volonterosi collaboratori di questa politica: giudici, politici, "cattolici di base", che ritengono loro dovere aiutare gli islamici nella loro lotta, in particolare contro Israele, applicando una giustizia asimmetrica, garanzie in una direzione sola. Insomma, la democrazia è in guerra, ha individuato la propria emergenza, ma in maniera strana. Lo vediamo continuamente, col rapporto Goldstone, coi mandati di arresto dei giudici inglesi contro i politici israeliani, con le stesse reazioni alla morte del terrorista di Hamas a Dubai. C'è stata una protesta ufficiale dell'Unione Europea per l'uso di passaporti falsi di presunti membri del Mossad. Ma con che passaporto viaggiava il terrorista? E si è mai visto un agente segreto che esibisse il suo passaporto vero? Magari di un paese non riconosciuto e non ammesso, com'è Israele in tutto il mondo arabo, Dubai incluso? Lo stesso vale, a un altro livello, per il processo Wilders in Olanda. Geert Wilders ha indicato il pericolo antidemocratico dell'ideologia islamista, ma non c'è stato un processo contro chi la professa, è stato incriminato lui. Sapete la vecchia storia del dito che indica la luna e dello stupido che guarda il dito e non la luna? Ecco, quando qualcuno oggi indica all'Occidente un pericolo e magari prova a difendersene, gli imbecilli considerano pericoloso il dito e cercano di eliminarlo: per lasciare entrare indisturbato il pericolo e "non provocarlo". Di modo che possa tranquillamente usare le nostre leggi democratiche per invaderci, senza fare troppa fatica.

Turchia e integralismo islamico

Il controllo sull'esercito e la magistratura. Erdogan se la prende con i militari ma dimentica l'integralismo islamico di Gabriele Cazzulini

La Turchia rivive l'ennesimo ciclo della retorica complottista. Da una parte c'è la democrazia egemonizzata dal partito dichiaratamente filo-islamico del premier Tayyp Recep Erdogan, ormai tra gli statisti turchi più longevi politicamente. Dall'altra le denunce, le inchieste e gli arresti contro eminenti personalità degli apparati militari. Ma questa volta è più complicato distinguere realmente tra autori e vittime del complotto. La notizia dominante è un massiccio arresto di altissimi ufficiali, generali di armata, componenti dello stato maggiore delle tre armi che avrebbero complottato nell'operazione “Martello” datata 2003 per rovesciare il governo di Erdogan e ristabilire un potere secolare. Quasi una cinquantina di personalità in divisa corrispondono a grandi linee alla classe dirigente delle forze armate – tanto per esprimere l'ampiezza di questa “retata” che riduce la portata persino del caso “Ergenekon”. Attentati alle moschee, dirottamente aerei ed autobombe avrebbero dovuto fomentare un clima di tensione per destabilizzare il governo e invocare un intervento d'emergenza del potere militare. Un copione perfetto. Ma basta uscire dal clamore mediatico per individuare fatti altrettanto influenti e capaci di sviluppare un'altra interpretazione assai differente. Prima degli arresti dei militari, la Turchia era precipitata in una eccezionale crisi del suo sistema giudiziario. Non si tratta soltanto delle reiterate richieste da parte di Bruxelles per riformare la giustizia turca in senso più europeo e per spingere il processo d'integrazione della Turchia su un binario veloce. Ma già a questo proposito il presidente turco Abdullah Gul ha espresso un parere molto significativo con l'ammettere la possibilità di un referendum popolare sulla riforma giudiziaria proposta dal governo. Con una popolazione in schiacciante maggioranza islamica, sarebbe molto delicato far approvare una riforma in senso laico o filo-occidentale. Forse l'obiettivo è proprio un plebiscito di voti contrari. Ma il vero fulcro della situazione è un altro. La crisi è divampata nella magistratura e nel suo controllo. In questi giorni nella provincia di Erzincan, nell'Anatolia orientale, il procuratore capo, Ilhan Cihaner, è stato rimosso dal procuratore capo di un'altra provincia, Erzurum, il quale è stato a sua volta sospeso dal supremo collegio dei giudici. Il procuratore Cihaner era impegnato in una delicatissima inchiesta sulle tentacolari ramificazioni di una società segreta, Ismailaga – un sistema di potere che abbinava la religione islamica ad una visione del potere imperniata sulla forte nostalgia ottomana, espressa persino nell'abbigliamento, contravvenendo ai principi legali della società laica della Turchia. La procura di Erzincan stava investigando su questa realtà clandestina sin dal 2007, giungendo a scoprire solidi collegamenti e sostegni nel governo di Ankara. Ismailaga era sia un abile collettore di fondi, come è nella tradizione dell'associazionismo islamico, dentro e fuori la Turchia, sia una fonte di predicazione integralista, che operava soprattutto negli asili e nelle scuole elementari. A differenza dell'inchiesta contro i generali golpisti, questa inchiesta non sembra destinata ad avere la stessa attenzione. E' evidente che mettere fuori gioco oggi le forze armate, disseppellendo un piano congegnato sette anni prima, impedisce la saldatura tra i due bastioni del potere secolare: armi e toghe. Non solo: a differenza del passato, adesso è il governo che passa all'attacco, decapitando i vertici militari e avviando una riforma della giustizia per stringere forte il controllo politico sui magistrati. Al centro di questo scontro resta il ruolo di un islam sempre più dominante.

