lunedì 31 dicembre 2012

Auguri!


Auguri di Buon Anno!

domenica 30 dicembre 2012

Di agende (miracolose) montiane e di rubriche...


Alcuni amici mi hanno sconsigliato di indugiare sul promemoria di Monti http://www.ilpost.it/2012/12/24/agenda-monti/agenda-monti-01/

Una perdita di tempo per un documento dal sapore preelettorale. Quanto all’ecumenismo, ha poco da invidiare alla letteratura che ha infestato le precedenti e infesterà l’attuale campagna. Già a poche ore di distanza dalla pubblicazione, la cruda realtà degli eventi comincia a beffarsi, però, delle intenzioni pie e ipocrite impresse a futura memoria. A pagina 12, il documento recita “Per aiutare la crescita sostenibile del settore agroalimentare italiano occorre fermare la cementificazione e limitare il consumo di superficie agricola come proposto nel disegno di legge per la valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo del suolo”; a poche ore di distanza lo stesso Monti, sostenuto dai buoni uffici di Corrado Passera, autorizza, oltre all’aumento del 70% della tariffa riscossa per ogni passeggero, il raddoppio delle piste dell’aeroporto di Fiumicino con il conseguente esproprio, a prezzi di mercato e relativo sovrapprezzo legato all’esercizio di attività, della quasi totalità dell’area agricola Maccarese, uno dei terreni agricoli più fertili esistenti in Italia e la probabile urbanizzazione della parte restante. Un’opera in gran parte superflua solo con un semplice processo di ottimizzazione delle attuali strutture aeroportuali. Il particolare intrigante risiede nei Benetton, proprietari dell’azienda agricola, acquistata a suo tempo a prezzi politici dallo Stato e contemporaneamente importanti azionisti di Adr, gestore dell’aeroporto http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/27/aeroporti-di-roma-lultimo-regalo-di-monti-a-benetton/456079/

Probabile che l’accavallarsi degli impegni in “Agenda”, porti a qualche incongruenza, qualche distrazione se non allo sdoppiamento della personalità del nostro Primo Ministro “tecnico”. Come vedremo, non si tratta, però, di un episodio isolato. Lo stesso Monti deve, in qualche maniera, essere cosciente della sua eccessiva propensione ad aderire a realtà antitetiche tra loro e temere che qualcosa sfugga al controllo se non alla sua coerenza di immagine; il suo vezzo di prendere appunti e rinviare di qualche tempo le decisioni, tra le altre cose, deve servire a riordinare le scadenze e gli argomenti; qualche particolare può sempre sfuggire. Una qualsiasi espressione dell’uomo rivela sempre, per quanto mimetizzati, una rappresentazione, un “non detto”, un “mondo vitale”; l’Agenda, a suo modo, ne rivela tante del nostro Professore sino a farlo scendere sempre più dall’Olimpo alle beghe e furberie del conflitto politico quotidiano. [continua qui]

Terzomondismi, mondialismi e massoneria...


Pauperismo e marketing. Terzomondismo, ma senza perdere la consuetudine con il potere. L'abilità è la prima virtù nella comunità di Sant'Egidio, uno degli snodi strategici nelle ore in cui Monti sta partorendo la sua creatura. E la nascita è assistita dai guru della comunità, elegante biglietto da visita delle migliori istanze pacifiste della nostra epoca. Sant'Egidio ha meriti indubbi, per esempio aver portato la pace nel Mozambico devastato da una lunghissima guerra civile, ma Sant'Egidio gode anche di buona stampa. Specialmente quella di sinistra che poi è quella che forma buona parte della coscienza nazionale. E Sant'Egidio ha ottime entrature nei palazzi che contano, nelle stanze di chi comanda, nelle sagrestie più accreditate. Così quando nel 1992 la diplomazia parallela della comunità fece scoppiare la pace nel paese africano, nessuno si ricordò dell'opera preziosa e infaticabile del sottosegretario Gabrielli. I giornali lo oscurarono, come capita in una eclissi, e tributarono la standing ovation d'ordinanza alla comunità romana. In principio, un trentina d'anni fa, c'erano due preti. Don Vincenzo Paglia, classe 1945, e don Matteo Zuppi, di dieci anni più giovane. Il primo è stato per molti anni parroco della basilica romana di Santa Maria in Trastevere, l'altro il suo vice. Poi, sia pure a tappe, entrambi hanno fatto carriera. Oggi Paglia è vescovo di Terni, Zuppi è vescovo ausiliare di Roma con raggio d'azione fra i vip del centro storico. Il terzo del gruppo, Andrea Riccardi esce dai fermenti postsessantottini del Virgilio, uno dei licei storici della Capitale. I tre fondano Sant'Egidio, una comunità che mette le proprie energie al servizio dei poveri. È un po' la loro chiave di violino: il cristianesimo viene a liberare gli ultimi. E i poveri, per loro, sono soprattutto quelli che non ce la fanno, che non arrivano alla fine del mese, che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Intendiamoci: non c'è niente di più cristiano, ma l'enfasi è tutta in quella direzione perché Nostro Signore è venuto a salvare tutti, chi sta bene e chi se la passa male. Insomma, la realtà viene letta con il cannocchiale della tradizione cattolica democratica. Un menù perfetto per la sinistra, anche se la comunità sa essere trasversale. Lo si capisce bene quando Paglia diventa, il 2 aprile 2000, vescovo di Terni: la consacrazione avviene davanti a migliaia di persone nella basilica d San Giovanni in Laterano. Paglia fa il giro del tempio, manco fosse il Papa, per raccogliere l'applauso scrosciante dei fedeli fra i quali ci sono politici di tutto l'arco costituzionale. Paglia, e con lui i suoi amici e collaboratori, è fatto così: sembra intimo della destra, del centro e della sinistra e infatti, come una lobby superaddestrata, Sant'Egidio batte cassa con tutti i governi. Ma il cuore sta a sinistra, nella cornice di quel pauperismo che privilegia chi si dibatte in fondo alla scala sociale. Dove il povero non è il povero di spirito ma quello cui manca tutto. A Sant'Egidio invece non manca nulla: finanziamenti, consenso, sostegno dei grandi giornali. Se Cl e l'Opus Dei sono sempre state nel mirino dei quotidiani progressisti, con accuse talvolta al limite della fantascienza, Sant'Egidio e i suoi capitani sono sempre stati portati in palmo di mano e la comunità ha sempre ricevuto cospicui aiuti per i propri progetti: per esempio 600 milioni di lire per combattere l'Aids in Mozambico con tanto di assegno arrivato da Bill Gates tramite il presidente di Microsoft Italia Roberto Paolucci.

Si sanno vendere bene, benissimo, gli apostoli della pace universale: l'Onu di Trastevere, la chiamano i suoi ammiratori. E anche ora, alle grandi manovre del governo Monti, non si sono fatti cogliere impreparati. Con quella collocazione, vicina alla lista Monti cui è approdato Riccardi, e la spiccata sensibilità per i temi sociali cari alla sinistra, sono all'incrocio strategico fra Monti e Bersani, al crocevia di quello che dovrebbe essere il domani dell'Italia. Formalmente solo Riccardi è sceso in campo, ma di fatto tutta la comunità è schierata sulle stesse posizioni e non vive quella lacerazione che ha attraversato l'area che fa riferimento a Comunione e liberazione. Anzi, Riccardi e Paglia sono di casa non solo nelle capitali africane sfregiate dalla miseria e dalla guerriglia, ma anche nei salotti che contano. E così, non c'è da stupirsi che l'altro giorno si sia sparsa la voce, poi smentita in una giostra incontrollabile di versioni, che l'incontro chiave per il costituendo centro montiano, cui ha partecipato anche Riccardi, si sia svolto nell'istituto di Nostra Signora di Sion, ai piedi del Gianicolo, residenza di monsignor Paglia che è vescovo e Presidente del pontificio Consiglio per la famiglia ma resta consigliere spirituale di Sant'Egidio. E si prepara a dare la benedizione al nuovo governo.

