sabato 31 luglio 2010

Numeri finiani


Chi sta con chi. Nel giorno in cui Gianfranco Fini accusa il Cav. di essere "illiberale", conferma che non lascerà lo scranno più alto di Montecitorio e che d'ora in poi si terrà le mani libere su tutti i provvedimenti del governo che non fanno parte del programma elettorale e dell'impegno assunto con gli elettori, nella maggioranza si ragiona sui numeri. Quelli di "Futuro e Libertà per l'Italia" il gruppo dei 33 deputati finiani nato ieri a Montecitorio e quelli, ancora incerti, dei senatori fedeli all'ex leader di An. L'obiettivo è capire se quei numeri possano trasformarsi in un'ipoteca per il futuro della legislatura.

Silvio Berlusconi assicura che no, i numeri l'esecutivo li ha e che il divorzio da Fini non avrà effetti sulla road map verso il 2013: lo fa prima in Consiglio dei ministri assicurando che gli uomini del presidente della Camera al governo resteranno al loro posto e rinsaldando l'asse con Umberto Bossi (in un faccia a faccia a porte chiuse nel corso del quale il Cav., ha rassicurato il Senatur che vede come fumo negli occhi l’ipotesi del voto anticipato perché annullerebbe la partita del federalismo), poi in un messaggio ai Promotori della Libertà nel quale non risparmia nuove bordate all'ex co-fondatore del Pdl. Infine ci dedica un nuovo vertice a Palazzo Grazioli con lo stato maggiore del partito.

Ma quali sono i numeri dei finiani? A Montecitorio i deputati che hanno aderito al neonato gruppo parlamentare "Futuro e Libertà per l'Italia" sono 33. Cifra non certo esigua, nonostante i colonnelli aennini giurino che alla fine i deputati veramente convinti di seguire Fini saranno al massimo 22. Dei pretoriani del presidente della Camera fanno parte oltre al ministro Ronchi, al viceministro Urso e i sottosegretari Menia e Bonfiglio, i deputati Bocchino, Granata, Briguglio (tutti deferiti ai probiviri) , Ruben, Lamorte, Buongiorno, Scalia, Lo Presti, Perina, Giorgio Conte (capogruppo pro-tempore), Bellotti, Polidori, Moffa, Tremaglia, Consolo, Angeli, Sbai, Paglia, Raisi, Barbareschi, Siliquini, Della Vedova, Napoli, Proietti, Di Biagio, Patarino, Cosenza, Divella, Barbaro.

Una pattuglia numericamente consistente e in grado di incidere sull’autosufficienza del governo soprattutto se, come ha annunciato Fini, varrà la tattica delle mani libere e del voto da valutare volta per volta, sui provvedimenti che esulano dal programma elettorale. Ma va considerato anche che la maggiorparte dei deputati che hanno seguito Fini, in cambio gli avrebbero chiesto – in maniera più o meno indiretta - precise garanzie su tre aspetti: fedeltà al programma elettorale che significa non votare contro il governo; il rispetto degli impegni assunti con gli elettori e la lealtà al premier; il veto sulla possibilità di essere rappresentati dai tre pasdaran deferiti ai probiviri: Bocchino, Granata e Briguglio.

Non solo: se il controcanto dovesse trasformarsi in guerriglia a colpi di voti in Aula, è chiaro che a quel punto l’unica via che peraltro il Cav. continua a considerare aperta soprattutto nello scenario attuale, è il ritorno alle urne. Opzione che penalizzerebbe in partenza i finiani (i sondaggi che Berlusconi ha illustrato nel vertice di ieri li danno tra il 3 e il 4 per cento se si dovesse votare domani) e che oltretutto li metterebbe nella scomoda situazione (in termini elettorali) di passare per quelli che hanno fatto cadere il governo Berlusconi.

Ma è al Senato che la situazione è più fluida, nonostante Pasquale Viespoli (sottosegretario al Lavoro) assicuri che lunedì i finiani avranno il loro gruppo anche a Palazzo Madama. I conti sono presto fatti: i fedelissimi del presidente della Camera sono nove in tutto: De Angelis, Saia, Germontani, Valditara, Menardi, Viespoli, Baldassarri, Pontone e Digilio. Uno in meno dei dieci previsti dal regolamento come numero minimo per costituire un gruppo parlamentare.

Ci sono però alcune opzioni: nella squadra di “Futuro e Libertà” potrebbero entrare uno dei tre senatori del Mpa (in Sicilia a sostenere il governatore Lombardo sono proprio gli uomini di Fini), o la Poli Bortone (che, ironia della sorte, uscì da An sbattendo la porta e in durissima polemica con Fini) e forse un ex forzista. In questo caso i nomi che circolano con maggiore insistenza sono quelli dei senatori Enrico Musso (anche se ha smentito annunciando casomai l’ipotesi di passare al gruppo misto) e di Barbara Contini, ex governatrice di Nassiriya.

Insomma numeri risicati e comunque, il dato politico è che la maggioranza degli ex aenne è nelle mani dei “lealisti” schierati con Berlusconi. Il che significa che a Palazzo Madama la strada a progetti, ipotesi o solo suggestioni di governi di transizione, larghe intese o tecnici che dir si voglia resterebbe sbarrata. Ma c’è un altro dato da rilevare e riguarda le prime defezioni tra i senatori finiani. Quattro di loro hanno scelto di restare nel Pdl: Tofani, Allegrini e Cursi, capitanati dal sottosegretario Andrea Augello, uno di quelli che fino all’ultimo si è speso molto nell’opera di mediazione finalizzata alla tregua tra i due principali azionisti del partito unico.

E nella giornata dedicata ai numeri e ai posizionamenti, non è passata inosservata la dichiarazione del governatore del Lazio Renata Polverini, la cui candidatura alla Pisana era stata fortemente voluta da Gianfranco Fini. Lei non ha dubbi e lo dice: resta col Cav., del quale ricorda l’impegno diretto e personale dimostrato nella tribolatissima campagna elettorale dopo l’esclusione della lista Pdl. Intanto a 48 ore dallo show down tra Berlusconi e Fini sono scintille, accuse reciproche. L’ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la foto-opportunity coi due che si abbracciano sul palco della Fiera di Roma al battesimo del Pdl, un anno e mezzo dopo è solo un cartoncino dai colori sbiaditi.

Rivolta nel cie


Bari -  Una notte di guerriglia la notte scorsa al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Bari, nel quartiere San Paolo: una cinquantina di extracomunitari ha devastato tre moduli abitativi e causato il ferimento, per fortuna lieve, di 13 militari, due dei quali carabinieri e gli altri 11 appartenenti al battaglione San Marco. Anche sei extracomunitari sono rimasti feriti mentre cercavano di fuggire, uno dei quali in prognosi riservata per un trauma cranico e gli altri in modo meno grave con varie fratture e traumi. Alla fine diciotto di loro sono stati arrestati dalla polizia. Devono rispondere dei reati di devastazione, saccheggio seguito da incendio, resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale.

Una rivolta organizzata nei minimi dettagli, con spranghe ricavate dalle recinzioni gli stranieri hanno devastato due automobili della polizia, tre moduli abitativi e hanno dato fuoco ad alcuni materassi. Gli ospiti, quasi tutti magrebini, alcuni con il volto coperto, si sono poi lanciati nel vuoto superando il primo anello della cinta muraria. Sei di loro sono riusciti a scavalcare la recinzione esterna alta cinque metri e sono fuggiti nelle campagne della zona. Altri sei invece sono caduti al suolo procurandosi varie fratture alle gambe e al bacino e sono stati portati al pronto soccorso del Policlinico e del San Paolo.

Il tentativo di fuga è stato limitato dall’arrivo dei rinforzi, poliziotti e finanzieri. Una trentina di extracomunitari nel frattempo avevano raggiunto il tetto, lanciando oggetti contundenti (pezzi di metalli e bottiglie piene di acqua) contro le forze dell’ordine. Durante la fase di contenimento undici militari del reggimento San Marcò e due militari dell’Arma hanno riportato lesioni, con prognosi variabili tra i 3 e i 15 giorni. Uno dei fuggiaschi è precipitato battendo la testa e si trova ora ricoverato in prognosi riservata. Altri cinque hanno rimediato prognosi variabili tra i 5 e i 35 giorni.

Dei 18 immigrati arrestati, 13 sono tunisini, quattro marocchini e uno è di nazionalità palestinese. Il più giovane di loro ha 18 anni, il più grande 32. Sono accusati di devastazione, saccheggio seguito da incendio, resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale.

Il deputato barese Dario Ginefra, ha intanto annunciato di voler depositere una interrogazione urgente al ministero degli Interni «perché venga fatta chiarezza su questo episodio che ripropone in tutta la sua evidenza l’inadeguatezza della normativa in materia e l’esasperazione che un attesa di 180 giorni determina nei cosiddetti ospiti dei centri», sottolineando che è urgente fare una visita al Cie di Bari. Ma il problema non si propone solo in Puglia. Dodici giorni fa era accaduta la stessa cosa nel centro milanese di via Corelli. Poco dopo la mezzanotte in dieci avevano tentato la fuga, dopo aver divelto all'interno del reparto maschile - che ospita 80 stranieri - le telecamere a circuito chiuso, alcune vetrate e i distributori di bevande presenti nei corridoi. Poi si erano radunati nel cortile, erano saliti sul tetto per continuare la protesta, e da lì avevano tentato di calarsi oltre la recinzione. In tre, magrebini, erano riusciti a scappare.

E ieri alle prime luci dell’alba la Guardia di finanza ha rintracciato a Punta Meluso, sulla costa di Santa Maria di Leuca, 29 extracomunitari, di presumibile etnia afghana, appena sbarcati sulla costa.

Memoria corta...

Qui, qui, qui e anche qui.

venerdì 30 luglio 2010

Ma va, va...


"Ieri sera in due ore senza possibilità di replica sono stato di fatto espulso perché ritenuto colpevole di essere incompatibile con il partito che ho contribuito a fondare". Gianfranco Fini non vuole passare per un traditore. Non darà le dimissioni dal ruolo istituzionale che ricopre “perché è a tutti noto che il presidente non deve certo garantire la maggioranza che lo ha eletto”. La scomunica dell'Ufficio di presidenza non cambia la sua posizione, niente lo schioderà dalla poltrona più alta di Montecitorio: "Sostenere che devo lasciare la presidenza della Camera dimostra una logica aziendale modello amministratore delegato di un consiglio di amministrazione che non ha nulla a che vedere con le istituzioni democratiche". Il cofondatore non ha digerito per niente la censura, non c'erano dubbi. Allora si gioca la carta istituzionale, utilizza una dialettica di responsabilità politica, ma l'affondo sul Cavaliere è pesante: "La concezione non propriamente liberale della democrazia che l’onorevole Berlusconi dimostra di avere, emerge dall’invito a dimettermi".