martedì 23 febbraio 2010

Burqa

"Una legge per vietare il burqa e difendere i Lumi, anche a Teheran".

Si dice: «Il burqa è un abito; tutt’al più, un travestimento; non ci metteremo a far leggi sugli abiti e i travestimenti». Errore. Il burqa non è un abito, è un messaggio. Ed è un messaggio che esprime l’assoggettamento, l’asservimento, la repressione, la sconfitta, delle donne. Si dice: «È forse un assoggettamento, ma consentito; toglietevi dalla testa la vostra idea di un burqa imposto da mariti cattivi, da padri possessivi, a donne che non lo vorrebbero»… Sia pure. Solo che la schiavitù volontaria non è mai stata un argomento valido; lo schiavo felice, o la schiava felice, non ha mai giustificato l’infamia congenita, essenziale, ontologica, della schiavitù; dagli stoici fino a Jean-Jacques Elisée Reclus, da Victor Schoelcher a Lamartine passando per Tocqueville, tutti gli antischiavisti del mondo ci offrono ogni possibile argomentazione contro la piccola infamia supplementare che consiste nel fare delle vittime gli autori della propria disgrazia. Si dice: «Libertà di culto e di coscienza; libertà, per ognuno, di esercitare e manifestare la religione di propria scelta; in nome di che cosa ci si permetterebbe di proibire a un fedele di onorare Dio nel modo prescritto dai testi sacri?». È un sofisma. Infatti, non si ripeterà mai abbastanza che indossare il burqa non è una prescrizione coranica. Non esiste alcun passo che obblighi le donne a vivere nella prigione di ferraglia e tessuto che è un velo integrale. Non esiste un solo sapiente di principi coranici che non sappia che il volto, come le mani, non sono considerati dal Corano una «nudità». E non parlo di chi oggi, come Hassan Chalghoumi, il coraggioso imam della moschea di Drancy, dichiara a gran voce ai propri fedeli che indossare il velo integrale è decisamente antislamico. Si dice: «Stiamo attenti a non mescolare tutto! Stiamo attenti, focalizzando l'interesse sul burqa, a non alimentare un’islamofobia che altro non chiede se non di scatenarsi e che sarebbe essa stessa una forma celata di razzismo: è stato impedito, a questo razzismo, di infiltrarsi attraverso la grande porta del dibattito sull’identità nazionale; e adesso lo lasciamo tornare attraverso la finestra della discussione sul burqa?». Ancora un sofisma. Un indistruttibile ma assurdo sofisma. Perché si tratta di cose ben diverse. L’islamofobia, vale la pena rammentarlo, non è evidentemente una forma di razzismo. Quanto a me, non sono islamofobo. Tengo troppo ai valori spirituali, e al dialogo delle spiritualità, per essere ostile a tale o a talaltra religione. Ma la libertà di critica nei confronti di tutte le religioni, il diritto di sbeffeggiare i loro dogmi o le loro credenze, il diritto alla miscredenza, alla blasfemia, all’apostasia, sono diritti acquisiti a un prezzo troppo alto per lasciare che una setta, che terroristi del pensiero, li annullino o li rendano più fragili. Qui è in discussione Voltaire, non il burqa. Sono in discussione i Lumi di ieri e di oggi, e la loro eredità non meno sacra di quella dei tre monoteismi. Un arretramento su questo fronte e sarebbe come dare un segnale a tutti gli oscurantismi, a tutti i fanatismi, a tutti i veri pensieri di odio e di violenza. Infine, si dice: «Ma di cosa si tratta, dopotutto? Di quanti casi? Di quanti burqa? Per qualche migliaio, forse qualche centinaio, di burqa registrati sull’insieme del territorio francese, vale la pena far tanto baccano, tirar fuori un arsenale