Requisiti necessari


ROMA - A quanto punta Monti? A Palazzo Chigi, fra i suoi collaboratori più stretti, le cifre ballano di alcune decine di unità: si va dal 15% al 30% e passa. C'è incertezza, voglia di ottimismo e prudenza allo stesso tempo, l'auspicio di andare incontro a un exploit. I sondaggi attuali, dicono, sono tutti in qualche modo virtuali. Quelli veri, o che cominceranno a tenere conto dell'impegno elettorale del Professore, arriveranno solo con il nuovo anno. Monti punta a scongelare quanti più voti possibili dall'astensionismo, punta a fratturare gli schemi attuali. Nelle riunioni di questi giorni, con il suo staff e con gli esponenti delle liste che a lui si richiameranno, ha detto chiaramente che non intende rifare la Dc, né tantomeno riconoscersi nella categorie che gli si affibbiano in questi giorni: «Non siamo né di centro e tantomeno moderati». Queste, ha lasciato intendere il capo del governo, sono vecchie scatole ideologiche che non vanno più bene per una campagna che si annuncia e deve essere diversa. Avrà un cifra multimediale, per esempio, oltre che votata ai contenuti: il premier dimissionario potrebbe aprire un canale dedicato su YouTube , farà largo uso di Facebook e Twitter , cercherà di raggiungere il maggior numero di cittadini che si trovano sulla rete e fuori dagli schemi tradizionali, e in alcuni casi ormai obsoleti, di comunicazione. «In qualche modo, se volete, un Grillo istituzionale ed europeista», era il commento che si trovava ieri in un servizio dell'Ansa. «Con tutto il rispetto per coloro che hanno finora rappresentato i partiti vogliamo superare la mappa attuale dell'offerta» politica ai cittadini italiani, ha detto ancora Monti ai suoi recenti interlocutori. È anche per questo, ha aggiunto, che occorre costruire qualcosa che abbia una vocazione maggioritaria, che non punti a essere ago della bilancia, bensì una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere l'impegno politico.


«Abbiamo intenzione di aprire il programma ai cittadini, di offrire e valutare innesti alla cosiddetta Agenda Monti», dicono a Palazzo Chigi, rafforzando la sensazione di viverla anche come una scommessa, di cui si sono soppesati i rischi come le opportunità, la necessità di non seguire i tempi e i modi di Bersani o di Berlusconi, la voglia di presentarsi come offerta totalmente nuova. Enrico Bondi avrà certamente l'ultima parola su quella che il Professore ha definito come lista civica, alla Camera, ma che in realtà sarà una vera e propria lista Monti, da lui controllata. Ha già in qualche modo incorporato team e lavoro svolto sin qui da Italia Futura, lanciata da Montezemolo. E saranno almeno quattro i criteri che lui stesso ha chiesto al superconsulente di osservare per vagliare le candidature: fedina penale immacolata, conflitto di interessi inesistente, storia professionale di valore e radicamento sul territorio. Forse non sarà facile trovare tantissimi candidati con questi requisiti ma questo è l'obiettivo, certamente ambizioso. Come forse è ambiziosa l'intenzione di recuperare la candidatura di Passera, che nelle ultime ore sembra averla esclusa: ieri sera Monti e il suo ministro avrebbero avuto una conversazione, incentrata sulla possibilità che anche il titolare del dicastero allo Sviluppo possa dare un contributo alla vittoria della coalizione montiana. Esistono diverse versioni sulle modalità dell'offerta alla Camera: «Una sola lista centrista - ha detto Monti nella riunione avuta due giorni fa con Casini - avrebbe il sapore di una formazione dal sapore tecnocratico e poi rispettiamo le articolazioni locali e la storia dei singoli partiti che ci sosterranno». A cominciare dall'Udc.

Eppure, nel suo staff, si articola anche una versione che offre altre sfumature: nessuno pensi che la scelta sia il frutto di un cedimento del Professore al desiderio di Casini di mantenere una certa autonomia, anche nella scelta dei candidati; la decisione può essere letta come l'esatto contrario. Una lista civica, diversa dai partiti, squisitamente montiana, riflette anche la voglia esplicita del capo del governo di pesarsi. Lui e il progetto che ha intenzione di mettere in pratica nelle prossime otto settimane. Secondo questa versione Mario Monti non ha insomma voglia di essere solo una guida, l'autore di un progetto di idee al quale è stato fornito un contenitore politico. Ci tiene a rappresentare in modo emblematico che sarà lui ad avere i maggiori consensi: ha voglia di affermare una ben precisa leadership politica, per un percorso che va certamente oltre le elezioni Politiche di febbraio. In questa cornice le dissonanze sulle candidature e il ruolo del commissario Enrico Bondi, ieri, alimentate dalle parole di Casini, confermano la sensazione che anche dentro lo schieramento che sosterrà Monti è già scattata una corsa interna: come si articoleranno gli endorsement che il professore farà nei prossimi giorni? Quanto punterà sulla vittoria della propria lista rispetto alla vittoria dell'intera coalizione? Domande e temi che nei prossimi giorni, in qualche modo, il premier dimissionario avrà modo di affrontare, più o meno direttamente.

Marco Galluzzo

Conflitto d'interesse...


Roma - Chiesa, mondo cattolico, grande industria, banche. Sono gli azionisti del marchio «Monti in politica», molto più strategici degli alleati di facciata Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, costretti a sposare il Professore per mancanza di alternative. No, qui si parla di pezzi fondamentali del sistema-Italia il cui endorsement il presidente del Consiglio uscente si è garantito con l'opera di una serie di efficienti «pontieri» ma anche con qualche provvedimento ad alleatum approvato nella sua opera di governo. Siamo insomma in zona conflitto di interessi. L'appoggio più entusiastico negli ultimi giorni è stato quello delle gerarchie ecclestiastiche, con tanto di benedizione dell'Osservatore romano, mai così esplicito nell'appoggiare un leader politico di quello strano Paese straniero che è l'Italia. Forse un ringraziamento per alcuni favorucci resi dal governo dei professori negli ultimi tredici mesi. Prendete l'Imu: Monti ha fatto passare il concetto che il suo è stato il primo governo a far pagare l'imposta sugli immobili alla Chiesa. In realtà la rivoluzione è stata abilmente annacquata da una serie di scappatoie previste dal regolamento. Ad esempio le attività commerciali e alberghiere della Chiesa possono continuare a non pagare l'Imu se le loro prestazioni sono svolte dietro il pagamento di cifre non superiori alla metà «dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale». Un principio simile salva di fatto buona parte delle scuole paritarie cattoliche. E che dire delle mancette da 12,5 milioni al Bambin Gesù di Roma e da 5 milioni al Gaslini di Genova erogate nelle pieghe di uno dei tanti emendamenti al decreto sviluppo che è stato il congedo del Monti-1? Trattasi di due istituti cattolici molto cari alla Cei, che avrà certamente gradito il cadeau natalizio. E poi c'è uno dei provvedimenti più controversi del governo tecnico, quella sanatoria utilizzata da oltre 100mila lavoratori stranieri in nero per regolarizzarsi molto invocata dalla Comunità di Sant'Egidio, del quale guarda caso Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione internazionale, è fondatore ed ex presidente. Proprio quel Riccardi che, dopo esser stato uno dei più attivi portatori d'acqua del governo Monti, svolge lo stesso ruolo nel partito-Monti.

Tifa a gran voce per un Monti legittimato dall'elettorato a Palazzo Chigi quel blocco di potere che si raggruma attorno alle grandi imprese e alle banche e che vuole avere un piede se non tutti e due nelle stanze dei bottoni. Quelle che si beano di provvedimenti del governo come il decreto legge del 24 gennaio 2012 che, all'articolo 32 comma 1, prevede a proposito dell'assicurazione obbligatoria per i veicoli sconti e agevolazioni per gli automobilisti che acconsentano a installare sul proprio veicolo la cosiddetta «scatola nera». Si prevedono tempi gloriosi per le aziende leader in questa tecnologia tra le quali c'è, toh, la Octo Telematics partecipata dal fondo Charme che fa capo a Luca di Montezemolo. Magicamonti il valore della Octo è volato a cifre siderali: secondo Goldman Sachs addrittura un miliardo. Capito come? E poi c'è stato un altro regalino in extremis: lo sblocco da parte del ministero del Tesoro del ritocco delle tariffe aeroportuali a Fiumicino. Ogni passeggero pagherà 10,50 euro in più a tratta e grazie a questo super-obolo Adr, la società che gestisce gli scali romani, avrà una bella boccata di ossigeno e potrà sbloccare investimenti per 12,5 miliardi entro il 2044. Un futuro luminoso per la società controllata dalla Gemina e quindi dai Benetton, e presieduta da Fabrizio Palenzona, che è anche numero due di Unicredit e membro di alcuni strategici cda. Gente importante, che si spenderà con entusiasmo per un Monti premier. È il minimo, no?

venerdì 28 dicembre 2012

La "nuova formazione politica"...

Qualche commento: "E' inutile dire che a questo individuo è consentito tutto, ma la legge elettorale attualmente in vigore, il tanto vituperato porcellum non consentirebbe la manovra che questo bieco individuo vorrebbe fare, ma lo farà perchè lui può."