Fini parla per cinque minuti in conferenza stampa ostentando sicurezza. Assume un profilo istituzionale, assicura che il gruppo parlamentare dei finiani "sosterrà il governo ogni qualvolta agirà davvero nel solco del programma elettorale", ma "non esiterà a contrastare scelte ritenute ingiuste e lesive dell'interesse generale". In altre parole, conferma la nascita della sua nuova creatura politica: "Ringrazio dal profondo del cuore i parlamentari del Pdl che daranno vita a iniziative per esprimere la protesta contro quanto deciso ieri dal partito: sono uomini e donne liberi".

"Futuro e Libertà per l’Italia". Così si chiama il gruppo autonomo dei finiani alla Camera. Il nome è stato formalizzato presso gli uffici di Montecitorio, cui sono state anche consegnate le 33 richieste di adesione da parte dei deputati che hanno deciso di seguire Gianfranco Fini dopo la rottura con Berlusconi. Il messaggio di Fini è già stato recepito come un dogma, segno del ruolo politico che ha già assunto il presidente della Camera: "Lealtà al governo per quanto riguarda il programma, ma per il resto le mani libere", confermano Bocchino e Granata alla fine della conferenza stampa. Il finiano della prima ora, Italo Bocchino, riserva ancora critiche al premier: "Il documento approvato ieri non appartiene alla cultura dei partiti liberali europei".

Intanto il nuovo gruppo nasce con una contraddizione: i finiani hanno dato le dimissioni dal gruppo ma non dal Pdl. Un controsenso. Il collegio dei probivi si terrà il 4 agosto e potrebbero anche trattare l'argomento e forse decretare l'espulsione dei 33 deputati. Nel partito c'è chi pensa che, in realtà, l'espulsione è decretata d’ufficio nel momento in cui i finiani hanno dato il via all’iniziativa alla Camera. La replica del PdL - "C'è stato un chiarimento netto a livello politico". Quella dei deputati del Pdl nei confronti del Presidente della Camera Gianfranco Fini "è una sfiducia politica e non aziendale", scrive il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto. "Nella conferenza stampa l’On. Fini - afferma Cicchitto - ha rimosso i mesi di polemica martellante da lui condotta e da alcuni parlamentari a lui legati, che hanno provocato la crisi del PdL e una situazione di incompatibilità politica. Non per una logica aziendale ma per una logica politica è derivata la rottura e anche l’affermazione contenuta nel documento del PdL sulla caduta del rapporto di fiducia che ha portato il PdL ad eleggerlo a Presidente della Camera".

Dimissioni per incompatibilità - Gli appelli di Fini erano in contrasto con le linee del PdL. Ma poco importa se si è consumato il divorzio, l'incompatibilità con la carica ricoperta a Montecitorio resta. La conferenza stampa e la nascita del gruppo dei finiani è la prova che Fini "non può più continuare a svolgere un ruolo di garanzia, qual è quello di presidente della Camera". A parlare è il ministro Bondi, che ribadisce l'incompatibilità fra carica istituzionale e ruolo politico di Gianfranco Fini. "Questa mattina - commenta in una nota - gli uffici del presidente della Camera hanno finito per assomigliare alla sede di una corrente politica. Con il tempo anche l'on. Fini non potrà non prendere atto di come sia impossibile, oltreché inopportuno, esercitare un ruolo di garanzia, come quello attribuito al Presidente della Camera, e nello stesso tempo quello di ispiratore di un gruppo parlamentare".

La Lega vuole andare fino in fondo - Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, non crede che la rottura del PdL metta in pericolo governo e maggioranza: "Sono convinto che nonostante le tensioni nel Pdl - dice - il governo mantiene la sua maggioranza e la capacità di condurre a termine la legislatura". I numeri saranno più stretti, "sarà una navigazione più a vista di quanto fatto finora", ma ciò favorirà la coesione perché "aumenterà la consapevolezza che bisogna essere sempre presenti e attenti".

Sarkò e gli immigrati delinquenti


Grenoble - Nicolas Sarkozy contro i criminali di origine straniera. Il presidente francese ha proposto oggi di privarli della cittadinanza. L’annuncio è stato fatto durante la presentazione del nuovo prefetto dell’Isère, a Grenoble, dove recentemente si sono verificati degli scontri tra la polizia e i giovani di una banlieue, dopo che gli agenti avevano ucciso un rapinatore di origine straniera. "Non possiamo esitare a rivedere i motivi che possono portare alla perdita della nazionalità francese" ha detto il presidente. "La nazionalità francese deve poter essere ritirata a tutte le persone di origine straniera che volontariamente attentato alla vita di un poliziotto o di chiunque altro rappresenti l’autorità pubblica". Inoltre, Sarkozy vuole che l’acquisizione della nazionalità per i minori nati in Francia da genitori stranieri, una volta raggiunti i 18 anni, non sia più un diritto, se delinquono.

Contro i clandestini. I clandestini hanno troppi diritti. Dopo l’attacco contro i criminali di origine straniera, cui dovrebbe essere tolta la cittadinanza, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, mette al centro della sua politica sulla sicurezza la questione degli immigrati irregolari. Il suo discorso è stato pronunciato a Grenoble, durante la presentazione del nuovo prefetto dell’Isère. "Mi auguro che si valutino i diritti e le prestazioni cui oggi hanno accesso gli stranieri clandestini. Una situazione irregolare non può conferire più diritti di una situazione regolare e legale" ha dichiarato Sarkozy. Il presidente non ha precisato a quali diritti facesse riferimento.

Contro i rom. I clandestini, in Francia, hanno pochi diritti, tra cui quello all’assistenza medica. Il presidente ha ribadito la linea dura contro i clandestini, "che devono essere rimandati alle frontiere" e contro i nomadi: "Dobbiamo porre fine allo sviluppo selvaggio dei campi rom. Sono delle zone al di fuori della legalità che non possono essere tollerate" sottolineando che entro la fine di settembre "saranno smantellati i campi che sono già stati oggetto di un’ordinanza del tribunale. Per i campi su cui non c’è stata ancora una decisione dei giudici, faremo in modo che si intervenga al più presto. Entro tre mesi, voglio che almeno la metà di questi accampamenti sparisca dal territorio francese" ha concluso il presidente.

La prova...


Se ogni grande impresa ha avuto un condottiero grande e ogni grande condottiero ha avuto il suo poeta cantore, poteva il dux della più attesa riscossa antiberlusconiana che, magistratura esclusa, nessun pavido oppositore aveva mai osato lanciare, venirne privato? No. Ed eccolo quindi il Vate di Gianfranco Fini, in tutta la sua dannunziana e maschia adulazione. L'ironia è necessaria "un po' per celia e un po' per non morir", come pregava la piccola geisha pucciniana, consumatasi nell'inutile attesa. Purtroppo c'è molto poco da celiare se i versi sgorgano dalla tastiera di Furio Colombo e appaiono in tutta la loro retorica fascistizzante nel giornale più amato dagli antiberluscones, ovunque si vadano collocando.

Dopo aver sentito cantare le audaci gesta finiane, data la linea giornalistica dell'autore e della testata ma soprattutto la personale storia politica del poeta, pretendiamo la risposta delle risposte, condivisibile o no che sia. Cioè, passi per l'innamoramento di un uomo di sinistra (da tempo Fini se ne circonda con ricambiato affetto), quello che delude il lettore alle prese con la volgare prosa della dura realtà quotidiana sono i troppi, angoscianti punti interrogativi inseriti nell'epico poemetto. Da un giornalista, scrittore, politico, parlamentare, professore, imprenditore, consulente degli Agnelli, e quant'altro, il lettore si sarebbe meritato qualche risposta chiara e definitiva sul futuro che lo aspetta dopo questa mirabolante "prova di Fini".

Ma "risposta non c'è, oppure, chi lo sa?, perduta nel vento sarà.", canta Bob Dylan, adorato da Furio. In pratica, ancora una volta, ci troviamo di fronte alla fuffa intellettuale destinata a galvanizzare la curva sud finiana pronta e acculturata, orgogliosa di avere con sé sugli spalti cotanto fuoriclasse della parola, mica uno privo di ogni estro come Belpietro o similari. Ecco alcuni versi "colombiani":

«Come un circo. Gianfranco Fini è solo. Sul trapezio, nel fascio di luce. Resta immobile, con quel misto di confidenza e di ansia che a volte l'immagine ravvicinata rivela su un viso altrimenti impassibile. Non c' è rete e tutti guardano in alto. E tutti sono (come sempre il pubblico) allo stesso tempo ammirati e increduli. Non può farcela e deve farcela. L'acrobata Fini scruta il momento del salto azzardato che deve portarlo esattamente nel punto e nella posizione in cui sta ora, ma dopo avere spiazzato con precisione, in una sequenza perfetta, l'altro acrobata dalla sua postazione. L'altro acrobata si chiama Berlusconi. […] Conseguenze? Tutte da calcolare.» Non dimenticatevi i fazzoletti!

Parlerà agli italiani...

... e il chissenefrega non ce lo mette? Piuttosto spieghi ai suoi elettori il perchè di certe scelte e di certe critiche alla sua stessa coalizione. Spieghi il perchè di certe svolte "sinistre". Spieghi anche perchè ha rotto i coglioni fino a questo punto. Gli italiani hanno votato UN governo ed UN programma che LUI finora non ha voluto rispettare e continua a non rispettare. Se Berlusconi è all'anatema, Fini è alla frutta.


«Siamo all’anatema», dice Gianfranco Fini, evocando lo strumento che veniva usato per risolvere le controversie teologiche e di potere, quando due Papi erano troppi per guidare una Chiesa. Insomma più che un traditore, il presidente della Camera si sente un eretico al cospetto di Berlusconi, del suo «strano modo di concepire un partito liberale di massa», del metodo «assai maldestro» adottato per disfarsi di quello che il Cavaliere considerava ormai un anti-papa. «Parlerò agli italiani», annuncia Fini, che non ha intenzione di lasciare lo scranno di Montecitorio, come il premier gli ha chiesto, imponendo all'Ufficio di presidenza del Pdl di inserire «due righe» nel documento che ha sancito lo scisma. «Va scritto che se ne deve andare dalla Camera», ha intimato ieri mattina Berlusconi. «Ma presidente, non si può fare», lo ha supplicato Ghedini. Niente da fare. «Dica quel che vuole», ha sorriso Fini: «Non mi dimetto. Questo incarico non è nelle sue disponibilità». Ora che il divorzio si è compiuto, ora che il premier parla di «incompatibilità», per l'ex leader di An «non c'è più possibilità di recuperare alcun tipo di rapporto»: «Quello che si poteva fare l'ho fatto».

