venerdì 15 maggio 2009

Unhcr

Così l'Onu suggerisce ai clandestini come trasformarsi in rifugiati politici

L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati punta l’indice contro la nuova politica italiana dei respingimenti in mare, che impedirebbe agli aspiranti rifugiati di presentare domanda d’asilo. Ma come fanno gli uomini dell’Unhcr a dirsi tanto sicuri che nel Canale di Sicilia viaggiano frotte di disperati in fuga da guerre e persecuzioni? La risposta è disarmante: perché sono proprio loro a guidarli, una volta sbarcati sulle coste della Penisola, come da contratto col ministero degli Interni e il programma dell’Ue Argo. Ed è esattamente nei loro presìdi (mobili e fissi) che schiere di extracomunitari apprendono i trucchetti (giuridici e non) per presentare con successo una richiesta d’asilo. A Lampedusa piuttosto che nei Cie di Trapani, Caltanissetta, Siracusa, e tra poco in Libia. Riuscendo a passare da profughi anche quando magari ignoravano di esserlo. Pur di far “uscire allo scoperto” il maggior numero di potenziali asilanti, l’Alto commissariato le tenta tutte. Sino a dotare i suoi operatori, e quelli delle ong partner, di uno specifico manuale con ogni genere di tecniche e artifici, intitolato “Intervistare i richiedenti asilo”. La lettura della versione italiana svela le metodiche nient’affatto neutrali, al limite del grottesco, di un ente il cui budget cresce in proporzione alla quantità di rifugiati assistiti. E aiuta a capire come mai gli immigrati approdati nel nostro Sud si dichiarino in massa vittime di persecuzioni.

Momento cruciale: l'intervista - “La preparazione dell’intervista è un momento cruciale del percorso per la determinazione dello status di rifugiato”. Comincia con quest’avvertenza il manuale dell’Unhcr, sollecitando a “individuare in anticipo gli aspetti principali del caso”. Infatti “l’intervistatore gioca un ruolo di vitale importanza nell’incoraggiare il richiedente a portare alla luce le sue esperienze passate, e nel presentarle in modo convincente”. Prima di iniziare “è necessario fornire al richiedente alcune informazioni riguardo applicazione e procedure dello status di rifugiato”. “In modo da fargli comprendere che per la determinazione dello status occorre stabilire se: Teme persecuzioni? Tale timore è fondato? La persecuzione è per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o politico?”. “E che perciò molte domande dell’intervista riguarderanno le condizioni nel Paese dove viveva, che tipo di difficoltà lui o suoi familiari o persone in situazioni simili abbiano patito, quali difficoltà incontrerebbe tornando e perchè”. Così però si inverte l’ordine naturale della testimonianza: non sono più gli immigrati a precisare spontaneamente il proprio vissuto, bensì input esterni a stimolarli.

Blocchi psicologici - Se poi il soggetto si dimostra reticente, o il suo racconto incoerente, si può sempre dar la colpa a blocchi piscologici, anche inconsci. “Omissioni di parte della storia non inficiano necessariamente la credibilità del richiedente. Un rifugiato può non voler dire tutta la storia per paura di danneggiare parenti, o di condividere informazioni con le autorità. Può anche temere le conseguenze di un rifiuto della richiesta, o esser stato convinto a non dire la verità”. E ancora: “(In presenza di) incongruenze e travisamenti non fondamentali (..) lo status di rifugiato dovrebbe essere garantito”.

Reticenza d’obbligo - “Non è inusuale per i richiedenti asilo aver difficoltà nel raccontarsi. Esitare, balbettare, ritirarsi in silenzi o fornire spiegazioni contraddittorie. La riluttanza a parlare può essere conscia o meno. Esperienze passate possono esser state soppresse dalla mente conscia. Date, luoghi ed ogni esperienza personale si possono dimenticare a causa di traumi psicologici o del tempo. Imprecisioni non indicano per forza disonestà”. La gamma degli alibi è infinita: “Chi ha lasciato il suo Paese per timore di persecuzione è probabile voglia tenere il dolore per sé. Ciò può manifestarsi come paura dell’autorità, delle interviste. Sospetti nei confronti dell’interprete possono spiegare un racconto confuso”. Oppure “il richiedente può cercare di nascondere informazioni che ritiene abbassino la stima che gli altri hanno di lui. Un uomo trova difficile ammettere d’aver lasciato la famiglia”.

Persone smarrite - Inoltre “persone che si muovono tra varie culture provano smarrimento: ciò intacca l’abilità di una dichiarazione coerente”. “Il richiedente può parlare in modo poco convincente non per falsità bensì per l’insicurezza di un ambiente nuovo”; “le donne vittime di stupri possono presentare perdita della memoria, distorsione dei fatti, discordanza coi racconti dei familiari maschi”. Senza contare che “le parole veicolano significati diversi a seconda della cultura”.