"Semplicemente osceno, in quanto si tratta di un vero e proprio attentato alla democrazia, attraverso un pesante ridimensionamento del voto popolare, probabilmente suggerito anche dagli amici del signor Monti a Bruxelles. Sicuramente non verra' valutato come tale dalle presunte grandi firme giornalistiche italiane, nella realta' assolutamente inesistenti."


Non ha in mente un vero e proprio partito, piuttosto una federazione delle forze centriste che possano portarlo nuovamente sullo scranno di Palazzo Chigi. Così, per mera opportunità, il premier dimissionario Mario Monti ha deciso di correre al Senato con una lista unica, mentre alla Camera si presenterà con una coalizione di liste. "Non immaginiamo alleanze con gli uni o gli altri - ha spiegato il Professore - questa è una operazione di rinnovamento nel profondo della politica italiana che deve avere un giorno vocazione maggioritaria". Tuttavia, per provare ad essere rieletto premier, si è visto costretto ad allearsi con Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Luca Cordero di Montezemolo. "Oggi nasce una nuova formazione politica". Dopo oltre quattro ore, il vertice tra il Professore e le forze centriste si conclude con l'archiviazione dell’idea di scegliere, come modalità operativa della aggregazione centrista, un nuovo partito da presentare a entrambe le Camere. "Non ho mai pensato di creare un nuovo partito, non sono l’uomo della provvidenza", ha spiegato lo stesso Monti che, nei giorni scorsi, aveva sollecitato l'opzione di creare una lista unica anche a Montecitorio. Ci sarà dunque una sola lista, che si richiamerà a Monti, al Senato e più liste alla Camera (una dell’Udc e una civica) così da accantonare i personalismi della politica e, al tempo stesso, rispettare diverse storie. L'idea, di per sé, è piuttosto semplice: aggregare le forze di centro in modo da essere alternative al bipolarismo tra destra e sinistra e creare un terzo polo, appunto, che raccolga il consenso di movimenti, spicchi della società civile e individui singoli che si riconoscono nell'agenda presentata settimana scorsa dal Professore. A Enrico Bondi ha affidato una sorta di due diligence per valutare i candidati. Tuttavia, alcuni nomi è lo stesso Monti a snocciolarli: oltre agli scontatissimi centristi (Pier Ferdinando Casini, Benedetto Della Vedova, Linda Lanzillotta e Nicola Rossi), si sono già schierati il piddì Pietro Ichino, il ciellino Mario Mauro, i vertici di ItaliaFutura (all'incontro erano presenti Carlo Calenda e Andrea Romano), il presidente della Provincia Autonoma di Trento Lorenzo Dellai e il presidente delle Acli Andrea Olivero. Dei tecnici, invece, erano presenti Corrado Passera, Andrea Riccardi, Ezio Moavero Milanesi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà.

Durante il vertice di oggi pomeriggio i centristi hanno preparato uno statuto che permetterà la coesistenza tra forze politiche, associazioni, movimenti e individui. E sta tutto qui il "trucchetto" del Professore che potrà contare su una macchina ben oliata per fare la campagna elettorale senza partecipare ai comizi, su cui ammette di non aver molta pratica. "La mia terzietà nell'esercizio dei poteri dell'ordinaria amministrazione non verrà assolutamente messa in gioco", ha continuato Monti, convinto di aver dimostrato in questi mesi di "essere fuori dalla pressione degli interessi di parte". Dribblando abilmente l'endorsement fatto nelle ultime ore dal Vaticano e la marcata componente cattolica presente tra i suoi sostenitori, il premier ci ha tenuto a sottolineare che si tratta di movimento teso a persone credenti e non credenti. "Credo che le questioni etiche siano fondamentali, non le considero meno importanti delle situazioni dell'economia ma non è su queste questioni che si articola questa formazione e questo impegno", ha aggiunto rimandando alla coscienza personale e alle sedi parlamentari il confronto.

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Nel frattempo, in rai per par condicio, succede anche questo.

Contenti loro, contenti tutti...


Non sappiamo se sia un bene o un male, ma è un fatto che non è più la Chiesa di una volta: ha perso la capacità di nuotare sott'acqua. Non è colpa sua: sono cambiati i tempi e i prelati si adeguano, molto in fretta. Mario Monti in VaticanoSessant'anni orsono, le cose della politica erano drammatiche (scontro tra Occidente e Unione Sovietica) ma semplici, direi schematiche: gli elettori decidevano se stare di qua o di là, ed era finita lì. I partiti che contavano erano due: la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Tutti gli altri movimenti erano di contorno. Ovvio che la Chiesa confidasse nella Dc, alla quale non lesinò aiuti e appoggi, dalla Madonna Pellegrina portata in giro per l'Italia alle prediche domenicali dei parroci, quando le parrocchie erano affollate e guidavano, oltre alle anime, anche le matite copiative in cabina elettorale. Oggi il costume dei cattolici, nel senso di battezzati, è profondamente mutato: la maggioranza di essi, pur rispettosi della tradizione, ascoltano poco o nulla i sermoni (specialmente se scivolano in politica) e assistono raramente alla messa domenicale. Agiscono di testa loro, non danno retta al prevosto e al curato, salvo in punto di morte: nel caso, diventano osservanti, si confessano e accettano, anzi chiedono, l'estrema unzione. Non si sa mai. Basti pensare che il 90 e rotti per cento dei defunti vengono portati in chiesa prima di essere trasferiti nella dimora definitiva.

Cosicché le parrocchie pesano assai meno, quasi zero, nelle scelte elettorali dei cittadini. I quali però sono influenzati dai mezzi di comunicazione, in particolare dalla tivù. Ovvio. La parola delle gerarchie ecclesiastiche, se divulgata da giornali ed emittenti, riesce ancora a persuadere una buona percentuale (15-20 per cento?) di persone, che possono determinare la vittoria e la sconfitta alle urne. Ecco perché ogni partito si preoccupa di avere la benedizione del Vaticano. Il quale, consapevole di ciò, in occasione di consultazioni, si sbilancia verso quelle forze che garantiscono (almeno sulla carta) rispetto per il proprio verbo. Dato che la Dc (esclusa la particella infinitesimale denominata Udc) è svaporata, i cardinali hanno il loro bel daffare a identificare il gruppo politico da sponsorizzare, e spesso falliscono l'obiettivo; ma questo è un altro discorso. Con l'avvicinarsi del 24 febbraio, i porporati hanno sentito l'esigenza di esprimersi: l'uomo su cui hanno posato gli occhi, sperando di averlo azzeccato, è - manco a dirlo - Mario Monti, che ha il pregio di essere credente e apprezzato in alto loco (banche e finanza rapace). La nostra non è indiscrezione, ma una notizia pubblicata dall'Osservatore Romano, la voce del Papa e del suo entourage. L'articolo è un elogio del premier dimissionario e può anche essere letto quale incitamento ad andare avanti nei suoi propositi: coagulare consensi attorno alla famosa Agenda, una specie di Vangelo in cui si spiega come procedere nella spoliazione degli italiani usando la garrota fiscale. Un bestseller per chi nella povertà vede una virtù (povertà degli altri, s'intende).

Non ci stupisce la santa indicazione, ma le tribolazioni da cui è sortita: non tutti i principi della Chiesa erano della stessa opinione. E le divisioni sono rimaste. Normale che tra i prelati ci sia chi giudica in un modo e chi in un altro; meno normale è che ultimamente quanto avviene nelle segrete stanze si sappia. Diciamo che ha prevalso il parere di Angelo Bagnasco, erede di Camillo Ruini alla guida della Cei, quello che accettò le dimissioni di Dino Boffo dalla direzione di Avvenire per la nota vicenda della quale mi sembra si sia discusso abbastanza. Transeat. Il succitato Ruini all'epoca dei cinque referendum (uno di essi riguardava la fecondazione assistita) passò per un grande politico perché avrebbe convinto gli aventi diritto al voto a non recarsi al seggio, causando così il mancato raggiungimento del quorum. Sottolineiamo che quella legge era stata approvata dal centrodestra, «regnante» Silvio Berlusconi, considerato nella circostanza, quindi, il premier della Provvidenza. La quale evidentemente è di umore mutevole, dato che ha cambiato idea: ora predilige Monti, semi-leader del semi-centro destinato a trasformarsi in un centro forte e potente al punto da obbligare Pier Luigi Bersani a soccombere. Sarà come Dio vorrà e può darsi che Bagnasco si debba rassegnare alla volontà celeste, che spesso non coincide con quella dei porporati: e non è solo un problema cromatico. Intanto un miracolo il Professore lo ha già compiuto: l'ospedale Gaslini di Genova (sta a cuore ad Angelo Bagnasco) e l'ospedale Bambin Gesù di Roma (sta a cuore a Tarcisio Bertone) hanno ricevuto dal pio governo Monti, in articulo mortis, un finanziamento rispettivamente di 5 e 12 milioni di euro. Incoraggiante.