L'intervista al Foglio è stato l'ultimo gesto, che non è piaciuto a molti dei suoi, e che il presidente della Camera ha spiegato così: «Dovevo evitare che passassi per quello che vuole rompere. Ora però continuare oltre non avrebbe senso, non si farebbero passi avanti. Bisogna pensare a qualcosa di diverso». Perciò sono in gestazione i gruppi parlamentari autonomi che avranno l'inquilino di Montecitorio come punto di riferimento. E siccome nessuno ci aveva pensato prima, ieri sera è iniziato tra i finiani una sorta di referendum sul nome da dargli: «Italia nazione», «Nazione e libertà». La definizione sarà un dettaglio ma i gruppi saranno per Fini una sorta di linea Maginot, molto consistente se è vero che i futuri componenti sono più di trenta: «Berlusconi ha sbagliato i suoi calcoli. Pensava fossimo in pochi. D'ora in avanti — ha avvisato i suoi — vedrete che tenterà di aggredirci, di accerchiarci e poi lentamente di assorbirci, eliminando quella che considera un'anomalia».

Questa linea Maginot andrà vigilata e rinforzata. Per evitare crepe, in un fronte non del tutto coeso, Fini ha ribadito ciò che il fedele Ronchi aveva pubblicamente anticipato: «Saremo leali al governo». Certo c'è una contraddizione tra lo strappo con il premier e la «fedeltà al centrodestra», ma se il presidente della Camera si appella al «patto stipulato con gli elettori», è perché non può permettersi operazioni trasformistiche, non intende farlo, dato che il bipolarismo resta la sua stella polare: «Infatti non ci sarà nessun ribaltone», sottolinea. La sua forza sta oggi nei numeri del gruppo, che soprattutto alla Camera «sarà decisivo, anzi determinante. E condizionerà l'azione di governo. Si tratta di un segnale molto forte, alla faccia di chi sosteneva che contiamo appena l'1,4%... Ma noi non siamo nè saremo mai dei traditori». Così rispedisce al Cavaliere l'accusa, sebbene debba ancora valutare «le conseguenze politiche» della rottura, quali scenari cioè si apriranno di qui in avanti. Perché tra i finiani c'è chi — come il senatore Augello — ritiene che il premier punti alle elezioni anticipate: «Gianfranco, è a questo che mira Berlusconi. La sua maggiore preoccupazione oggi è bloccare le operazione di Tremonti. Se ha deciso di drammatizzare lo scontro con te, lasciando tutti i nodi politici aggrovigliati, è perché pensa di tagliarli con un colpo d'accetta al momento opportuno. In fondo, attaccandoti così, sa che gli renderai la pariglia. E quindi...».

Fini al voto anticipato non ci crede, almeno non ancora. Molte sono poi le variabili da calcolare, i boatos da verificare. Per esempio l'atteggiamento dell'Udc verso il governo, le voci secondo le quali Berlusconi sarebbe pronto a fare una nuova offerta a Casini già a settembre. E ancora l'ipotesi che — in caso di ritorno alle urne — il Cavaliere offra ai centristi un'alleanza «tra partiti», riconoscendogli l'autonomia decisa nel 2008. Inizia per il presidente della Camera una nuova era, piena di incognite e con un fallimento che peserà anche sulle sue spalle. È da vedere se potrà mai riconciliarsi con il premier, che ancora l'altra sera ha confidato: «Quando si tornerà a votare magari lo riprendo, ma ora lo caccio». L'ex leader di An non mai ha digerito questo atteggiamento, però siccome ognuno è un po' berlusconiano a casa propria, ieri Fini ha avvisato tutti i suoi uomini: «D'ora in avanti se qualcuno dice una parola di troppo, lo caccio».

Francesco Verderami

Riconteggi


Da Nord a Sud cambia tutto. Anche la giurisprudenza. La prova? Ieri sono uscite le motivazioni della sentenza del Tar sul voto in Piemonte che ha disposto il riconteggio dei 15mila voti raccolti da due liste alleate del governatore leghista Roberto Cota dopo l’esposto dell’ex presidente Pd Mercedes Bresso. I punti fermi sono sostanzialmente tre: «Le liste Consumatori e Deodato Scanderebech sono illegittime» benché regolarmente autorizzate; «il riconteggio va a tutela degli elettori» ma bisogna vedere «quali effetti demolitori» possono scattare sul presidente eletto e sui consiglieri. Perché, è la tesi dei legali Pd, «è facoltà del giudice amministrativo correggere il risultato elettorale» mentre il presidente leghista è sereno: «Quei voti non saranno validi per le liste, ma per me sì, lo dice la legge». Torino, 29 luglio 2010.

Ma allora perché appena 5 anni fa, in Puglia, le cose andarono in maniera diametralmente opposta? Quando il governatore uscente Raffaele Fitto (oggi ministro) venne battuto per 14.100 voti (lo 0,6%) dall’allora semiparvenu Nichi Vendola, lo sconfitto annunciò ricorso al Tar, denunciando una serie di irregolarità. Molto più palesi di oggi, stando almeno alle cronache dei giornali nazionali dell’epoca. E soprattutto con una platea di voti da ridiscutere molto più vasta, vista l’enorme, mostruoso numero di schede considerate allora nulle. Più di 80mila, di cui la metà contestate. Eppure sia il Tar, che in seguito il Consiglio di Stato, contro una giurisprudenza consolidata, dissero sostanzialmente «non ci sono prove, quel che era fatto, era fatto».

La denuncia di Fitto era dettagliatissima: verbali sbianchettati, correzioni maldestre, somme sbagliate, fogli lasciati in bianco e tuttavia timbrati e firmati senza un perché, e almeno cinquemila voti attribuiti a Fitto scartabellando i 3.870 verbali esaminati. E ancora: sezioni in cui il numero dei voti validi è inferiore a quello attribuito ai quattro candidati presidenti, voti ai Ds raddoppiati rispetto a quelli effettivamente ottenuti. E invece? La Regione negò la visione delle schede, con la scusa che le aveva «in custodia, non in detenzione stabile» persino alla Commissione governativa per l’accesso agli atti amministrativi. Una scelta che Tar e Consiglio di Stato, grazie all’accorata difesa dell’allora presidente della Provincia di Lecce Pd Giovanni Pellegrino (altro fatto curioso...) motivarono così: «In materia elettorale chi promuove il giudizio ha l’onere di provare circostanze concrete che, se fondate, porterebbero alla modifica del risultato in suo favore». Nel caso del ricorso di Fitto invece ci sarebbero solo «doglianze generiche, tendenti a ottenere un generale riesame dei risultati in sede giurisdizionale, deduzioni non sostenute neppure da un principio di prova, contestazioni elaborate a tavolino».«La correzione dell’esito elettorale deve essere la logica conseguenza di irregolarità effettivamente riscontrate e contestate durante il procedimento elettorale, che poi si rivelino rilevanti sull’esito finale, non già il frutto di un postumo tentativo di ricostruzione di affermate irregolarità, scaturito solo quale reazione per un esito della consultazione non soddisfacente».

E il diritto di spulciare, ricontare, rivedere le schede? Facile: «Gli atti sono immediatamente accessibili dai rappresentanti di lista durante lo scrutinio - dice il Consiglio di Stato il 7 aprile, motivando il niet - e hanno facoltà di effettuare contestazioni da inserire nel verbale». Insomma, per capirci, la versione del Tar è questa:  Tutto chiaro, no?

giovedì 29 luglio 2010

Quando è troppo...


ROMA - Non espulsione, ma dura censura politica. deferimento ai probiviri e «sospensione» per alcuni mesi (da tre a sei) dal Popolo della libertà, in attesa di un ravvedimento dei «ribelli». Poi si vedrà. Questa l'indicazione che emerge da alcune indiscrezioni dall'ufficio di presidenza del Pdl, che è stato convocato alle 19 dopo che, nel pomeriggio, si era svolto a Palazzo Grazioli il vertice tra Berlusconi e lo stato maggiore del partito, per fare il punto della situazione. Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata saranno deferiti al collegio dei probiviri. Questo, a quanto si apprende, è stato comunicato dai coordinatori del Pdl (Bondi, Verdini e La Russa) ai partecipanti all'ufficio di presidenza. Il provvedimento è contenuto in un allegato al documento politico che il vertice sta esaminando.

DOCUMENTO - «Non ci sono più le condizioni per restare nella stessa casa». Questo sarebbe l'inizio del documento nel quale Fini, Bocchino, Granata e Briguglio verrebbero considerati «politicamente» fuori dal Popolo della libertà dalle cui posizioni si sono troppo discostati. Ma il documento, dicono le fonti, sarebbe suscettibile di modifiche fino all’ultimo momento utile e probabilmente anche nel corso dell’ufficio di presidenza (di cui lo stesso Bocchino fa parte). Rilevante sarebbe il passaggio contenuto nel testo del documento, riferiscono fonti del partito, in cui si rileva che Fini e alcuni dei suoi non sono più «politicamente vicini al Pdl».

VIE LEGALI - La via della sospensione sarebbe meno rischiosa rispetto all'ipotesi di una espulsione. In quest'ultimo caso, infatti, Fini potrebbe ricorrere alle vie legali, appellandosi al giudice ordinario, sulla base dell'articolo 700 del Codice di procedura civile. Il presidente della Camera ha rivelato il progetto ad alcuni dei suoi. Il piano al momento resta l'ultima risorsa, ma metterebbe il Pdl nelle mani della magistratura. L'ex leader di An potrebbe infatti chiedere ai giudici il reintegro immediato degli esponenti sospesi dal partito. «Avrebbe anche buone possibilità di riuscita», ammette una fonte parlamentare del partito. Il ricorso avrebbe conseguenze politiche devastanti. «Un ricorso provocherebbe ulteriori danni di immagine», dice un deputato berlusconiano.