di regolamenti, fare una legge?». È il tema più ricorrente. Per alcuni, il più convincente. Solo che, in realtà, è specioso quanto i primi. Infatti, delle due l’una. O si tratta soltanto di un gioco, di un modo particolare di vestirsi, di un travestimento (vedi sopra) e allora, in effetti, è la tolleranza che dovrebbe essere di rigore. Oppure si tratta di un'offesa alle donne, di un oltraggio alla loro dignità, si tratta di una messa in causa diretta della regola repubblicana fondamentale— anch’essa pagata a caro prezzo — di uguaglianza fra i sessi: allora è una questione di principio; e il numero, quando si parla di principi, non influisce sul problema. È immaginabile rimettere in causa la legge francese del 1881 sulla libertà di stampa col pretesto che gli attacchi a tale libertà si fanno rari? E cosa diremmo se qualcuno, osservando che la quantità di attacchi razzisti o antisemiti contro le persone diminuiscono, pensasse di abolire, o alleggerire, le legislazioni che vigono in materia? Se veramente il burqa è un insulto alle donne, se è un'ingiuria, per di più, nei confronti delle donne che in Iran sfilano con il volto scoperto contro un regime di assassini di cui uno dei simboli è il burqa; insomma, se questo simbolo significa che l'umanità si divide fra quelli il cui corpo è glorioso e dotato di un non meno glorioso volto e quelle i cui corpi e volti sono oltraggi viventi, scandali che bisognerebbe nascondere o neutralizzare, allora, se anche una sola donna, in Francia, si presentasse all’ospedale o in municipio ingabbiata nel suo velo, bisognerebbe liberarla. È per tutti questi problemi di principio che sono favorevole a una legge, netta e chiara, che dichiari contrario ai valori della Repubblica indossare il burqa nei luoghi pubblici.

Polemiche

Asilo comunale accetta solo bimbi cristiani. Succede a Mantova ed è polemica

Può un asilo pubblico, comunale, comportarsi come uno privato? Succede nella provincia di Mantova, a Goito, dove un asilo comunale accetterà solo bambini che provengono da famiglie che vivono secondo «l'ispirazione cristiana della vita». Lo stabilisce un regolamento, proposto dal centrodestra e approvato in Comune. Per la prima volta, un Comune subordina un servizio pubblico alla fede religiosa. La vicenda è riportata dalla Gazzetta di Mantova. Il regolamento delle polemiche – un esposto è già stato presentato all'Associazione nazionale dei Comuni italiani – pone infatti come condizione per poter iscrivere il figlio all’asilo, alcune condizioni religiose, soprattutto la provenienza da una famiglia cattolica o cristiana, escludendo così molte famiglie di immigrati, spesso di diverso orientamento religioso. Inoltre, «l'ispirazione cristiana della vita» potrebbe escludere, se seguita alla lettera, i figli di divorziati o non credenti. La giunta e il sindaco Anita Marchetti motivano la decisione con il fatto che, «pur essendo l'asilo pubblico, da sempre viene gestito secondo criteri che si ispirano al cristianesimo». L’opposizione ha sollevato il problema dell’incostituzionalità del regolamento, poiché la Costituzione italiana stabilisce, tra l’altro, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, «senza distinzione di religione». In ogni caso, la maggioranza – area Udc, appoggiata da parte del Pdl e Lega Nord – ci tiene a precisare che precludere l’iscrizione all’asilo, da sempre gestito con valori cristiani, non va contro la Costituzione, ma ha semplicemente l'obiettivo di rispettare la tradizione della gestione.

