lunedì 27 febbraio 2023

Il bolognese

Mi desta una certa sorpresa constatare che, proprio per rendere concreti i nobili obiettivi allora proposti, il Parlamento Europeo, nei confronti del futuro dell’automobile, si sia schierato in favore dell’unica scelta produttiva nella quale Cina e Stati Uniti si trovano fortemente in vantaggio rispetto all’Europa. La decisione di abbandonare la produzione di ogni tipo di automobile spinta da un motore a diesel o a benzina, per passare ad un sistema a trazione puramente elettrica in tempi così ristretti (entro il 2035), ci obbliga infatti a mettere in secondo piano i progressi in corso nel campo dei biocarburanti, dell’idrogeno e delle altre tecnologie che vedono l’Europa combattere ad armi pari. Eppure vi sono sostanziali dubbi che la scelta compiuta sia la strada più conveniente per affrontare il problema del degrado del pianeta, data la quantità e la qualità di materie prime necessarie a produrre le batterie che costituiscono il motore dell’auto elettrica e dato l’elevato costo della rottamazione delle batterie stesse. Il tutto senza tenere conto dell’energia necessaria per muovere il loro peso, assai maggiore di quello di un tradizionale motore a combustione interna. Bisogna inoltre sommare a tutto questo il costo delle infrastrutture necessarie per la ricarica delle batterie, l’inquinamento provocato dalla produzione dell’energia elettrica (solo in parte generata da fonti rinnovabili) e, anche se in via di progressiva soluzione, la limitata autonomia delle auto elettriche e i loro lunghi tempi di ricarica. 


Non ci si deve quindi sorprendere se, a differenza di altri studi che giungono a conclusione opposte, una recente ricerca dell’Università di Monaco sostiene che, tenendo conto di tutti questi aspetti, un’auto elettrica finisce con il produrre, insieme a una cospicua caduta dei posti di lavoro, una quantità di CO2 superiore a quella di un motore a combustione interna di ultima generazione. Tanto più che, dati gli elevati costi delle auto elettriche, diverrà conveniente utilizzare per un tempo il più lungo possibile anche le auto più inquinanti oggi sul mercato. Nonostante i progressi tecnologici di Cina e Stati Uniti nella produzione delle batterie, i costi delle auto elettriche rimangono infatti ancora molto superiori a quelli delle tecnologie fino ad ora dominanti. Per un lungo numero di anni dovremo quindi incentivare gli acquirenti dell’auto elettrica con pesanti sussidi, dedicati ad acquistare prodotti che, nella quasi totalità, sono fabbricati in Cina o nei giganteschi impianti di batterie in costruzione negli Stati Uniti, sotto la spinta degli incentivi forniti dal governo. Mancando infine una politica industriale a livello europeo, le grandi imprese dell’Unione si stanno attrezzando per fare fronte a questa sfida con nuovi grandi progetti, naturalmente sussidiati dagli Stati nazionali sia sotto la forma di un cospicuo incentivo agli investimenti, sia tramite un contributo agli acquirenti che, secondo l’affermazione del Commissario Europeo all’industria Thierry Breton, si colloca nell’ordine di 6.000 euro per ogni auto acquistata.


In Italia il problema assume un aspetto del tutto particolare in quanto, pur essendo ormai marginali nella produzione di vetture finite, siamo un Paese di straordinaria importanza nella produzione dei componenti, la gran parte dei quali non esiste nelle vetture elettriche, che sono molto più semplici e si muovono spinte unicamente dalle costosissime batterie. Le auto elettriche non hanno infatti bisogno di filtri, valvole, testate, iniettori, monoblocchi, pompe, serbatoi e delle tante altre diavolerie che compongono un’auto spinta da motore diesel o a benzina. Di conseguenza, nel nostro Paese, si produrrà una riduzione di oltre cinquantamila posti di lavoro e un notevole danno alla nostra bilancia commerciale, dato che siamo grandi esportatori verso le imprese automobilistiche europee. Altre risorse saranno quindi necessarie per porre rimedio a questa ulteriore conseguenza, comune a tutta Europa ma che, in Italia, assume un peso del tutto particolare. Di fronte a tutte queste considerazioni, mi chiedo se scelte così drastiche e tempi così ristretti siano la decisione migliore per proteggere il futuro del nostro pianeta. Forse gli stessi legislatori europei hanno nutrito qualche dubbio in materia quando hanno proposto un possibile riesame nel 2025. Come si suole dire in questi casi, si tratta però di una “pezza peggiore del buco” perché, nel frattempo, tutte le grandi decisioni saranno già state messe in atto, con le loro conseguenze, compresa quella di bloccare ogni ricerca per migliorare il funzionamento del motore endotermico.