Volti nuovi...


Si allunga la lista dei magistrati che scendono in politica. Dopo l'ex procuratore di Palermo Antonio Ingroia, anche Pietro Grasso e Stefano Dambruoso hanno deciso di candidarsi alle prossime elezioni. Questa mattina il procuratore nazionale antimafia ha presentato al Consiglio superore della magistratura la richiesta di aspettativa elettorale che verrà ratificata dal plenum alla riapertura dei lavori dopo la pausa delle festività. Nel pomeriggio la stessa richiesta è stata presentata dall'ex pm antiterrorismo. Bocche cucite dall’ufficio romano del procuratore nazionale antimafia. Per il momento si limitano a confermare la richiesta di aspettativa per motivi elettorali. Tuttavia, fonti vicine al magistrato fanno sapere che Grasso si candiderà con il Partito democratico. Domani la decisione sarà formalizzata nel corso di una conferenza stampa alla quale interverrà anche Pier Luigi Bersani nella sede capitolina del partito. Piuttosto certo anche il destino di Dambruoso che, lo scorso ottobre, aveva firmato il manifesto di ItaliaFutura di Luca Cordero di Montezemolo ricevendo apprezzamento dal candidato alla presidenza della Regione Lombardia Gabriele Albertini che corre per la lista del patron della Ferrari. All'interno di ItaliaFutura, Dambruoso è anche il responsabile del settore giustizia. Nei giorni scorsi Albertini aveva accarezzato l’idea di avere Dambruoso come primo nome della lista civica che lo sostiene nella candidatura a presidente della Lombardia, ma non pare che sarà questo il futuro dell’ex pm antiterrorismo. "Mi riservo di vedere cosa uscirà in questi giorni", ha chiosato Dambruoso. Un plenum straordinario del Csm è stato fissato per lunedì sette gennaio - prima data utile dopo la pausa per le festività natalizie - e la seduta ratificherà le domande di aspettativa per motivi elettorali presentate dai magistrati in servizio. Le domande non sono soggette a valutazione ma possono solo essere accettate da Palazzo dei Marescialli, come è avvenuto nei casi di Antonio Ingroia e Stefano Amore.

mercoledì 26 dicembre 2012

Ancora un aumento...

Un commento: "Ma bisogna pur pagare Benigni 5 milioni di Euro, la Clerici 3,8 milioni di Euro, @ milioni a Fazio per Che tempo Fa e chissa' quanti ne prendera' per Sanremo, il Direttore Gubitosi Euro 650.000 all'anno. E si potrebbe continuare all'infinito. Sarebbe ora che anche alla RAI si iniziasse a fare un po' di pulizia e che l'azienda diventasse finalmente pubblica eliminando questa assurda tassa sulla proprieta' del televisore!"


Ancora un aumento. Nel 2013 l'importo del canone Rai lieviterà a 113,50 euro. La tassa sul possesso della tivù cresce di 1,50 euro rispetto all'importo del 2012. "È sintomatico che nel 2013 si debba ancora pagare l’imposta per il possesso di un apparecchio televisivo - ha commentato il presidente dell'Aduc, Vincenzo Donvito - oltre ad essere stupido è anche un insulto all’intelligenza media di un qualsivoglia contribuenti". Uno degli ultimi atti del governo Monti è stato mettere mano alla tassa più invisa da tutti gli italiani. Con un decreto il ministero dello Sviluppo economico ha infatti deciso di ritoccare all'insù l'importo del canone Rai che adesso costa 113 euro e cinquanta centesimi. Come sottolineato sul sito abbonamenti della televisione pubblica, il canone dovrà essere versato entro il 31 gennaio 2013. "È sintomatico di un sistema economico, fiscale e amministrativo basato su arroganza, falsità e corporazioni", ha commentato il presidente dell'Aduc ricordando che i contribuenti sono costretti a pagare l'imposta anche se non usano il televisore. Un’imposta sul contenitore, in sostanza. "Dando per scontato che un servizio pubblico radiotelevisivo ci debba essere - ha aggiunto Donvito - così come ci debba essere l’Istat o il Cnr, forse per questi due ultimi istituti ci viene chiesta un’imposta con lo stesso metodo della Rai?". Ovviamente no.

Vacuità, vanità e arroganza


La campagna elettorale è iniziata. L'ex premier rompe gli indugi e annuncia su Twitter la sua "salita" in politica. Il 23 dicembre, tra attacchi al Cavaliere, ordini impartiti alla coppia Fini-Casini e ammiccamenti a Bersani, Mario Monti aveva annunciato la sua probabile discesa in campo in una conferenza elettorale poco sobria e molto politica. Tante bordate a Silvio Berlusconi e l'impegno a fare nuovamente il Presidente del Consiglio se il Parlamento glielo chiederà. Quindi a bocce ferme. Fuori dai giochi elettorali, senza mettere la faccia (ma il nome non si sa) sui cartelloni elettorali. Nella notte tra Natale e Santo Stefano, tramite il suo nuovissimo account di Twitter @SenatoreMonti, è tornato a parlare. Un cinguettìo perfettamente intonato col nuovo Loden da campagna elettorale che il professore ha indossato. "Insieme abbiamo salvato l'Italia dal disastro - annuncia Monti -. Ora va rinnovata la politica", scrive attorno alle 23 e 30. Monti non ha nessuna intenzione di farsi da parte e dopo essersi auto regalato - per l'ennesima volta - il ruolo di salvatore della Patria lancia la sua nuova idea di politica. Quale sarebbe? Tanto per cominciare dobbiamo smettere di lagnarci. Tutti zitti. Anche se nella sua agenda spuntano parole come patrimoniale che a molti fanno venire i capelli dritti. Al professore non piacciono le domande e i giornalisti, figurarsi le critiche. "Lamentarsi non serve, spendersi si (sic, ndr)", scrive l'ex premier. Tra tasse e balzelli da spendere, effettivamente, ci siamo rimasti solo noi stessi. E poi, ancora, l'annuncio della discesa in campo che, però, non è più un moto verso il basso ma verso l'alto. Un'ascensione, insomma. Come per i santi. "Saliamo in politica... Insieme... Saliamo in politica." Lo aveva già detto durante la conferenza stampa, facendo anonimo ma chiarissimo riferimento alla storica discesa di Silvio Berlusconi nel 1994, che lui trova orribile l'immagine dello scendere in campo. Non è dato sapere se l'ascesa contempli anche un prosaico, pedestre e democratico passaggio dalle urne. Che poi è "solo" la grammatica fondamentale della democrazia.

lunedì 24 dicembre 2012

Auguri a tutti!


Buon Natale!

Piemonte, consulenze, svendite e conflitti d'interesse...


Non bastava un esperto qualunque per risollevare le sorti di una Regione in default finanziario. Ed è per questo che, nonostante un debito di 1,6 miliardi di euro (ma che potrebbe anche essere di più) la Regione Piemonte ha affidato l’incarico di consulenza a Ferruccio Luppi, brillante amico del governatore Roberto Cota e dell’assessore alla Sanità, Paolo Monferino, tutti vicini al gruppo Fiat-Agnelli. Una consulenza “altamente professionale” per cui l’Ente avrà sborsato (al 31 dicembre 2012, termine di scadenza del contratto) 100 mila euro. L’operazione di finanza creativa, di tremontiana memoria, in effetti è complessa. Perché riguarda la vendita del patrimonio immobiliare della Regione, comprese le proprietà di Aziende ospedaliere e Asl. Con grandi operazioni di ingegneria finanziaria gli ospedali presto non solo dovranno cedere il loro patrimonio immobiliare ma pagheranno anche l’affitto al fondo che sarà istituito dalla Regione e il patrimonio sarà gestito da un’altra società esterna. I contorni di questa vicenda sono emblematici e lasciano qualche perplessità, sia per quanto riguarda la nomina di Luppi, sia per le modalità in cui verrà gestita la vendita del patrimonio.