LA TREGUA RIFIUTATA - La scelta della sospensione arriva dopo una notte insonne e di passione tra mercoledì e giovedì alla fine della quale, dopo un lungo confronto al quale ha preso parte anche Giuliano Ferrara, Berlusconi ha spiegato che l'offerta di tregua di Gianfranco Fini, «resettiamo tutto e onoriamo l'impegno con gli italiani» (avanzata attraverso un'intervista a Il Foglio, appunto) è arrivata troppo tardi, fuori tempo massimo. Così, nel vertice durato oltre quattro ore a Palazzo Grazioli, il premier e gli altri partecipanti, secondo quanto riferito da diversi presenti, non hanno fatto che ribadire la posizione già assunta mercoledì mattina e messa nero su bianco in nottata in un duro documento di censura politica nei confronti del cofondatore del Pdl considerato ormai da tempo lontano dalla linea del partito.

I FINIANI SI ORGANIZZANO - Ovviamente i finiani non sono rimasti a guardare, anzi stanno organizzando gruppi autonomi sia alla Camera che al Senato e in entrambi i rami del Parlamento avrebbero i numeri sufficienti per farlo. Tutto però resta in sospeso in attesa di conoscere il testo definitivo della «scomunica».

Fini & company


ROMA - I "finiani" alle Camere si stanno organizzando per formare nuovi gruppi parlamentari, fuori dal Pdl, se dall'Ufficio di presidenza di giovedì sera a Palazzo Grazioli scatterà qualche forma di «punizione» (al momento l'ipotesi più verosimile sembra essere quella di una sospensione). A quanto si apprende, in mattinata i deputati vicini al presidente della Camera hanno avuto una riunione nell'ufficio di Italo Bocchino per sottoscrivere la richiesta al presidente di Montecitorio per costituirsi in un gruppo autonomo. E si stanno muovendo anche al Senato. Uno dei sottoscrittori, dice che al momento le firme raccolte alla Camera dovrebbero essere quasi una trentina. Ma il documento è in stand-by in attesa di capire le decisioni della maggioranza del partito. In mattinata, Bocchino ha avuto un colloquio con Gianfranco Fini nel suo studio, probabilmente per aggiornarlo dell'iniziativa. Sarebbe infatti Fini, in qualità di presidente della Camera, a dover dare l'autorizzazione per il nuovo gruppo. Da regolamento, a Montecitorio bastano almeno venti firme per formare un gruppo autonomo.

SENATO - Anche al Senato ci sarebbero più di dieci senatori, sufficienti a formare un gruppo autonomo. All'incontro con Fini avrebbero infatti partecipato dodici senatori. «Non è una guerra di religione», ha dichiarato uno dei senatori del Pdl partecipanti all'incontro. «Fini ha esposto le sue motivazioni in modo pacato, sereno, equilibrato e ponderato. Al Senato ci riuniremo anche la prossima settimana, abbiamo tempo per organizzarci».

I NOMI A ALLA CAMERA - Oltre ai venti aderenti a Generazione Italia - i primi a firmare - e cioè Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, Fabio Granata, Enzo Raisi, Luca Barbareschi, Francesco Proietti, Francesco Divella, Antonio Buonfiglio, Claudio Barbaro, Maria Grazia Siliquini, Flavia Perina, Angela Napoli, Luca Bellotti, Aldo Di Biagio, Nino Lo Presti, Giuseppe Scalia, Gianfranco Conte, Benedetto Della Vedova, Adolfo Urso e Mirko Tremaglia, nel corso della giornata si sono aggiunte le firme dei finiani più moderati come Roberto Menia, Silvano Moffa, Gianfranco Paglia, Donato Lamorte, Alessandro Ruben, Adolfo Urso, Giulia Bongiorno, Andrea Ronchi, Giulia Cosenza, Giuseppe Angeli, Carmine Santo Patarino, Giuseppe Consolo, Catia Polidori. La trentaquattresima firma, a quanto riferito, sarebbe della deputata Souad Sbai, anche se la diretta interessata non conferma. Alcuni di loro hanno espresso nelle settimane passate dubbi sulla possibilità di seguire Fini nel caso di una rottura, ma altri sarebbero pronti a seguire questa strada. «Questi numeri mettono la golden share del governo nelle mani di Fini», ha detto convinto una fonte parlamentare che partecipa al progetto.

mercoledì 28 luglio 2010

Un governo c'è...

Domanda: ma c'è qualcuno che si prenderebbe la briga di spiegare agli italiani il perchè dovrebbe crearsi ora un governo tecnico? Perchè se non sbaglio, la maggioranza (seppure litigiosa) è ancora tutta intera. Il governo eletto con le ultime elezioni ancora esiste, no? E allora perchè Bersani parla di una maggioranza che non c'è più? Dove, soprattutto non c'è più? Nei suoi sogni, forse?

Sarkò e gli zingari


Un po’ per convinzione, un po’ per convenienza, Nicolas Sarkozy dichiara guerra ai rom. È stufo dei furti, della delinquenza, della loro tendenza a rifiutare l’integrazione. Parla come Umberto Bossi o, forse, addirittura, come Jean-Marie Le Pen. Il suo predecessore, Jacques Chirac, non lo avrebbe mai fatto. Ma Sarko è più sanguigno, spregiudicato, meno istituzionale. E soprattutto ha bisogno di un diversivo, che gli consenta di recuperare consensi tra i disamorati elettori del centrodestra.

E il diversivo è arrivato, casuale e drammatico. Domenica a Saint-Aignan, un piccolo villaggio nella Loira, un giovane zingaro, fuggito a un controllo, è stato ucciso dalla polizia, in circostanze poco chiare, che hanno suscitato la reazione furibonda della comunità rom. Furibonda e violenta. Circa cinquanta persone, armate di asce, coltelli, bastoni, in gran parte mascherate, hanno assaltato e distrutto la piccola gendarmeria del villaggio. Poi hanno scorazzato per il centro del paese, rompendo vetrine e incendiando automobili. Un episodio di guerriglia urbana, che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica e a cui subito si è associato Sarkozy, che peraltro non ha mai provato molta simpatia per i gitani. Quando era ministro dell’Interno invocò tolleranza zero contro «le comunità di nomadi che non rispettano le regole». Chirac allora non glielo permise. Ora però il grande capo è lui.

Come peraltro accade in Italia, la grande maggioranza dei francesi non prova simpatia per i rom e l’episodio di Saint-Aignan, per quanto tragico, rappresentava per l’Eliseo, in termini mediatici, un’occasione straordinaria, che infatti non è stata ignorata. Sarko ha mandato avanti il segretario di Stato agli Affari europei, Pierre Lellouche, il quale, lunedì, durante una riunione con i colleghi dei 27 a Bruxelles, ha invitato l’Europa ad affrontare al più presto quello che ha definito senza perifrasi «il problema reale di nomadi e rom» e che «non si può ricorrere alla nozione di non discriminazione per lasciar correre cose inaccettabili in materia di delinquenza». E ancora: «Nel sistema comunitario ci sono molti soldi per aiutare l’integrazione, ma la mobilitazione è insufficiente. A parte le parole, non accade nulla. Non è più possibile andare avanti così».

Secondo Lellouche, «i rom non cercano di integrarsi» e ha denunciato tratte di minori, prostituzione, accattonaggio, che sarebbero in aumento in Francia: «Bisogna finirla. La libera circolazione non può essere un alibi per questi traffici». Dunque, «se l’Europa non vuole farsi cogliere impreparata da reazioni negative dell’opinione pubblica, dobbiamo agire tutti insieme». Una bomba, seguita da un’altra bomba, fatto esplodere dallo stesso Sarkozy, che ha convocato per oggi un vertice straordinario all’Eliseo, come di solito avviene soltanto in presenza di fatti gravi e imprevisti. Crisi serie, crisi urgenti. Gli scontri di Saint-Aignan sono giudicati tali, visto che le président, anziché minimizzare l’accaduto, ritiene necessario esaminare «i problemi posti dai comportamenti di alcuni nomadi e rom».

Insomma, ha infranto il tabù, suscitando un’ondata di polemiche. Il presidente dell’Unione delle associazioni tzigane (Ufat), Alain Dumas, considera il vertice speciale di oggi una «dichiarazione di guerra», che non ha precedenti dai tempi della Liberazione e denuncia il rischio di una nuova «pagina nera» nella storia della minoranza. Altre associazioni umanitarie hanno denunciato un «politica razziale» e, addirittura, di «apartheid», spalleggiate dal partito socialista indignato per questa «scandalosa stigmatizzazione». Una bufera intensa, ma per una volta gradita a Sarkozy, il quale ha osato proclamare a voce alta quel che i francesi osano al più sussurrare in famiglia. Più la «gauche» strilla, più lui è contento. Perché le accuse di populismo finiscono per far lievitare il suo indice di gradimento nei sondaggi. E questa oggi è considerata una priorità per tentare di salvare una presidenza finora molto deludente.

martedì 27 luglio 2010

Predicare bene e...


Roma - La cifra farebbe gola a chiunque, comprese le anime belle del Movimento cinque stelle, i grillini. Centonovantatremila e passa euro (193.258,87 euro), la somma spettante alla lista Grillo per il risultato alle regionali nella sola Emilia Romagna, dove il movimento del comico ha eletto ben due consiglieri con un formidabile 7% (161mila voti). Ebbene, i grillini li riscuoteranno quei pubblici denari, venendo così meno all’impegno preso contro la casta (da mandare a vaffa), oppure no? La risposta è un giallo in piena regola. Anche se l’unica certezza in proposito sembra essere la richiesta ufficiale di rimborso elettorale inviata all’Ufficio di presidenza della Camera il 5 marzo 2010, protocollata dalla segreteria di Montecitorio e firmata dal promotore della lista Grillo in Emilia Romagna, il neo consigliere Giovanni Favia.

Lo stesso grillino che lo scorso 20 aprile a Modena aveva dichiarato: «Noi abbiamo rinunciato ai rimborsi». Nel documento inviato a Fini, invece, Favia scrive che, in qualità di promotore della lista, «richiede l’erogazione del rimborso connesso alla consultazione elettorale in oggetto». E dunque? La gaffe è stata scoperta dall’agenzia Dire, che ha fatto due riscontri e ha notato la contraddizione. La somma da versare sul conto corrente del Movimento cinque stelle è nero su bianco nelle tabelle allegate alla delibera sui rimborsi elettorali che l’ufficio di presidenza di Montecitorio proprio oggi è chiamato ad approvare (la scadenza per i pagamenti è il 31 luglio). E allora, i grillini emiliani avranno o no quel bonifico? Dopo che la voce si è diffusa, il Movimento Cinque stelle è corso ai ripari per spiegare l’accaduto. Nessun rimborso, solo «un errore materiale della Camera», così almeno sostengono i grillini. «Noi quei soldi non li vogliamo - ha spiegato Favia -. Ho appena chiamato la segreteria della presidenza della Camera e mi sono assicurato che dalla deliberazione sarà stralciata la parte relativa ai rimborsi per il Movimento dell’Emilia Romagna».