Prove flessibili - Quanto al peso della prova “non va confuso con la veridicità delle asserzioni”. E qui si sfiora il ridicolo: “Non è necessario che il richiedente provi ogni fatto allegato nella sua richiesta. L’onere della prova dev’essere flessibile quando: il timore (di persecuzione) è relativo a futuri eventi non dimostrabili; le circostanze della fuga rendono difficile recuperare documenti”. L’onere della prova può esser soddisfatto anche dove non si sia in grado di fornire evidenze concrete. Sulla base di una “probabilità di persecuzione ragionevole”. Quindi gli autori del manuale si tradiscono: “In conformità allo spirito umanitario della Convenzione di Ginevra, non è ragionevole chiedere prove certe per la conferma della richiesta d’asilo. Non è necessario per un rifugiato provare ogni aspetto della sua dichiarazione. E’ utile concedergli il beneficio del dubbio”. Accade dunque che “un richiedente possa fornire una base credibile per una richiesta anche se non è mai stato perseguitato”. E “non si dovrebbe sospettarlo di costruire la sua storia sol perché simile a quella di altri”. In ogni caso non è ammissibile verificare o condividere alcuna informazione riguardante storie individuali con le autorità del Paese di origine, ma (per quanto possibile) tramite uffici locali Unhcr. Questo “anche per salvaguardare la riservatezza del richiedente”.

Facciamo un disegnino - In alternativa, “un mezzo d’accertamento è l’utilizzo di disegni e carte geografiche: se un richiedente ha passato una frontiera, una cartina può aiutarlo a ricordare i luoghi. O se è stato detenuto, può disegnare la cella della prigione. L’uso di disegni sarà utile con chi esita o non fornisce testimonianze chiare”. “Non va attribuita eccessiva importanza alla ricerca di date precise”. E “se il richiedente ha dichiarato forti convinzioni politiche o religiose non deve essergli richiesta una precisione non realistica (..), adattandone il grado a quello da lui ottenibile”.

Giuste discrepanze - “Ove l’incoerenza permanga”, si raccomanda di “non spingere il richiedente a fornire spiegazioni immediate”. Meglio suggerirgli una giustificazione alle discrepanze. Ad esempio se uno dichiara di esser stato detenuto, ma il suo passaporto risulta emesso in quel periodo, “questa discrepanza può essere data dal fatto che il documento è stato ottenuto da parente o amico, forse con una bustarella”.

Evitare le critiche - O ancora, se dichiara d’essersi nascosto da un amico per evitare l’arresto pur recandosi al lavoro, “può essere che consciamente abbia corso il rischio, non potendo lasciare il Paese per la sicurezza familiare”. L’intervistatore deve comunque “evitare ad ogni costo atteggiamenti critici”, attribuendosi “la responsabilità di non aver compreso”, o imputandola “a differenze culturali”. Indispensabile “creare un’atmosfera di fiducia, disponibilità, mettere a suo agio il richiedente”. Ponendo attenzione ai dettagli: “ambiente confortevole, postura ed espressione facciale rilassate, contatto oculare, vestito appropriato, tono di voce, posizione antiautoritaria di tavoli e sedie, niente sbarre alle finestre nè personale in uniforme o rumori”, e “porta d’ingresso rigorosamente chiusa”. Occorre altresì “sapere quale tipo di domanda evitare”, “dare incoraggiamenti di fronte a esitazioni e silenzi, annuire con frasi come: e poi, capisco..”, o “in caso l’intervistato manifesti nervosismo, cambiare linea”. Assicurandogli che “nessuna informazione sarà condivisa con le autorità del Paese d’origine”.

Estremi rimedi: la follia - Ma “Se il richiedente è riluttante o incapace di partecipare all’intervista: cosa fare?”. A mali estremi, estremi rimedi: “va contemplata la necessità di un intervento per assistere la sua condizione mentale”, chiedendo “a un esperto o a un ufficio di servizi sociali di intervenire”. Come dire che chi non vuol farsi ‘consigliare’ dall’Onu dev’essere un po’ matto. L’essenziale è “stare all’erta”, perché “ci può sempre essere qualcosa che il richiedente è incapace di dire”. Senza “mai dimenticare che una decisione ingiusta può avere conseguenze serie”. Già. Specialmente per l’Unhcr.

Francesco Ruggeri

1 commenti:

Livia ha detto...

Ridicolo! Ma così chiunque può chiedere asilo! Se dobbiamo stabilirlo sulle navi è una farsa.Tutti gli occupanti ne avranno diritto sempre.Speriamo che i ministri non si facciano infinocchiare...