A Luppi, il governatore ha affidato l’incarico di collaborazione per essere supportato, come si evince dalla delibera del 16 gennaio 2012, “nelle funzioni di coordinamento dell’esecutivo regionale, in ordine alle scelte strategiche di sostegno allo sviluppo economico, riferite sia alla ristrutturazione del debito, sia alla cessione di partecipazioni, nonché alla valorizzazione immobiliare ed alla gestione del patrimonio”. La carriera del consulente “esperto”, così come si legge sul giornale locale “Lo Spiffero”, ha inizio nella Ifil degli Agnelli. Nel 1997 è passato alla Worms, holding di partecipazioni quotata alla Borsa a Parigi (controllata dalla stessa Ifil). Ha gestito le finanze alla Fiat e poi qualche collaborazione anche in Ferrari e Cnh. Nel 2009 è entrato nel direttorio di Générale de Santé, il gruppo ospedaliero francese leader nel settore della sanità privata. Oggi è membro del cda del più grande ente di gestione fondi immobiliari (Idea-Fimit). Se non è un conflitto d’interessi suona quantomeno strano.

Cota, con il lancio di due fondi immobiliari pensa di portare in tempi rapidi nelle casse regionali circa 600 milioni di euro. La ratio dell’iniziativa è semplice: la Regione raccoglie immobili sui quali può esprimere anche una valutazione, si costituisce un fondo, si affida a una Sgr (società di gestione del risparmio) la quale, nel momento in cui acquisisce la disponibilità del patrimonio, anticipa all’Ente subito una somma (600 milioni, appunto). Nel primo fondo, definito Fondo immobiliare regionale (Fir) dovrebbero confluire beni per oltre 500 milioni di euro. Metà dal nuovo palazzo della Regione, la quota che resta in carico alla Regione è di 1/3 mentre 2/3 vanno ad “investitori terzi” (fondi pensioni, assicurazioni). Tutto bene a parte il fatto che non è chiaro quale valore reale si possa assegnare a un bene che non è di proprietà, dato che il nuovo palazzo della Regione è un “leasing in costruendo”. Il fondo avrà una durata ventennale e potrà indebitarsi per 200 milioni. Le quote di partecipazione saranno del 33% della Regione e del 66% di investitori privati.

Nel secondo fondo, definito Fondo immobiliare sanitario (Fis), confluiranno immobili degli ospedali per un miliardo di valore, avrà durata venticinquennale, potrà indebitarsi per 350 milioni e le quote di partecipazione saranno del 66% delle aziende ospedaliere e del 33% di investitori terzi (identificati come investitori etici, quindi fondazioni bancarie, fondi pensione). Il secondo fondo comprende pure gli immobili ospedalieri destinati all’attività di ricovero. Cioè vengono tolte alle Aziende sanitarie le proprietà e l’ospedale dovrà pure pagare l’affitto al fondo. In questo caso non è chiaro a chi verrà affidata la gestione degli immobili. Probabilmente, per proseguire sulla scia della privatizzazione dei servizi, così come sta avvenendo già con altri provvedimenti in campo sanitario, a grosse società o multiservizi. E sempre ai privati si potranno assegnare servizi quali, manutenzione, edilizia, pulizie. Non è detto che con queste operazioni la Regione riesca a far cassa, specie se non bada a spese quando deve scegliere gli uomini che affiancano il governatore o società esterne che gestiscono in maniera manageriale anche la sanità. È certo che seminerà indebitamenti e mutui per 20 anni. E i provvedimenti sono inderogabili.

di Angela Corica

L'agenda monti

Un paio di commenti: "Non c'è stato finora nessuno che abbia avuto il coraggio di smentire che tutti i dati dell'economia italiana sono peggiorati drammaticamente nell'ultimo anno. Quindi, se è vero che Monti ha preso in mano il paese che stava male, è altrettanto vero e incontrovertibile che lo ha lasciato che sta PEGGIO. Ora con che faccia tosta si presenta a recitare la parte del salvatore della patria? Capisco che che i paesi concorrenti dell'Italia siano entusiasti delle sue capacità di esecutore fallimentare, visto che possono ormai comprarci a prezzi di saldo, ma che ci siano Italiani che si innamorino di un un personaggio simile, rimane un mistero della fede."

"Un'agenda che avrebbe scritto qualsiasi amministratore di condominio: l'unico punto degno di nota (tra l'altro presente in tutti i programmi) è la riduzione del deficit, non una riga però sulle questioni etiche, se vuole scuole private o scuole pubbliche, sul fine vita... Ma non vedete che Monti è lo specchio per allodole messo lì da Bertone, Bagnasco, Casini & co? L'ingenuità ed il poco spessore intellettuale degli elettori italiani mi stupisce sempre di più..."


E' un documento snello, di appena 25 pagine, pubblicato in tarda serata su un sito ad hoc: www.agenda-monti.it. Contiene una serie di azioni programmatiche, alcune delle quali da attuare nei primi 100 giorni del prossimo governo. Un'agenda - come l'hanno definita in molti - con una serie di dati macro-economici che forniscono la cartina di tornasole sull'attuale situazione italiana, delineando il perimetro entro il quale si muoverà il prossimo esecutivo tra il pareggio di bilancio strutturale (messo nero su bianco anche nella Costituzione italiana) e la necessità di ridurre lo stock di debito pubblico di un ventesimo all'anno (ora oltre il 120% del Pil) per venire incontro ai desiderata della Ue, sancite dal Fiscal Compact.

L'INCIPIT - La premessa è sostanziale e ricalca perfettamente il carattere di Monti. Quell'incipit «non appena le condizioni generali lo consentiranno» richiama alla lontananza (antropologica) del suo personaggio da quello del venditore di fumo e imbonitore, demagogo e politicante di professione, che promette e poi non mantiene. Ma quel occorre impegnarsi «per ridurre il prelievo fiscale complessivo dando precedenza a lavoro e impresa», denota il sostanziale passaggio alla Fase 2, quella non attuata dal premier anche per le resistenze parlamentari e la breve esperienza temporale di Monti al timone del Paese.

I CONTI PUBBLICI - Nel testo c'è la considerazione - condivisa anche dall'ormai ex premier - degli enormi sacrifici fatti dagli italiani per rimettere in carreggiata il Paese: «L'aggiustamento fiscale compiuto quest'anno a prezzo di tanti sacrifici degli italiani ha impresso una svolta. Con l'avanzo primario raggiunto, il debito è posto su un sentiero di riduzione costante a partire dal prossimo anno. Per questo, se si tiene la rotta, ridurre le tasse diventa possibile». «Per la prossima legislatura - riporta il testo appena diffuso - occorre un impegno a ridurre il prelievo fiscale su lavoro e impresa. Anche trasferendo il carico corrispondente su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio». Ecco qui l'ipotesi di una progressiva riduzione del cuneo fiscale sul lavoratore e sulle imprese, attuabile (forse) con una tassa patrimoniale di difficile applicazione e il rischio (enorme) di una fuga di capitali all'estero.

IL MERCATO DEL LAVORO - Nelle venticinque pagine anche il tema-lavoro: «La riforma del mercato del lavoro rappresenta un passo avanti fondamentale del nostro Paese verso un modello di flessibilità e sicurezza vicino a quello vincente realizzato nei Paesi scandinavi e dell'Europa del nord. Non si può fare marcia indietro. Serve monitorare l'attuazione delle nuove norme per individuare correzioni possibili e completare le parti mancanti, ad esempio quelle relative al sistema di ammortizzatori sociali, al contenuto di formazione dell'apprendistato o alle politiche attive del lavoro e all'efficacia dei servizi per l'impiego». Anche qui un sostanziale sostegno all'impianto della riforma Fornero, la necessità di verifiche costanti sull'operatività delle norme e l'ammissione di un richiamo maggiore alle politiche attive del lavoro (quelle inerenti la ricollocazione del lavoratore in esubero), finora dimenticate per rispondere all'emergenza del quotidiano. In attesa dell'Aspi nel 2015, l'assicurazione sociale per l'impiego, che diventerà l'ammortizzatore universale ampliando la platea (potenziale) di destinatari.

Fabio Savelli

Imbrogli sottaciuti...