Sarà certamente vero, però una telefonata non basta per bloccare la procedura già avviata da marzo. A Montecitorio serve una richiesta scritta di rinuncia al rimborso, e infatti i grillini hanno dovuto mandare un fax con l’esplicita rinuncia, e solo a questo punto Montecitorio ha preso atto della decisione su quei 200mila euro. Però i dubbi restano. Perché aspettare tanto tempo (e aspettare che lo scoprisse la stampa) per annullare la precedente richiesta di rimborso?

Anche qui i grillini hanno pronta una spiegazione: «La nostra non era una richiesta formale ma una semplice e mail dove non era nemmeno specificato un tesoriere del movimento né un numero di conto corrente. All’epoca non avevamo ancora stabilito con Beppe Grillo se rinunciare ai rimborsi o devolverli in beneficenza. Ho spedito la mail solo per evitare che quei soldi finissero nel calderone e se li spartissero gli altri partiti (ma non è così, semmai i soldi non riscossi rimangono nelle casse del Tesoro, non vanno agli altri partiti, ndr)». Il grillino emiliano dice di essersi mosso, all’epoca, di comune accordo coi grillini del Piemonte (altra regione dove Grillo ha fatto il boom). Però anche qui non tutto fila liscio. Perché la lista Grillo del Piemonte non è mai stata inserita nei soggetti beneficiari dei rimborsi della Camera, avendo inviato un formale rinuncia, cosa che i grillini dell’Emilia Romagna non hanno fatto. Quindi? Niente, «sono stati più bravi di noi», è la risposta di Favia.

Sarà, ma in molti hanno visto in quest’incidente burocratico (dalla strana tempistica) un pericoloso scivolone per la credibilità dei grillini come anti-Casta. Episodio che si innesta in un momento particolarmente turbolento dei grillini, con accuse di «vecchia politica» o addirittura di «voto di scambio» che volano tra le sedi del Movimento dalla Campania al Nord. Maretta anche per la scelta di Beppe Grillo di registrare a proprio nome (quindi unico titolare con diritto d’uso) il simbolo del Movimento. Molte promesse rischiano di volatilizzarsi.

Come quella che, se eletti, i neo consiglieri (come Favia) si sarebbero ridotti lo stipendio a 1300 euro. Li hanno abbassati di molto, è vero, ma fermandosi comunque a 2500 euro mensili, non 1300. Un rimborso da 200mila euro, dopo le battaglie a colpi di Vaffa contro i partiti, sarebbe stato un autogol clamoroso. Meno male che la stampa se n’è accorta prima che fossero incassati.

Marine Le Pen e l'islam


Incontro casuale in una pizzeria di Saint Cloud, ricco sobborgo alle porte di Parigi. Marina Le Pen ama la cucina italiana ed accetta volentieri di fare una chiacchierata con ItaliachiamaItalia. Il telefono suona in continuazione; é il suo momento! I sondaggi la danno al 20% e lei pensa che Nicolas Sarkozy non arriverà alla fine del suo mandato. Con ItaliachiamaItalia ha parlato di politica francese ma anche di quella italiana: di parlamento europeo, di Lega Nord... E di Silvio Berlusconi, naturalmente. "Stiamo vivendo un clima di fine regno; le dimissioni di due ministri e lo scandalo Bettancourt, dimostrano che questa classe dirigente é inadatta a governare la Francia e che occorre un cambiamento radicale". Marina Le Pen, 41 anni, terzo-genita dell'82 enne Jean-Marie Le Pen, e da lui indicata come sua erede, é pronta a raccogliere la sfida.

A colloquio con ItaliachiamaItalia.com, "Certo - ammette -, il sistema elettorale francese (maggioritario a due turni) non ci aiuta, ma io penso che da qui al 2012, molte cose sono destinate a cambiare. Intanto registro con soddisfazione l'aumento crescente dei nostri iscritti e dei militanti attivi"

In vista delle presidenziali del 2012, non si potrebbe creare in Francia un grande polo delle libertà, sul modello italiano? "Berlusconi in Italia ha saputo creare un largo consenso, unendo le forze del centro-destra e "sdoganando" Alleanza Nazionale. Un'operazione intelligente. In Francia i tempi non sono ancora maturi, ma certo é che quella sarebbe la strada giusta, magari riformando il sistema elettorale in chiave proporzionale".

Quali sono i suoi rapporti con le foze politiche italiane? "A Strasburgo lavoro molto bene con i colleghi della Lega Nord, con Borghezio in particolare. La Lega condivide la nostra battaglia contro l'immigrazione e contro l'invasione islamica"

Già, ecco una questione scottante! In Francia si sta discutendo sull'oppurtinità di vietare il velo integrale nei luoghi pubblici, ma i socialisti hanno annunciato che si asterranno. Qual é la vostra posizione? "I socialisti fanno del trasformismo; sperano con questo atteggiamento pilatesco di raccogliere consensi tra i musulmani in Francia: noi difendiamo le origini cristiane dell'Europa e la laicità dell Stato, nonché la dignità delle donne. Per questo diciamo no al velo integrale e all'islamizzazione della Francia e dell'Europa"

Lei é deputata al Parlamento Europeo; non ha la sensazione che gli euro-burocrati siano lontani anni luce dalla sensibilità della gente comune? "Assolutamente; noi combattiamo da sempre contro le invasioni di questi burocrati nella vita delle nazioni e da ultimo stiamo conducendo una battaglia contro le famigerate norme che rischiano di penalizzare prodotti alimentari come la Nutella..."

Il fatto di essere giovane e donna é un handicap oppoure no? "Sono donna e madre di tre figli. La Francia é meno maschilista dell'Italia (risatina), e l'essere donna non é certo un handicap, anzi!"

Chissà se sono maturi i tempi per vedere una donna all'Eliseo; da qui al 2012, il Fronte Nazionale é pronto a combattere la propria battaglia, confidando sull'attuale crisi del sistema politico e sull'immenso entusiasmo dei propri militanti.

La moschea


Non ci dev’essere alcuna moschea vicino a Ground Zero, fino a quando non ci saranno chiese o sinagoghe in Arabia Saudita. Il tempo del doppio standard che permette agli islamici di comportarsi aggressivamente verso di noi pretendendo al contempo la nostra debolezza e la nostra sottomissione, è finito. La proposta di erigere una “Cordoba House” a ridosso del luogo in cui sorgeva il World Trade Center – dove un gruppo di jihadisti uccise più di tremila americani, cancellando uno dei tratti più celebri dello skykine cittadino – è un test per la timidezza, la remissività, l’ignoranza delle elite americane. Per esempio, in molti, in queste elite, non capiscono che “Cordoba House” è un nome deliberatamente offensivo. Si riferisce alla città spagnola di Cordoba, che fu fatta capitale dei territori musulmani in Europa; i conquistatori vollero eternare la vittoria dell’Islam sulla cristianità trasformando una chiesa di quella città nella terza moschea del mondo.

Oggi, alcuni sostenitori della moschea affermano che con quel nome si vuole “enfatizzare la cooperazione tra le fedi”; la verità è che ogni islamico al mondo riconosce in Cordoba il simbolo delle conquiste dell’Islam. E’ un segnale del loro atteggiamento verso l’America, e di quanto ci considerino ignoranti, il fatto che ritengano di poterci insultare in modo tanto sfacciato. Quegli islamisti e i loro apologeti che parlano di “tolleranza religiosa” sono addirittura arroganti nella loro disonestà. Mettono da parte il fatto che, a New York, esistono già più di cento moschee. Ma non esiste neanche una chiesa o una moschea in Arabia Saudita. Nella città di La Mecca, un cristiano o un ebreo non possono neanche entrare. E ci vengono a dare lezioni di tolleranza.

Se la gente che sta dietro la Cordoba House fosse sincera quando parla di tolleranza religiosa, andrebbe a implorare i loro correligionari sauditi di aprire subito La Mecca a tutti, e di permettere l’istituzione di luoghi di culto non musulmani nel regno. I media dovrebbero chiedere a queste persone se hanno intenzione di portare avanti una tale campagna. Sono passati nove anni, e ancora non siamo stati capaci di riaprire il World Trade Center. Adesso ci vengono a dire che una megamoschea di 13 piani che costerà 100 milioni di dollari verrà eretta in un anno, di fronte al luogo del più devastante attacco a sorpresa nella storia d’America. Un appunto finale: da dove viene tutto quel denaro? La gente dietro alla Cordoba House si rifiuta di rivelarne l’origine.

L’America sta vivendo un’offensiva culturale e politica di marca islamica, mirata a indebolire e distruggere la nostra civiltà. E’ triste che troppe persone delle nostre elite siano attive sostenitrici di chi non esiterebbe a distruggerle, non appena potesse farlo. Nessuna moschea. Nessun auto inganno. Nessuna resa. Il momento di prendere posizione è arrivato – in questo luogo e su questo argomento.

Tratto da "Newt Direct" - Traduzione di Enrico De Simone

lunedì 26 luglio 2010

Aspettando l'Onu


MILANO - La moglie e il cognato di Mohammed Mostafaei, uno dei più noti avvocati impegnati in Iran nella difesa dei diritti umani, sono stati arrestati sabato 24 luglio a Teheran, secondo fonti iraniane. Non è chiaro dove si trovino al momento. Lo stesso Mostafaei, 37 anni, era stato interrogato per quattro ore in un ufficio legato al carcere di Evin sabato mattina.

AVVOCATO - Mostafaei è l’avvocato di Sakineh Ashtiani, una 43enne iraniana condannata alla lapidazione per presunte relazioni extraconiugali: la sua esecuzione, che lui aveva criticato in interviste ai media stranieri, è stata fermata giorni fa in seguito a forti pressioni internazionali, ma il verdetto non è stato annullato. Negli ultimi anni Mostafaei ha assunto la difesa di 40 minorenni condannati a morte nel suo Paese (sono oggi 130-140 nel braccio della morte secondo stime delle organizzazioni internazionali per i diritti umani). È stato anche l’avvocato di Delara Darabi, impiccata il 1° maggio 2009 per un presunto omicidio commesso a 17 anni, una violazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (ratificata anche dall’Iran) che vieta di infliggere la pena di morte ai minorenni. Qualche giorno fa, Mostafaei aveva inoltre criticato in un’intervista alla rete tedesca Deutsche Welle l’amputazione delle mani di cinque persone condannate per rapina, avvenuta il 22 luglio nel carcere di Hamedan, nell’Iran occidentale.