Grecia

Immigrazione. Respinti 183 albanesi alla frontiera con la Grecia

Centottantatre persone, provenienti dall'Albania, sono state bloccate e respinte dalla polizia greca mentre tentavano di entrare illegalmente, attraverso la frontiera di Kakavia.Gran parte degli aspiranti immigrati erano nascosti su automobili e di camion, mentre altri avevano tentato di attraversare la frontiera a piedi.

lunedì 22 febbraio 2010

Certo

Imprese, Asiim: in crescita solo grazie a imprenditori immigrati

Sono le aziende controllate da migranti l'elemento piu' dinamico dell'imprenditoria locale. Lo ha reso noto il Rapporto imprenditorialita' dei migranti in Provincia di Milano, un'analisi quantitativa su imprese e imprenditori al 31 dicembre 2008, a cura di Asiim, l'Associazione per lo sviluppo dell'Imprenditorialita' immigrata a Milano, presentato stamani a Palazzo Giureconsulti Dal 2005 al 2008 le imprese che fanno capo ai migranti sono infatti aumentate a Milano e provincia del 33,5%, a fronte di una sostanziale immobilita' numerica delle imprese milanesi (nel complesso +1,6%). Tendenza che trova conferma anche a livello Regionale, con un incremento delle imprese migranti del 45,8% rispetto al +2,5% delle imprese totali. A crescere sono soprattutto le aziende guidate da imprenditori dell'Est europeo (+65,7%, corrispondenti a 1895 imprenditori), dell'America Latina (+36,1%, corrispondente a 595 imprenditori) e dell'Est asiatico (+29,3%, equivalente a 1069 imprenditori). Incremento positivo anche per l'imprenditorialita' immigrata femminile, cresciuta nello stesso periodo del 37,3% contro il 32,1% registrato dagli imprenditori uomini.