Nei bilanci sul governo Monti passa in secondo piano una voce pur presente nell'almanacco 2012 dell'esecutivo: gli scandali. In dodici mesi i membri del governo non se li sono fatti mancare affatto, cinque indagati, ma soltanto due si sono dimessi: il sottosegretario Carlo Malinconico, dopo tre mesi (vacanze luxury pagate a sua insaputa) e l'altro sottosegretario, alla Giustizia, Andrea Zoppini, indagato per concorso in frode fiscale e dichiarazione fraudolenta. Gli altri, solo sfiorati dalle polemiche. Lo status di tecnici appoggiati da una strana maggioranza li ha forse messi al riparo dal tiro a segno che avrebbe investito ministri politici. Ma spesso più che tecnici sembrano degli intoccabili. Chiamati per salvare il Paese, pare quasi sconveniente chiedergli conto di stranezze che li riguardino. «Vedo che siamo nell'alta politica» ha risposto ironicamente il premier, in conferenza stampa, alla domanda sulla casa ai Parioli comprata a metà del valore di mercato e ad un prezzo più basso del mutuo richiesto dal ministro dell'Economia Vittorio Grilli (ieri assente). L'ombra di un pagamento in nero per un ministro dell'Economia, da cui dipende la Guardia di finanza, è un sospetto che nessun predecessore avrebbe potuto liquidare con un semplice «sono soltanto pettegolezzi, non si interferisca sulla mia causa di divorzio». Tranne Grilli, già finito nel mirino per le consulenze a Finmeccanica della prima moglie. Nemmeno un graffio, intoccabile.

Quando crollò un pezzo di Domus dei gladiatori a Pompei, l'allora ministro Bondi fu costretto alle dimissioni da un centrosinistra caricato a molla contro di lui, quasi colpevole materiale del crollo. Nel 2012, con il professor Ornaghi ministro, si sono staccati pezzi di intonaco nella Domus della Venere in Conchiglia, poi nel Tempio di Giove, ed è caduta una trave di quattro metri nella Villa dei Misteri, sempre all'interno degli scavi archeologici di Pompei. Ma nessuno si è sognato di accusare Ornaghi, che se l'è cavata con una riflessione filosofica: «Pompei è la metafora del Paese: basta un niente e viene giù qualcosa». Niente di più, anche lui intoccabile. In Procura è finita invece la casa del ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi. Un altro appartamento vista Colosseo, come quello più noto di Scajola che però si dimise, comprato a prezzo stracciato (180 mila euro per 109mq), grazie a una sentenza del Consiglio di Stato, di cui all'epoca il ministro era presidente di sezione. Patroni Griffi, nei giorni della polemica, confessò di «non dormire più», ma anche di non aver mai pensato alle dimissioni. In effetti lo scandalo si richiuse subito, dimenticato in tempi record.

Su Passera, superministro di Monti, è passato lieve come una piuma l'avviso di inizio indagini partito dalla Procura di Biella («un atto dovuto») per presunti reati fiscali commessi da amministratore di Banca Intesa. «Non c'era sentore di nulla, perché se ci fosse stata avrei preso provvedimenti» è stata invece la difesa del ministro delle Politiche agricole Mario Catania, quando è esploso lo scandalo nel suo ministero: 11 arrestati tra funzionari e dirigenti che truccavano gli appalti per avere in cambio soldi, vacanze, cibo. Anche in quel caso nessun accanimento sul ministro ignaro di tutto. Un po' di polvere ha fatto la vicenda di Silvia Deaglio, figlia del ministro Elsa Fornero. La dottoressa, ricercatrice dell'Hugef finanziato dalla Compagnia di San Paolo (dove la madre era consigliere di sorveglianza), ha vinto un concorso per professore associato con una commissione presieduta dal presidente dello stesso Hugef, che la premiò anche per «l'ottima capacità di attrarre fondi di finanziamento per la ricerca». Poi è stata chiamata dall'Università di Torino. Dove sono professori ordinari sia la madre che il padre. Anche il viceministro Michel Martone (quello dei giovani «sfigati») è finito sotto tiro per un concorso vinto all'Università. Ma per poco. Il sottosegretario alla Salute, Adelfio Elio Cardinale, è finito tra gli indagati della procura di Bari su presunti concorsi truccati, mentre Roberto Cecchi, sottosegretario ai Beni culturali, è sotto indagine della Corte dei conti per un presunto danno erariale. Tutti però al loro posto. Sfiorati, ma intoccabili.

domenica 23 dicembre 2012

La conferenza del salvatore


Chi avesse ancora qualche dubbio sul ruolo politico, e non più tecnico, di Mario Monti nella campagna elettorale, l'ha sicuramente accantonato dopo aver ascoltato la conferenza stampa di fine anno. Dopo essersi arrogato il merito di aver "salvato" il sistema Italia dalla crisi economica e di aver ridato al Belpaese credibilità agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, il Professore è passato ad attaccare Silvio Berlusconi e il Pdl e, quindi, a presentare il "manifesto" da sottoporre al prossimo governo. Non c'è stato alcuno spazio per i mea culpa. Ad ascoltare le parole di Monti sembra che in Italia sia tutto rose e fiori, che effettivamente la crisi sia passata e che gli indicatori economici siano tornati a sorridere. Non una parola sulla disoccupazione da record, sul debito pubblico che è balzato oltre i 2mila miliardi di euro, sulla pressione fiscale che ha raggiunto i massimi storici. Dopo tredici mesi di lavoro, 401 giorni per l'esattezza, il premier dimissionario si è presentato agli italiani assicurando che l'emergenza finanziaria è superata senza la strettoia degli aiuti dell’Ue e del Fondo Monetario Internazionale. "Era così precaria la situazione dell’Italia nel novembre 2011, eravamo circondati da una così profonda diffidenza", ha detto il Professore per poi citare le parole pronunciate da Alcide De Gasperi alla Conferenza di Parigi nel 1946: "Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me". Così, con un esagerato paragone alla condizione italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Professore si è lanciato in un auto incensamento del proprio operato a Palazzo Chigi e dei tecnici al governo senza, tuttavia, nascondere l'aiuto apportato dalla maggioranza che lo ha sostenuto in questi mesi e il fastidio che ha provato quando il segretario del Pdl Angelino Alfano ha sfiduciato l'esecutivo per le politiche economiche recessive intraprese.

Subito dopo, Monti è passato a illustrare il "manifesto" per l'Italia. Una sorta di agenda che, punto per punto illustra le riforme e gli interventi che il prossimo governo dovrà realizzare nei primi cento giorni di legislatura. Una sorta di memorandum che punta a rilanciare la crescita, snellire la macchina burocratica e cambiare profondamente la macchina politica. Il primo punto, va da sé, è la strenua difesa delle politiche avviate dai tecnici. "È necessario non distruggere i sacrifici, non dissipare quello che con grande fatica e con capacità di sopportazione che lascia pensare che i nostri cittadini abbiano capito cosa stavamo facendo e chiedendo loro", ha spiegato il Professore citando un paio di esempi di modi sicuri per dissipare questi sacrifici: "sottrarsi alle linee guida dell’Europa" e "promettere di abolire l’Imu". Lanciando una stoccata a Berlusconi, che nei giorni scorsi aveva promesso di abolire l'imposta sulla casa, Monti ha spiegato che togliere l’Imu "senza altre grandissime operazioni di politica economica" obbligherà, quanto prima, a dover mettere una tassa doppia.

I danni continueranno (post lungo)

Mario Monti (Weimar reloaded) di Maurizio Blondet

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità. Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese». Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro» (Il Tesoro e la via anti-debito).

Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori». A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening.

I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. Andiamo per ordine: Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa. Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.

Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero. Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio. Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.

Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca. La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina. Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.

Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller). Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza. Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari. «Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).

Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto». Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig). La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.

L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto. Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig). Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo». Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.

Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore. Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata permantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978). Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i salari.

Nel 1931, Bruening fece lo stesso: per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%. Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato. La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi). Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.

I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti. «L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig). In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler. E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1). Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».

1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.

sabato 22 dicembre 2012

Non avere di meglio da fare...


BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente. È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell'educazione infantile è ormai all'ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell'asilo. In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell'uomo e della donna nell'immaginario dei bambini. In un'intervista al settimanale Die Zeit , Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l'articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».

Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l'idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo». L'unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell'Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c'è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l'articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo. Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.

Paolo Lepri

Patrimoniale sui risparmi


Non è una vera e propria patrimoniale, ma ci si avvicina abbastanza. Tanto che già si parla di mini patrimoniale sui risparmi. Tutto merito dell'Agenzia delle Entrate che ieri ha fatto pubblicato una circolare che definisce l’ambito di applicazione, i criteri di calcolo e le agevolazioni dell’imposta di bollo applicabile agli estratti di conto corrente e ai rendiconti dei libretti di risparmio. Dopo aver "fotografato" le giacenze su conti correnti bancari e postali, libretti, polizze vita, fondi comuni e derivati, l'erario applicherà l'1 per mille. Prelievo che è destinato a a rincarare dal 2013 quando si pagherà l'1,5 per mille senza limiti. Negli attimi finali della legislatura, il parlamento ha approvato una serie di mitigazioni per non andare a colpire le persone meno abbienti. In base alla circolare dell’Agenzia delle Entrate, il conto corrente "di base" rivolto alla clientela socialmente svantaggiata non pagherà, infatti, l’imposta di bollo. Si tratta del servizio senza spese che deve essere offerto dall’intermediario ai consumatori il cui Isee è inferiore a 7.500 euro. La stessa esenzione è concessa agli estratti e ai libretti, intestati a persone fisiche, che hanno un valore medio di giacenza complessivo non superiore a 5mila euro.