ARRESTI - Dopo essere stato interrogato dalle autorità sabato mattina, Mostafaei era tornato nel suo ufficio di Teheran e aveva scritto sul suo blog che era stato interrogato a proposito di un conto in banca da lui aperto in favore dei minorenni nel braccio della morte, ma che non c'era alcuna accusa formale contro di lui. Poche ore dopo, ha ricevuto una telefonata in cui gli veniva chiesto di presentarsi alla prigione di Evin. Ha scritto sul suo blog che avrebbe dovuto presentarsi domenica oppure, forse, l’avrebbero prelevato in ufficio le autorità stesse. Secondo il Committee of Human Rights Reporters, un gruppo di giornalisti e attivisti iraniani, le autorità si sono recate all’ufficio di Mostafaei con un mandato d’arresto ma non hanno trovato l'avvocato. Alle 11 di sera, hanno arrestato sua moglie Fereshteh Halimi e suo cognato Farhad Halimi, che erano andati a prendere la sua auto davanti all’ufficio.

ALLARME - «Mostafaei è uno dei pochi avvocati in Iran che difendono i minorenni e le donne come Ashtiani, in maniera del tutto legale», spiega Mahmmod Amiry-Moghaddam di Iran Human Rights, organizzazione per i diritti umani con sede a Oslo che domenica ha lanciato l'allarme sull'arresto. «Non è coinvolto in alcuna attività politica. È molto preoccupante se viene intimidito per aver svolto il proprio lavoro. Lo è per lui e anche per gli altri avvocati. Spero che la comunità internazionale esprima la propria preoccupazione e segua il modo in cui Mostafaei viene trattato». Mostafaei era stato detenuto a Evin l'anno scorso dal 25 giugno al 1° luglio con l'accusa di «complotto» e «propaganda contro lo Stato». Era stato rilasciato su cauzione.

Viviana Mazza

Il burqa non è la religione


Che la laica Francia se la prenda con il burqa non sor­prende più di tanto. Che la som­ma autorità religiosa di tutti i musulmani sunniti condanni duramente il velo integrale può invece stupire. Eppure sheik Mohammad Tantawi, Grande Imam dell’Azhar, que­sta volta è stato chiaro. «Il ni­qàb , il velo che copre il volto, è una tradizione del tutto estra­nea all’Islam», ha detto a una stupitissima liceale visitando la sua scuola al Cairo. «Perché lo porti? Non è religione que­sta, e io di religione credo di ca­pirne più di te e dei tuoi genito­ri». E ancora: «Emanerò una di­rettiva per proibire l’uso di que­sto velo in tutte le scuole di Al Azhar. Allieve e insegnanti non potranno più portarlo». A dife­sa della ragazza, racconta il quotidiano Al Masri Al Yawm, sono intervenute le professo­resse: «Se l’è messo quando è entrato lei, con le compagne non lo indossa». Ma l’anziano capo di Al Azhar ha ribadito il divieto, comunque e sempre.

Sconosciuto di fatto fino al­l’inizio degli anni '80, in Egitto il velo integrale si è diffuso con l’estremismo islamico. E se una volta a portarlo per le vie del Cairo erano solo le «arabe dal Golfo», considerate dalle egiziane meno progredite sep­pur più ricche, oggi il niqàb è popolare. Il governo, laico, ha tentato a più riprese di impedir­ne l’uso, considerandolo segno di resistenza al regime e di so­stegno invece ai Fratelli Musul­mani, unica opposizione politi­ca rimasta nel Paese. Nel 1999 una lunga battaglia tra il mini­stero dell’Informazione e alcu­ni avvocati integralisti si con­cluse con il suo bando dalle scuole pubbliche. Nel 2007 il ministro degli Affari religiosi ordinò alle moschee di impedi­re l’ingresso a chi lo indossava. Proibizioni poco rispettate in realtà. Anzi, sempre nel 2007, l’Università Americana del Cai­ro fu costretta a riammettere una studentessa coperta dalla testa ai piedi.

Sheikh Tantawi per anni ha cercato il compromesso. «Por­tare o meno il niqàb è una scel­ta personale», sosteneva, senza vietarlo nè elogiarlo. E perchè ora abbia cambiato idea non è facile dire. Certo, l’allarme sicu­rezza è massimo in Egitto e le autorità sostengono che sotto a un niqàb si può na­scondere di tutto, un terrorista come delle armi. La lotta del raìs Mubarak contro gli islamici radicali è sem­pre più dura e Al Azhar tiene molto ai buoni rapporti con il potere. Ma è anche ve­ro che il «Papa sunni­ta» ha già dato prova in passato di moderazione. Nel 2001, dopo le Torri Gemelle, sheikh Tantawi definì «eretici» gli attentatori-suicidi. Nel 2005, sfidando una tradizione millenaria, proibì le mutilazio­ni genitali femminili, la «cir­concisione» delle bambine che certo islamica non è ma viene difesa da molti imam e conser­vatori. Fu inondato da critiche e accuse, allora. E adesso, dopo l’incontro con la liceale senza volto del Cairo, sta già succe­dendo lo stesso.

Cecilia Zecchinelli

E sarebbe ora


In Parlamento sono due le proposte di legge che si occupano del divieto di indossare burqa e niqab. Tutti e due vogliono modificare l'articolo 5 della legge 152/1975, relativo al divieto di indossare caschi o indumenti che rendono difficoltoso il riconoscimento delle persone. Attualmente questo articolo vieta di indossare caschi e «qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Il divieto si applica anche agli altri indumenti». Dunque anche a burqa e niqab. Un articolo più volte modificato in senso restrittivo da provvedimenti anti-terrorismo e di ordine pubblico. I due disegni di legge presentati alla Camera, mirano, in un solo articolo, vietano in modo esplicito l'uso per le donne di religione islamica del burqa e del niqab.

I primi a scendere in campo sono stati, il 6 maggio 2009, due deputati del Pdl, la giornalista di origine marocchina Souad Sbai e l'avvocato penalista Manlio Contento. «La proposta di legge - spiegano i due deputati - intende rafforzare e puntualizzare la portata del divieto di utilizzo di mezzi atti a occultare tratti somatici del corpo e del viso, che rendono difficoltoso il riconoscimento della persona».

La seconda proposta di legge è firmata da due deputati dell'Udc, gli avvocati Pierluigi Mantini e Mario Tassone. Nella proposta di legge presentata il 3 dicembre 2009 si spiega che si vuole vietare l'uso di burqa e niqab non solo per i pericoli per la sicurezza e l'ordine pubblico, ma anche perchè «sono diventati simbolo dell'assoggettamento delle donne a una concezione che nega ad esse libertà e disponibilità del proprio corpo, e dunque diritti umani fondamentali, da parte di ideologie fanatiche ed estremiste incompatibili con la civiltà basata sul diritto, estranee alla religione musulmana». Anche qui un solo articolo che vieta esplicitamente l'uso di burqa e niqab.

Dissesto finanziario


CAPALBIO (Grosseto) – Doveva essere un supercompleanno quello che si festeggia lunedì a Capalbio. Cinquant’anni di indipendenza amministrativa con la nascita del comune autonomo, festeggiati con mega festa, invitati eccellenti, manifestazioni, convegni, mostre e dibattiti. E invece il borgo dei vip e dell’intellighenzia di sinistra rischia il crac finanziario. La festa ci sarà ugualmente, ci mancherebbe, ma intanto il sindaco Pd e la giunta di centro sinistra sono preoccupatissimi per un debito di quasi 200 mila euro che non sanno come ripianare. Tantissimi soldi per un borgo blasonato ma di appena quattromila anime, un debito capace di provocare un terremoto finanziario nel mezzo di un’estate già tormentata dal problema dell’erosione della spiaggia frequentatissima da sempre dai politici della sinistra e per questo ribattezzata «falce e secchiello».

L'IPOTESI TASSA - Un’emergenza, insomma, tanto da spingere l'amministrazione a pensare, seppur come ultima ratio, di istituire una tassa di scopo per ripianare i debiti, tutti derivanti da parcelle legali. Già, perché il dissesto non deriva da spese folli e sprechi, ma da una battaglia in parte persa della passata giunta comunale per arginare la piaga della costruzione di annessi di campagna in alcuni casi trasformati in vere e proprie ville con conseguente cementificazione. L’allora sindaco Lucia Biagi dichiarò guerra ai presunti speculatori provocando però una raffica di ricorsi al Tar. La querelle si concluse con una sentenza del tribunale amministrativo che annullò in parte la nuova normativa e impose alle parti di pagare i propri legali. Così è stato. Ma mentre i privati se la sono cavata con una sola causa a testa, il Comune ha dovuto far fronte a un centinaio di esposti con conseguente pagamento di parcelle salate. «Più di 400 mila euro – conferma l’attuale sindaco Luigi Bellumori, Pd, eletto lo scorso anno – di cui duecento già pagati e altrettanti da pagare. Il problema è che adesso non abbiamo più soldi. Ho avviato un’istruttoria e nei prossimi giorni chiederemo di poter pagare le spese legali a rate, magari applicando i minimi tariffari. Altrimenti è il dissesto finanziario». Il sindaco è così preoccupato da pensare anche a una tantum da chiedere ai cittadini per risolvere il problema. Anche se il provvedimento suonerebbe come una beffa. Il motivo? La tassa per le spese processuali del comune sarebbe pagata anche da quei cittadini che hanno ricorso al Tar e hanno già pagato i propri avvocati.

Marco Gasperetti

domenica 25 luglio 2010

Rosy Bindi e la P3


All'indomani dell'appello di Napolitano sul cosiddetto caso P3, il Pd chiede che si formi una commissione parlamentare d'inchiesta. Lo annuncia Rosy Bindi, vicepresidente della Camera e presidente dell’assemblea nazionale del partito, che nei prossimi giorni presenterà una proposta di legge per la costituzione della commissione. "Il monito del presidente della Repubblica sulla nuova questione morale - spiega in una nota - non può cadere nel vuoto. La magistratura farà la sua parte per accertare le responsabilità personali e deve essere lasciata lavorare in piena autonomia, senza subire forme più o meno esplicite di delegittimazione del proprio ruolo. Ma al tempo stesso, se vogliamo evitare come chiede il presidente Napolitano, un pericoloso massacro delle istituzioni, è necessario che il Parlamento faccia la sua parte per comprendere e analizzare le cause e le dimensioni reali del degrado della vita politica e le finalità di pratiche illegali e meccanismi opachi che stanno inquinando settori decisivi della vita pubblica".