Unione euroaraba

Olanda verso il multilinguismo? di Maurizio De Santis

Il 22 luglio dello scorso anno, Geert Wilders, guida indiscussa dell’ultra destra olandese, formulò al governo del primo ministro Jan Peter Balkenende un quesito breve ma infido quanto un cobra: “Quanto ci costa un immigrato?" Il governo prese tempo e, sul finire di quella stessa estate (il 10 settembre), diede voce al proprio ministro per l’immigrazione, Eberhard Van der Laan, formulando una risposta che avrebbe fatto piacere alla Segreteria Vaticana: "Non teniamo conto del valore economico degli esseri umani". Balkenende si guardò bene dal divulgare numeri, essendo troppo palpabile la paura che il partito xenofobo strumentalizzasse le cifre, alimentando un argomento a favore dell'espulsione dei musulmani irregolari. Ma la genericità della risposta fu interpretata dai più come una chiara ammissione del governo batavo di quanto i contribuenti fossero costretti a farsi carico dell'immigrazione di massa. Oggi, in piena campagna elettorale per le amministrative (e con il governo Balkenende fresco di dimissioni), la sinistra ha preso un’iniziativa che potrebbe avere serie conseguenze a livello psicologico. I vari partiti: laburista (PvdA), cristiano-democratico (CDA), centro-sinistra (D66) socialisti (SP) e Verdi hanno assunto l’iniziativa di presentare i propri candidati musulmani, affiggendo manifesti in sola lingua araba (Verdi) e turca (PvdA). Il ministro per l’immigrazione, Eberhard Van der Laan, al limite di un attacco isterico, ha subito richiamato i responsabili dei partiti al fine di rimuovere alla svelta i manifesti elettorali in questione. La retromarcia più immediata è stata quella del partito laburista mentre, invece, i Verdi hanno puntato i piedi, mantenendo i loro manifesti in arabo. Ma c’è stato di più. Koen De Mesmaeker, responsabile del Consiglio Fiammingo per l’integrazione dei Rifugiati, nonché direttore del programma di naturalizzazione nella città fiamminga di Gand, è andato oltre l’iniziativa dei manifesti in turco ed arabo. Per De Mesmaeker, la lingua non può essere ritenuta un dogma, perchè " l'olandese permette una coesistenza armoniosa ma non può essere ritenuto uno scopo in sé". Formula contorta che vorrebbe dire: la nostra società sta cambiando. Dunque sarebbe bene contemplare la possibilità che l’Olanda diventi una nazione bilingue o, dovesse servire, multilinguistica. Il prossimo 3 marzo ci saranno le elezioni amministrative. I succitati partiti della sinistra hanno, quasi tutti, prestato ascolto al ministro per l’immigrazione. Altri, invece, hanno preferito giocare fino in fondo la carta del voto degli immigrati. Rischiando. Perché se i sondaggi dicono che il 40% degli immigrati darà la propria preferenza al partito laburista, si prevede pure che solo il 34% di essi si recherà alle urne. Nel frattempo, Wilders affila le armi. Intenzionato a superare il suo precedente, clamoroso, 17%. E se anche in questa occasione Geert avrà successo, la sinistra olandese non potrà lamentarsi di non essere stata compresa dagli elettori. Visto che stavolta ha davvero parlato arabo.

Espulsione

Attentati, espulso un marocchino: voleva essere come Mohamed Game di Manara

MILANO — AVEVA ESPRESSO compiacimento per l’attentato alla caserma Santa Barbara. Definito «religiosamente lecito» un, ipotizzato, attentato terroristico contro strutture militari o un’azione contro persone ritenute colpevoli di non rispettare l’islam. Tra queste, la leader del Movimento per l’Italia Daniela Santanchè, colpevole, a suo parere, di avere insultato Maometto e l’Islam nel corso di alcune trasmissioni televisive.

ORDINE PUBBLICO e sicurezza dello stato sono i motivi per cui ieri il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha disposto il provvedimento di espulsione nei confronti di un marocchino ritenuto vicino ad organizzazioni del fondamentalismo islamico. E con un volo partito nella tarda serata di ieri è stato riaccompagnato al suo Paese di origine Mohammed Takoullah, 38 anni.

ERA RESIDENTE a Treviglio, in provincia di Bergamo. Il legame dell’uomo a formazioni jihadiste sarebbe emerso proprio nel corso delle indagini che sono seguite all’attentato terroristico alla caserma Santa Barbara di piazzale Perrucchetti, avvenuto il 12 ottobre scorso. In seguito alla, per fortuna solo parziale, deflagrazione, in cui non si era verificato alcun ferito eccetto l’attentatore. gli investigatori si sono concentrati, tra le varie attività di indagine, a controllare diversi frequentatori del centro culturale islamico di viale Jenner. Proprio da questo setaccio, il marocchino è risultato aderire al fondamentalismo islamico di impronta jihadista.

IL NOME di Mohammed Takoullah non dice niente ad Abdel Hamid Shaari, presidente del centro culturale islamico di viale Jenner: «Potrebbe essersi presentato come un soprannome, quindi non escludo che abbia frequentato la moschea». Ma, ricorda Shaari, «se avessimo sentito qualcosa, l’avremmo subito denunciato». Il presidente però non ci sta con questo «gioco al massacro. Tutte le volte che succede qualcosa, il nome del nostro istituto viene trattato come il timbro della malvagità, come fosse la testimonianza che, allora, si tratta di un vero terrorista. Ma è frequentato da migliaia di persone, cinque volte al giorno per tutto l’anno. Ogni persona è responsabile davanti alla legge italiana per i suoi misfatti». Anche Mohamed Game, l’aspirante kamikaze della caserma Perrucchetti, era stato fotografato alle preghiere della comunità di viale Jenner. Ma, ripete Shaari, «sarà venuto due o tre volte, non era neanche un praticante».