L'Agenzia delle Entrate ha, poi, chiarito che Banche e Poste Italiane devono applicare l’imposta di bollo sugli estratti di conto corrente e sui rendiconti dei libretti di risparmio, nella misura di 34,20 euro se il cliente è una persona fisica, e di 100 euro negli altri casi. Per i libretti "al portatore" deve essere considerato il soggetto che risulta censito al momento dell’emissione del libretto. Tuttavia se, successivamente all’emissione, viene censito dall’intermediario quale portatore del libretto, un soggetto diverso da quello che ne ha richiesto l’emissione, la misura dell’imposta deve essere determinata in considerazione del soggetto che risulta portatore del libretto. In caso di più rapporti di conto corrente o libretti di risparmio intestati al medesimo soggetto, l’imposta deve essere applicata con riferimento a ciascun rapporto.

Ma la vera e propria stangata arriva sul bollo sulle comunicazioni dei prodotti finanziari - ovvero le comunicazioni relative a valori mobiliari, a quote di organismi di investimento collettivo del risparmio, a strumenti finanziari derivati, a polizze assicurative e i buoni fruttiferi postali con valore superiore a 5mila euro. Rientrano nel campo applicativo dell’imposta, inoltre, i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati. Per queste tipologie di comunicazioni, l’imposta viene applicata, in relazione all’ammontare complessivo dei prodotti finanziari detenuti dal cliente presso il singolo ente gestore, in modo proporzionale nella misura dell’1 per mille annuo nel 2012 e dell’1,5 per mille a partire dal 2013, con un importo minimo di 34,20 euro e un massimo, previsto soltanto per il 2012, di 1.200 euro.

venerdì 21 dicembre 2012

Monte dei Paschi di Siena

Immaginate di avere un paio di conti correnti. Immaginate che la vostra banca, per bilanciare il profondo rosso di uno, si mangi (e senza manco avvertirvi) l'attivo dell'altro. Cioè 20 milioni di euro. E dopo 15 anni, un tribunale vi da finalmente ragione così, andate allo sportello per farveli restituire e non vi danno un soldo. Perchè mai? Gli amministratori di Monte dei Paschi di Siena sono andati a piangere miseria davanti alla cassazione: restituire una simile somma potrebbe creare alle finanze della banca un "danno grave e irreparabile". [continua qui]

Le ultime parole famose... (per ridere o per piangere)

"Non parlateci di pareggio di bilancio in Costituzione, sarebbe castrarsi da ogni politica economica." Pierluigi Bersani, 11 Agosto 2011, aula di Montecitorio.


Ieri, con 222 voti a favore e 4 contrari, il Senato ha dato il via libera definitivo alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Una sciagura che riduce ulteriormente la già poca sovranità nazionale che restava al popolo italiano: per cambiare la legge elettorale non hanno trovato il tempo (bastavano due comma, uno per introdurre le preferenze, l’altro per introdurre il premio di maggioranza nazionale anche al Senato), ma per introdurre una legge che di fatto “castra” (copyright Bersani) qualsiasi politica economica, il tempo l’hanno trovato eccome. Nei mesi scorsi avevamo fatto parecchi appelli al Partito Democratico affinché si astenesse sulla legge costituzionale e, quindi, desse la possibilità ai cittadini elettori di esprimersi su questa modifica della Carta che stravolge i rapporti economici e limita ulteriormente gli spazi di manovra per qualsiasi governo progressista (altro che equità e lavoro, un eventuale governo Bersani potrà solo seguire l’Agenda Monti e basta).

Un tema così importante, infatti, non poteva essere approvato nelle segrete stanze del Palazzo: era necessaria una profonda discussione nel Paese e bisognava dare la possibilità ai cittadini di esprimersi tramite referendum costituzionale su questa modifica. E invece no, esattamente come ai tempi del grande inciucio sul “giusto processo” nel ’99 (bocciato dalla Corte Costituzionale quando fu approvato come legge ordinaria, infilato in Costituzione in meno di un anno per mandare in fumo i processi di Tangentopoli), hanno fatto tutto in modo tale che i cittadini non potessero metterci il becco (se viene approvata con oltre i 2/3 del Parlamento, la legge non può essere soggetta a referendum confermativi). Molti economisti, a partire da Tito Boeri, hanno parlato della dannosità di un provvedimento del genere. In particolare, in un editoriale su Repubblica del 6 agosto 2011, l’economista della Bocconi ha spiegato:

“L’inserimento dell’obbligo di bilancio in pareggio nella Costituzione è addirittura una norma sbagliata. Ci può mettere nelle stesse condizioni in cui si è trovato Obama nelle ultime settimane. Supponiamo che il nostro Paese si trovi a fronteggiare un rialzo dei tassi di interesse inaspettato oppure una recessione internazionale dopo aver approvato un bilancio in pareggio. Come potrà essere finanziata questa spesa aggiuntiva senza che il provvedimento venga dichiarato incostituzionale? In ogni caso un governo deve poter anche utilizzare il deficit di bilancio durante le recessioni per ridurre i costi e la durata. Precludersi a priori questa possibilità è un grave errore.”

Sempre in quel periodo lo stesso Boeri, su lavoce.info, ha osservato che sarà comunque facile eludere la norma per le forze politiche, ma questo ridurrà ulteriormente la trasparenza dei conti pubblici. E in tempi come questi, dove l’irrisolta Questione Morale rischia di travolgere le istituzioni e tutti i partiti, direi che non ce lo possiamo proprio permettere. Lo stesso Pier Luigi Bersani, l’11 agosto 2011, pronunciava le seguenti parole, nell’aula di Montecitorio:

"Non parlateci di pareggio di bilancio in Costituzione, sarebbe castrarsi da ogni politica economica."

Ecco, ora Bersani può anche aver cambiato opinione al riguardo, ma può spiegare al suo elettorato (reale e potenziale) il perché di questo cambio di rotta? Solo perché al Governo c’è Mario Monti e il pareggio di bilancio è stato imposto da Angela Merkel a livello europeo per istituzionalizzare ricette che anche lui fino a qualche mese fa definiva bollite e inadeguate a fronteggiare la crisi?

La stizza di mater lacrimarum

... lei, se ne torna a casa anche se troppo troppo tardi. Ma i danni che ha fatto, restano irreparabili. Nostra signora delle lacrime anche oggi ha avuto gesti di stizza verso i parlamentari. Perchè lei, si sa, è una superiore e non vuole ascoltare chi le rimarca che i suoi errori sono stati immensi. L'ennesima donnicciola che non sa dove sta di casa la vergogna.


Non poteva mancare, in chiusura di legislatura, un ultimo, gravissimo gesto di stizza del ministro più contestato del governo Monti. Elsa Fornero torna al centro delle polemiche dopo aver insultato le Camere tappandosi le orecchie mentre, dai banchi della Lega Nord, il deputato Massimo Bitonci la stava contestando per il problema degli esodati. Dopo le lacrime in conferenza stampa, le sparate contro universitari, lavoratori e pensionati e l'avversione nei confronti dei giornalisti, il ministro del Welfare insulta platealmente il parlamento. Un messaggio netto di superiorità e di stizza nei confronti dei deputati che, questa mattina, sono alla Camera per votare la legge di stabilità. Doppio lo schiaffo all'Aula di Montecitorio. Il primo mentre parla Antonio Di Pietro: il ministro del Welfare si alza e lascia l’Aula per farvi rientro non appena il leader dell'Idv lascia la parola a Silvano Moffa. Qualche minuto dopo, le critiche al governo piovono dai banchi del Carroccio. "Oggi per fortuna finisce il governo Monti - tuona Bitonci - che ha creato danni irrimediabili nella nostra economia, a partire dai 350mila esodati". E arriva il secondo schiaffo: prima la Fornero prima porta le mani sulle orecchie per tapparle, poi lascia nuovamente l’emiciclo borbottando. L’uscita plateale del ministro del Welfare non sfugge ai leghisti che protestano duramente, mente il presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti si lamenta con il presidente della Camera Gianfranco Fini che stigmatizza il gesto della rappresentante del governo. "Come è assodato che i parlamentari hanno il dovere di usare un linguaggio consono - spiega la Terza carica dello Stato - i rappresentanti del governo hanno lo stesso dovere di rispettare le opinioni che vengono espresse dai parlamentari".