Il commento di Di Pietro - Le parole del capo dello Stato colpiscono anche il leader dell'Idv, che però non perde occasione per polemizzare. Secondo Antonio Di Pietro, ha fatto bene Napolitano a lanciare l’allarme sulle "squallide consorterie dei modelli piduisti, ma che l’Italia abbia gli anticorpi è tutto da dimostrare". Il pensiero va sempre ai vecchi processi: "Già nel 1992 e nel '93, avevamo scoperto il metodo gelatinoso tra affari, politica e mafia, ma quelle persone e quei metodi sono ancora lì, anzi si sono appropriati delle istituzioni e le utilizzano per fare leggi, provvedimenti e scelte che rafforzano il loro potere piduista. Oggi c'è bisogno di un partito della legalità che metta insieme le persone per bene prima che sia troppo tardi. Dobbiamo cominciare a preoccuparci non del modello piduista che ha conquistato il potere ma del modello piduista che sta conquistando le coscienze", conclude Di Pietro.

Fabio Granata (2)


In questi caldi giorni d’estate, caratterizzati da aspre polemiche sulla questione morale e sulle tragiche vicende del ’92 è risuonata spesso l’accusa di professionismo dell’antimafia, lanciata sia nei confronti di alcuni magistrati che nelle polemiche interne agli schieramenti politici. Anche nel Pdl si è fatto spesso ricorso a queste espressione per sottolineare negativamente la predisposizione di alcuni di noi a rimuovere la cultura delle garanzie e le presunzioni di innocenza costituzionalmente garantite, attraverso la sottolineatura delle responsabilità di pezzi delle istituzioni e della politica nella vergognosa e ciclopica opera di depistaggio e di occultamento della verità sulle stragi di mafia nella cornice delle trattative tra apparati dello stato e cosa nostra.

Professionisti dell’Antimafia: sono certo che chi utilizza questa espressione non ha né la conoscenza nè la memoria storica per ricordarne le origini. Cita Sciascia come creatore della metafora, ma dimentica di sottolineare o, in alcuni casi ignora, che Sciascia utilizzò questa espressione nei confronti di Paolo Borsellino poiché il grande scrittore siciliano in una prima fase non aveva compreso la portata rivoluzionaria delle metodologie d’indagine e processuali che lui e Giovanni Falcone avevano introdotto nell’azione di contrasto a cosa nostra. Sciascia si pentì amaramente di questa polemica e, dopo la tragica morte di Paolo Borsellino, se ne scusò solennemente sia attraverso i giornali che con una missiva privata alla signora Agnese, moglie del giudice ucciso. Oggi, nel dilagare di una questione morale che coinvolge pezzi della politica e delle istituzioni e che costringe il presidente Napolitano a un rigorosissimo richiamo ai partiti ed ai corpi istituzionali per fare pulizia al proprio interno, e mentre l’azione irriducibile dei magistrati di Palermo, Caltanissetta e Firenze ricostruisce le dinamiche criminali che portarono alle stagione delle stragi e che furono attraversate da inconfessabili trattative tra la mafia e pezzi dello Stato , ecco che il nemico principale siamo diventati noi: i “nuovi professionisti dell’Antimafia”.

Le vicende giudiziarie che riguardano Cosentino, la condanna di Dell’Utri, l’esaltazione di Mangano come eroe nazionale, l’inquietante vicenda della cosiddetta P3 che vede unite figure torbide provenienti dal passato quali Flavio Carboni, allo stesso tavolo con magistrati infedeli, faccendieri, pezzi della politica hanno lasciato perfettamente indifferenti alcuni dirigenti del Pdl che invece dimostrano tutta la loro diuturna preoccupazione, in alcuni casi vera e propria indignazione, verso coloro i quali si appellano alla legalità repubblicana e sostengono l’azione dei magistrati per ottenere verità e giustizia sulle stragi del ’92.

È la stessa logica secondo la quale a Casal di Principe il problema non sono i Casalesi, ma Saviano, in Italia non sono le mafie che fatturano 120 miliardi di euro l’anno, ma le opere letterario-cinematografiche che ne parlano. Allo stesso modo nel Pdl a minare la credibilità del partito agli occhi dell’opinione pubblica e della gente comune, alla prese con una grave crisi economica e sociale, non sono le cricche, le consorterie, le logge che parlano di affari, denaro, potere e dossier: il vero problema siamo noi, i professionisti dell’antimafia.

*(Vergognoso) Deputato Pdl, vicepresidente della Commissione Antimafia

Tutto tace?


Roma - Non siamo ancora alla vera e propria controffensiva al bombardamento su Dresda di giovedì scorso - con il filotto Bocchino, Barbareschi, Augello e Granata - ma la prima reazione agli affondi che ormai da settimane arrivano dalla pattuglia finiana è comunque sufficiente a mettere Berlusconi di buon umore. Dopo giorni di appelli all’unità e di immobilismo - dettati anche dalla necessità di chiudere sul ddl intercettazioni - il Cavaliere ha infatti deciso di aprire la strada dello show down con Fini. Una partita lenta e che forse lo stesso premier non ha ancora deciso fino in fondo come giocare, ma che da ieri pare ufficialmente cominciata. La resa dei conti, è il senso delle parole che usa Berlusconi nelle sue conversazioni private, è iniziata. E tanto aspettava questo momento il Cavaliere che, chiuso ad Arcore, non si lascia sfuggire neanche una delle decine di dichiarazioni che rimbalzano per tutta la giornata sulle agenzie di stampa.

Il redde rationem comincia dunque con la richiesta - arrivata da un berlusconiano di ferro come Valducci - di portare Granata davanti al collegio dei probiviri del Pdl. Il segnale è chiaro: da ora in poi nessuna indulgenza contro chi spara contro il partito e contro il governo. Un messaggio ai finiani, certo, ma pure un primo passo per arrivare a una resa dei conti definitiva con Fini. Già, perché il finiano vicepresidente dell’Antimafia s’è certamente fatto prendere la mano quando qualche giorno fa a Palermo ha detto che «ci sono pezzi del governo che fanno di tutto per ostacolare le indagini sulla strage di via D’Amelio». Insomma, una cosa è criticare la maggioranza o l’esecutivo, altra è accusarlo di connivenza con la mafia. Che poi Granata sostenga anche la totale attendibilità di Spatuzza - il pentito che accusa Berlusconi di essere il mandante delle stragi del ’92 - non è proprio un dettaglio e porta a una conclusione eloquente: il Cavaliere ostacola le indagini perché è lui il vero responsabile della morte di Falcone e Borsellino. Ecco, ci sta che il premier non l’abbia presa troppo bene e - per usare un eufemismo - sia andato fuori dalla grazia di Dio. Irritazione che poi ha deciso di placare con la sua proverbiale dose di ottimismo: il lato positivo è che questa è l’ultima goccia perché è chiaro che è arrivato il momento di mettere fine a questa pagliacciata. Probiviri, dunque. Oppure la convocazione di un ufficio di presidenza ad hoc per sancire l’espulsione di Granata dal Pdl. E usarla come grimaldello per arrivare direttamente a Fini. Il presidente della Camera - ragiona Berlusconi - dovrà assumersi le sue responsabilità: o lo lascia al suo destino oppure sostiene pubblicamente che non c’è niente di strano nel tacciare il governo di essere mafioso. Nel primo caso il segnale sarebbe devastante per la tenuta della pattuglia finiana, nel secondo l’ex leader di An avrebbe più d’una difficoltà a spiegare il perché di un affondo tanto duro.

Ad Arcore, poi, non passa affatto inosservato il silenzio del presidente della Camera e dei suoi dopo l’appello lanciato da Di Pietro (a Fini e Bersani) per dar vita a una «coalizione nuova con il partito della legalità». D’altra parte, è proprio la legalità - contrapposta al partito dell’illegalità ovviamente guidato dal Cavaliere - il grande ombrello sotto il quale dar vita a un eventuale governo di larghe intese. «La stessa operazione - chiosa il vicepresidente dei deputati Pdl Napoli - che si fece nel ’94 con la questione morale». Ed è la legalità uno dei cavalli di battaglia dell’ex leader di An che non perde occasione di puntare il dito contro chi nel Pdl è coinvolto in vicende giudiziarie. Tanto che ormai da settimane in privato il Cavaliere parla di un Fini «dipietrizzato», «giustizialista» e «ormai in combutta con le procure» al punto dall’aver perso ogni briciola di garantismo. Insomma, ironizza un ministro vicino a Berlusconi, «è vero che i finiani aprono bocca e gli danno fiato» ma «che sull’appello di Di Pietro scegliessero la via del silenzio era prevedibile».

Fabio Granata


Che la misura sia colma e che tra Fini e Berlusconi la pace sia impossibile lo ammette pure l’ex aennino Mario Landolfi a Orvieto, nella seconda giornata dei lavori di Nuova Italia, fondazione di Gianni Alemanno: «Parliamoci chiaro: basta con gli appelli alla riconciliazione tra i due che ormai paiono patetici». Una kermesse a cui oggi il premier invierà un messaggio. Se fino in passato tra lealisti e finiani era una perenne scaramuccia, ieri sono letteralmente volati gli stracci. Sul banco degli imputati il pasdaran finian-giustizialista Fabio Granata che più che dissentire sulla linea della maggioranza da tempo lancia bombe atomiche nel partito nel quale milita, cioè in casa sua. Le ultime due sparate: sulla gola profonda Spatuzza che andrebbe riabilitato e sui pezzi di Stato e di governo che starebbero ostacolando le indagini sulla strage di via D’Amelio. Quando è troppo è troppo. Non gli piace più la casa in cui vive? Benissimo: se ne vada. Questo il sentimento diffuso di molti pidiellini.

Il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto arriva a paragonarlo all’ex leader della Rete e oggi portavoce dell’Italia dei valori, Leoluca Orlando. Lo dice parlando di mafia: «Il mio eroe è Falcone che ha combattuto Cosa nostra ma era un rigoroso garantista. Proprio per questo fu attaccato dall’Unità, dai comunisti, dai postcomunisti, da Magistratura democratica, da giustizialisti khomeinisti. Il Granata dell’epoca si chiamava Leoluca Orlando Cascio». Quando lo grida al microfono, la platea orvietana si spella le mani mentre l’unico finiano presente, il più diplomatico Silvano Moffa, resta immobile come una sfinge.