NON È LA PRIMA VOLTA che il Ministero dell’Interno decide un’espulsione come quella di Takoullah. Ordine pubblico e sicurezza dello Stato erano i motivi per cui già ai tempi della prima inchiesta Al Mujairum, quando ancora, poco prima dell’11 settembre, non era stato introdotto il reato di terrorismo internazionale erano stati espulsi due tunisini. Sono poi seguite altre espulsioni anche per soggetti imputati o solo indagati per terrorismo internazionale. È del giugno del 2008 l’espulsione anche di Essid Sami Ben Kemais. Condannato per terrorismo internazionale è stato espulso nonostante, in quel caso, la Corte Europea fosse intervenuta per ben 2 volte per sospenderne l’espulsione.

Salman Rushdie vs Amnesty

"La rabbia di Salman Rushdie: Amnesty difende un terrorista".

LONDRA
- Salman Rushdie contro Amnesty International. Lo scrittore colpito nel 1989 dalla fatwa degli ayatollah iraniani per un libro giudicato immorale e sacrilego nei confronti di Maometto va all'attacco dell'organizzazione che si batte in tutto il mondo per la difesa dei diritti dell'uomo,e che in nome di quei diritti ha difeso strenuamente e ripetutamente anche lui. A dividerli, ora, è la questione del terrorismo, in particolare il terrorismo e l'estremismo islamico che fanno capo ad Al Qaeda: per Rushdie, Amnesty International è diventata colpevole di «bancarotta morale» a causa del sostegno che sta dando a un cittadino britannico di fede musulmana, imprigionato per anni nel campo americano di Guantanamo perché sospettato di complicità con la rete del terrore di Osama bin Laden, infine liberato nel 2005 e da allora alla testa di un'associazione che difende gli ex-detenuti del campo di prigionia americano. Un'associazione che, secondo lo scrittore di origine indiana, in realtà è un paravento per la solidarietà e l'appoggio ad attività terroristiche. Al centro della disputa c'è Moazzam Begg, il cittadino britannico che dopo essere uscito da Guantanamo ha fondato una ong chiamata Cageprisoners (Prigionieri in gabbia), appunto con l'obiettivo di dare assistenza legale ai detenuti ed ex-detenuti di Guantanamo. I suoi rapporti con Amnesty International hanno fatto infuriare Salman Rushdie, secondo quanto riporta il Times of India, maggiore quotidiano di Nuova Delhi. Amnesty fu in prima fila nel condannare la fatwa iraniana, ossia l'editto religioso che condannava a morte lo scrittore, dopo la pubblicazione del suo romanzo "I versetti satanici", che per l'ayatollah Khomeini, guida suprema dell'Iran, rappresentava una sfida all'Islam. Ma nell'accettare di avere rapporti con l'associazione dell'ex-detenuto di Guantanamo, afferma Rushdie, «Amnesty International ha provocato un danno incalcolabile alla propria immagine e alla propria reputazione». Perciò lo scrittore ha deciso di denunciarla e ha reso noto che troncherà ogni suo legame con Amnesty, rifiutando di partecipare ad attività o convegni indetti dall'organizzazione per la difesa dei diritti umani. La protesta di Rushdie, scrive sempre il Times of India, non è la prima di questo tipo: segue infatti la auto-sospensione dalle file di Amnesty da parte della scrittrice indiana Indira Sahgal, anche lei citando il legame tra Amnesty e l'associazione dell'ex-detenuto britannico di Guantanamo come ragione principale del dissidio. Kate Allen, responsabile di Amnesty International in Gran Bretagna, ha reagito con un comunicato in cui l'organizzazione dice di «prendere seriamente» le critiche espresse da Rushdie e da altri, ma affermando che Amnesty continuerà a fare pressioni per ottenere «il rispetto universale» dei diritti umani in qualunque circostanza, inclusa la questione dei detenuti islamici di Guantanamo.