"Non capisco proprio la Fornero. È inutile che si mette le mani sulle orecchie per non ascoltare... Deve finirla di fare la professorina. Non può pensare di stare sempre all’università...". Quando esce dall’Aula di Montecitorio, il presidente dei deputati lumbard Gianpaolo Dozzo è fuori di sé. Non è l'unico. La provocazione del ministro è l'ultimo di una lunghissima serie che dimostra la sua infofferenza nei confronti delle polemiche. Che siano i giornalisti o i politici, alla Fornero proprio non piacciono le contestazione e, anziché dialogare, preferisce da sembre sbattere la porta in faccia o cacciare chi non la pensa come lei. Un atto di prevaricazione inaudito da parte di un tecnico (non votato dal popolo italiano) nei confronti di parlamentari, che sono diretta espressione del Paese.

Tristi prospettive

Monti bis, ter e quater di Eugenio Orso

Melfi, o cara! Il patto di sangue fra Marchionne e Monti è stato stretto, presenti e plaudenti Bonanni, Angeletti e molte altre comparse. Monti è entrato di prepotenza in campagna elettorale nonostante avesse giurato, in passato, di non voler prestarsi alla politica. Ma ci può essere un governo più politico del suo, per quanto vincolato nelle linee programmatiche dalle lettere bce e dai “consigli” fmi? Talmente politico-strategico, per le trasformazioni in peggio operate in Italia in un solo anno, che Monti non poteva non “sporcarsi le mani” scendendo nell’arena elettorale. Le “riforme” fatte si devono mantenere a ogni costo, e solo Monti può garantire le élite finanziarie che ne beneficiano. Il modello di relazioni industriali Marchionne, che prevede la riduzione dei lavoratori italiani a bestiame nei recinti della fabbrica e piena libertà di chiudere stabilimenti e di investire altrove nel mondo, si sposa con la cosiddetta agenda politica professoral-montiana approvata e benedetta dai poteri forti. Persino la chiesa vuole Monti e ne approva le “riforme strutturali”, dimentica che il messaggio di Cristo va nella direzione esattamente opposta a quella sulla quale ci spinge il professore. Ai cancelli dello stabilimento lucano teatro della kermesse, respinti oltre la linea rossa, i lavoratori esclusi dal rito ed espulsi da questa splendida democrazia, purtroppo organizzati, trattenuti e manovrati dalla tremebonda fiom-cgil di “giù la testa!”, che continua a organizzare a scioperini democratici.

Se l’Italia tredici mesi fa aveva febbre alta e non poteva essere curata con una semplice aspirina, come ha sostenuto Monti a Melfi per giustificare le sue sanguinose controriforme davanti ai buoni di cuore, oggi rischia di finire sotto la tenda di rianimazione. Sul versante fiat, basta la produzione di un paio di nuovi modelli di suv e qualche investimento tardivo, forse un miliardo di euro, per risollevare le sorti dell’industria automobilistica in Italia? Certamente no, e questo lo sanno tutti coloro che erano presenti a Melfi, nella placida Lucania, ma lo scopo di Marchionne non è quello di mantenere ed espandere la produzione di auto in Italia, come lo scopo del suo alleato Monti non è di risollevare le produzioni nazionali, i redditi e l’occupazione. Monti avrà al suo seguito un esercito di burocrati politici, di alti prelati, di patrimonializzati, di grandi manager o supposti tali, e tutto il circo mediatico globalista in occidente a favore. L’operazione “cuori forti”, lanciata dai due compari a Melfi, annuncia che soltanto i più forti sopravvivranno alla cura ultraliberista e agl’altri faranno scoppiare il cuore.

Non contento di aver ridotto i consumi di petrolio nel paese ai livelli degli anni sessanta, Monti, idealmente federato con Marchionne, vorrebbe far scoppiare il cuore a tutti i deboli e indifesi, per liberarsene. Attenzione pensionati al minimo, disoccupati, cassaintegrati a zero ore, precari, piccoli imprenditori con l’acqua alla gola e equitalia alle calcagna, operai sottopagati, lavoratori pubblici nel mirino e ceti medi declassati! Siete voi i cuori deboli che non avranno cittadinanza nel sistema che Monti e Marchionne stanno plasmando per conto delle élite finanziarie globali. Eppure la chiesa è schierata con Monti, come se fosse una qualsiasi comunione e liberazione che applaude Marchionne al meeting di Rimini. I malevoli pensano che il consenso papalino è una contropartita per il trattamento di favore ricevuto fiscalmente, in particolare con l’imu. Gli ancor più malevoli, come lo scrivente, pensano che la chiesa di Roma appoggia pedissequa il massacro neoliberista in corso in Italia, dopo aver subito, in passato, pesanti avvertimenti “di stampo mafioso”, attraverso la stampa e le televisioni di mezzo mondo che hanno approfittato dello scandalo dei preti pedofili. Il motivo dell’attacco era la “dottrina sociale della chiesa” non conforme ai precetti e ai dogmi neoliberisti. Quindi, attenzione a come ti muovi, papa, non criticare con la tua dottrina sociale ispirata dai precetti cristiani i dogmi mercatisti, la santa finanza di rapina e le leggi del mercato sovrano, o noi distruggiamo in un sol colpo, con una campagna giudiziario-mediatica in occidente, la tua credibilità e quella di sancte romane ecclesie. Ed ecco che la chiesa appoggia Monti più per necessità, paura, viltà e opportunismo che per convinzione. Del resto, Monti si vende come il campione non dell’ultraliberismo selvaggio e della finanza spietata, quale in effetti è, ma del fantomatico “capitalismo sociale di mercato” alla tedesca, che dovrebbe garantire un futuro e miracoloso sviluppo nella competitività. Peccato che il sostegno alla produzione e ai redditi e la stessa crescita si rimandano continuamente, a data da destinarsi, mentre ciò che resta è un distruttivo rigorismo. Per Monti il rigore è già la crescita, e quindi si deve continuare su questa strada, con un Monti bis, ter e quater, battendo tutti i record in termini di aumento del debito pubblico (+ imposte e tasse e – pil), di calo dei consumi petroliferi, di crollo dei consumi in generale, di disoccupazione e sottoccupazione.

La cosa più sconvolgente che certi giornali asserviti al regime scrivono questa mattina è che gli operai, a Melfi, hanno applaudito Monti (e di riflesso anche il caro Marchionne). Si arriva al punto di spacciare quattro venduti che hanno tradito i loro compagni, il loro stesso paese e i loro figli – che con Monti e Marchionne non avranno futuro – come gli operai, intendendo tutti, ma proprio tutti gli operai. E così, gli operai applaudono pubblicamente i loro torturatori-carcerieri. Altro che Sindrome di Stoccolma, qui siamo oltre! Una stampa vigliacca, serva e senza alcun pudore – che se ne frega della corretta informazione – può scrivere questo e altro. L’importante è che un popolo prostrato, rimbecillito e impaurito ci caschi un’altra volta. L’importante è che il denaro pubblico continui a fluire tenendo in vita testate e redazioni. L’importante è che lo Spettacolo sostituisca la realtà e abbia successo. Persino il Debord della Società dello Spettacolo e dei Commentari, se non fosse scomparso nel 1994, ne sarebbe impressionato.

Monti non riuscirà a ottenere la maggioranza relativa dei consensi alle prossime elezioni, sia si presenti a capo di un solo listone sia si presenti come icona di una federazione di liste elettorali. Se non vi riuscirà, sicuramente “farà la pace” con Bersani, il vincitore predestinato, e mal che vada, complice lo spread in impennata, gli interessi sui btp alle stelle e gli attacchi speculativi, potrà diventare superministro economico nel futuro governo e vicepresidente del consiglio. Si tratterebbe comunque di un Monti bis, con Bersani uomo di paglia alla presidenza del consiglio e un programma in assoluta continuità con il precedente direttorio euromontiano. Quindi non ci sarà scampo e non ci sarà alcun cambiamento, a meno di eventi eccezionali come il ritorno di Silvio. In ogni caso, qualunque sarà la posizione di Monti nei prossimi governi (e anche se un giorno salirà al Colle), la sequenza sarà Monti bis, ter e quater. Il Monti quinquies ve lo risparmio, tanto a quel punto, nel lungo periodo, saremo già tutti morti …