Il clima è pesante qui a Orvieto e si ha la sensazione che ormai i falchi finiani siano considerati corpi estranei da espellere dal partito. Anche il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi va giù duro contro l’onorevole nisseno col tic giustizialista e invoca sanzioni disciplinari: «Lo statuto che anche Granata ha votato è chiaro, netto e preciso. Coloro che hanno parole durissime e strumentali o vanno via dal partito oppure nel partito c’è un luogo che è quello dei probiviri. Giudichino loro». Insomma, Granata e compagnia ormai sono fuori linea. Il primo a invocare il procedimento disciplinare nei confronti di Granata è l’onorevole Mario Valducci: «Rispetto alle molteplici sparate di alcuni esponenti finiani credo sia arrivato il momento che gli organi di giurisdizione interna del Pdl intervengano». Anche perché «il continuo controcanto sta logorando non l’azione di governo che continua a essere forte ma la fiducia del nostro elettorato che non ne comprende le origini e le finalità». Lungi dal fare dietrofront, il frondista numero uno Granata rilancia: «Attendo che mi convochino i probiviri con assoluta tranquillità. Mi piacerebbe conoscere quali sono le frasi tanto incriminate». Non solo: alimentando il clima da faida interna, graffia: «Attendo di capire se i probiviri si devono interessare anche di quei dirigenti accusati di comportamenti gravi e non compatibili con un partito che non dovrebbe preoccuparsi di azioni lobbistiche, affari o di rapporti con ambienti oscuri. Sarei felice, insomma, di andare dai probiviri insieme a Denis Verdini e Nicola Cosentino».

Avvocati difensori di Granata, gli altri ultras finiani Italo Bocchino e Carmelo Briguglio. Per il primo, «invece di immaginare sanzioni disciplinari ci si preoccupi di chi ha fatto dossier contro colleghi di partito o chi ha frequentato personaggi a dir poco ambigui». Anche in questo caso, chiaro riferimento a Cosentino e Verdini. Per il secondo, «gli improvvisati Torquemada interni si devono dare una calmata». Insomma, nel Pdl siamo ai pesci in faccia. Per cercare di uscire dall’empasse, Alemanno lancia la proposta, anche pensando al futuro: «Entro marzo promuoviamo congressi comunali e provinciali del partito. Così daremo voce non solo agli iscritti ma anche agli elettori attraverso ai gazebo».

Volontà di andare a una conta o nostalgia del vecchio partito ancorato al territorio? Entrambe le cose visto che non rinuncia a una critica feroce: «Nel partito ci sono troppi yesmen che si nascondono dietro la leadership». Di fatto, tuttavia, la petizione alemanniana viene firmata pure dagli ex azzurri presenti a Orvieto, Maurizio Lupi e Fabrizio Cicchitto. Con una postilla: niente primarie.

sabato 24 luglio 2010

L'islam contro tutto

Già, nessun "vero" musulmano dovrebbe non solo non indossare la maglia del milan ma non dovrebbe neppure andare in giro per il mondo ad inquinarlo e corromperlo con la sua ideologia mortale... dovrebbe restarsene tra i confini della propria terra. Poi, i razzisti e quelli senza cervello siamo noi occidentali...


Nessun musulmano dovrebbe indossare la casacca del Milan. «È pericolosa» perché contiene la raffigurazione di una croce, «simbolo di un’altra religione».  È questo il monito che due leader islamici della Malesia hanno rivolto a calciatori e fedeli musulmani invitandoli a non vestire magliette «sataniche» o «infedeli». Lo ha riferito ieri l’agenzia cattolica Fides. Ma l’appello non riguarda soltanto il Milan: anche il Manchester United è finito nella lista nera degli ulema perché la sua divisa raffigura il diavolo, così come di Barcellona, Serbia, Norvegia, Portogallo e Brasile, i cui simboli contengono croci cristiane. Il monito ha scatenato un ampio dibattito in Malesia, dove, tra l’altro, il Manchester United ha un grande seguito, tanto che nel 2006 è stato siglato un accordo tra il club inglese e l’ente turistico nazionale. Molti giovani hanno protestato sul web, chiedendosi, ironicamente, «se gli ulema non siano tifosi del Liverpool». Ma per Nooh Gadot, leader del Consiglio religioso della città di Johor, nessuna fede calcistica può fare eccezione. «Un musulmano non dovrebbe venerare simboli di altre religioni o il diavolo», è stato il monito dell’ulema, che ha precisato: «Un vero musulmano non dovrebbe né comprarle né accettarle in regalo».

L'imbecille, l'aministia e l'indulto...


Negli ultimi dieci anni nelle carceri italiane sono morte 1.702 persone. Di queste, 593 per suicidio. Un flusso costante che non accenna alcuna battuta d’arresto. Un dato allarmante che solleva una domanda: quali sono le condizioni dei detenuti negli istituti di pena? Qualche numero e la risposta è presto detta: in Italia ci sono circa duecento strutture carcerarie e il numero totale dei posti sui quali si può contare è di 37.742. I detenuti, però, sono 67.601. A mancare quindi, non sono soltanto i posti in cella, ma anche i tempi per l’attuazione di un provvedimento che risolva la situazione. E’ per questo che il senatore Luigi Compagna (Pdl) ha presentato alla Commissione Giustizia di Palazzo Madama un ddl sulla concessione di amnistia e d’indulto. "Non si è riusciti finora a varare provvedimenti che rendessero meno disumane le condizioni delle nostre carceri. Esse vivono un dramma che le pone al di fuori di ogni principio della Carta dei diritti dell'uomo", è l’allarme lanciato dall’esponente della maggioranza.

Dunque, senatore Compagna, le carceri italiane stanno per "esplodere"? Nel corso di questa legislatura il ministro della Giustizia Alfano aveva informato il Parlamento della condizione drammatica dei nostri istituti carcerari, provando anche a intraprendere la strada di un provvedimento alla Camera: il cosiddetto "svuota-carceri". Però la rigida opposizione in Commissione Giustizia, da parte soprattutto della capogruppo del Pd Donatella Ferranti, aveva portato anche questo provvedimento ad un binario morto. Da qui la necessità di richiamare l’attenzione dei colleghi al nostro diritto-dovere di occuparci della questione.

Ma il capogruppo Maurizio Gasparri e il viceministro alle infrastrutture Roberto Castelli hanno subito gridato "no all’amnistia". Guardi, mi rendo conto di tutte le obiezioni. E credo che quelle di Castelli e Gasparri non siano del tutto improprie. Però la condizione delle carceri, di quelli che ci lavorano e dei detenuti è diventata talmente drammatica che è difficile rimanere insensibili a quello che ormai è un vero e proprio grido di dolore e disperazione. Ma le dirò di più. Credo che le obiezioni dei colleghi e amici restituiscano vigore ad un tema sempre più critico che deve essere risollevato.

In cosa consiste la sua proposta di legge? E’ un disegno di legge di concessione di amnistia e indulto d’ "impianto tradizionale": lo definisco come tale perché quella dell’amnistia è una tradizione che si è interrotta ormai da una ventina d’anni. Da quando cioè, in seguito ad un appello dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, il Parlamento decise di intervenire in questa materia fissando il quorum necessario alla deliberazione dell’amnistia in una maggioranza di due terzi.

Cosa è successo da allora? Quella dei due terzi è una maggioranza molto difficile da raggiungere. Perciò siamo passati dall’abuso degli "istituti di clemenza", che prevedevano almeno un’amnistia per ogni legislatura, ad un altro di circa vent’anni nel quale non ce n’è stata neppure una. Ricordo solo, nel 2003, le sollecitazioni di Papa Wojtyla, alle quali seguì poi l’indulto durante il governo Prodi: un provvedimento però molto contraddittorio.

Quali sono le esigenze più urgenti? La questione più drammatica è senza dubbio il sovraffollamento delle strutture. Lo stesso Castelli, che muove obiezioni nei miei confronti, riconosce tutti i dati che fornisco nella mia relazione: e cioè che il carcere non serve solo per la pena detentiva, bensì anche per la custodia cautelare, che le strutture non sono adeguate e che in alcuni casi in una sola cella ci sono otto detenuti. C’è chi sostiene che bisogna costruire più carceri, ma il famoso "piano carceri" presentato da Matteoli e da Alfano non sembra attuabile.

Qual è il problema del "piano carceri"? Non voglio certo drammatizzare. Ma i tempi di realizzazione di strutture adeguate non vanno d’accordo con quelli estremamente più rapidi con cui apprendiamo di suicidi dovuti a casi di mala detenzione.

Quali sono le strutture più problematiche? I casi peggiori si ravvisano soprattutto nel Mezzogiorno. Comunque anche il carcere romano di Rebibbia riversa in una situazione drammatica. Il mese scorso ad esempio, visitai il carcere, e il personale manifestava grande preoccupazione per l’arrivo del caldo: dicevano che la tensione all’interno della struttura era latente.

A chi deve essere data per prima l'amnistia tra le tipologie di detenuti? Secondo me ci sono ricorsi alla custodia cautelare del tutto voluttuari. Da questo punto di vista il disegno di legge Alfano, che prevedeva di non scontare in carcere l’ultimo anno di detenzione, qualche respiro lo offriva. Purtroppo si è arenato alla Camera.

In italia ci sono circa 68 mila detenuti. Di questi, oltre 14 mila sono in attesa di giudizio… Ho l’impressione che ci sia il ritorno ad un uso-abuso del ricorso alla custodia cautelare degno dei tempi del peggior Borrelli-D’Ambrosio a Milano. Facciamo un esempio: si può mettere in carcere gente di oltre settant’anni? Credo che da questo punto di vista una discussione debba ripartire.

Chi esce dal carcere però, dovrà essere "reinserito" in qualche modo. Non crede? Esistono una serie di organismi meritori che favoriscono il reinserimento: tanto per citarne uno, la Croce Rossa. Sicuramente non è ancora sufficiente, ma il Parlamento serve a porre problemi e a confrontare opinioni diverse cercando di trovare le priorità e soprattutto la compatibilità fra gli aspetti delle varie questioni. Intanto, ho provveduto a gettare la palla in campo, come si dice, per risollevare una questione urgente. La mia non è una proposta ultimativa: appartengo ad una classe politica e a un costume che prevede il ragionamento. Io stesso, in passato, mi sono opposto a provvedimenti di amnistie annunciate, ma stavolta l’incalzare delle cifre ci pone di fronte un problema più serio: oggi nelle nostre carceri c’è almeno il doppio dei detenuti previsti.