Romano Prodi, il Messaggero, 18 febbraio 2023

venerdì 24 febbraio 2023

Lettera aperta

Lettera aperta a Podolyak nel tempo imbecille degli esseri inani. Di Alessandro Orsini. 


Podolyak, consigliere presidenziale di Zelensky, dichiara che Kiev, con  i missili a lungo raggio dell'Occidente, potrebbe uccidere il 30%-40% delle reclute che Putin sta ammassando al confine con l'Ucraina in vista della grande offensiva di terra. Caro Podolyak, chiedo con gentilezza, hai una mente abbastanza potente per porti la seguente domanda? Se Kiev uccidesse il 40% delle reclute russe con i missili americani, secondo te, Podolyak mio, poi la Russia che cosa fa? Si arrende, ti dà i soldi per ricostruire l'Ucraina e accetta pure la Nato in Donbass e i soldati americani in Crimea? Caro Podolyak, non ti viene in mente che, se tu uccidi il 40% delle reclute russe con i missili della Nato, poi la Russia ti squaglia pure la suola delle scarpe? Davvero la tua mente non riesce a concepirlo? Caro Podolyak, tu dici che tutti gli Stati sono liberi di fare quel che vogliono della loro politica estera e di sicurezza. Ti spiego una cosa: se l'Italia provasse a uscire dalla Nato per entrare nel blocco russo, del mio amato Paese non rimarrebbero nemmeno le cime di rapa. Il minimo che potrebbe capitarci è l'assssinio del nostro presidente del consiglio. Hai una mente abbastanza potente per capire che la gestione di uno Stato non è la gestione di un condominio? Davvero la tua mente è così limitata da impedirti di capire che l'Ucraina non può entrare nella Nato e l'Italia non può uscirne? 


Con la stessa gentilezza, chiedo: voi consiglieri presidenziali di Zelensky maneggiate concetti del tipo "alleanze strutturali", "struttura delle relazioni internazionali", "campi di forze oggettive", "rapporti di forza", "dilemma della sicurezza"? Senza offesa, voi consiglieri di Zelensky date l'impressione di avere le capacità cognitive di un bambino di tre anni. E noi rischiamo la terza guerra mondiale per un gruppo di uomini dal pensiero non pensato come voi? Siete esseri umani o esseri inani? Il problema non sono le dichiarazioni di Berlusconi, caro Podolyak, il problema sono certe facoltà intellettive ucraine e la mancanza di un microscopio atto ad osservarle. Non viviamo affatto in un tempo tragico; viviamo in un tempo imbecille. Se tornasse in vita, Platone non rifletterebbe sulla Repubblica dei guardiani o sui guardiani della Repubblica, bensì sulla Repubblica degli imbecilli e sugli imbecilli della Repubblica.


La domanda platonica oggi non è chi controlla i controllori, bensì chi controlla gli imbecilli. Imbecilli nel Parlamento europeo. Imbecilli nella Commissione europea. Imbecilli nelle televisioni. Imbecilli nelle radio. Imbecilli nel Parlamento italiano. Il tempo imbecille è il tempo degli imbecilli dappertutto. Imbecilli dappertutto tranne che nella Casa Bianca, soltanto lì troviamo gli intelligenti: mi inchino davanti al genio strategico di Biden. Il Parlamento europeo è la vergogna d'Europa, luogo di corrotti nella mente prima ancora che nelle tasche che finanziano una guerra per procura contro la Russia in favore della Casa Bianca per l'autodistruzione dell'Europa. L'Europa contro la Russia è, in assoluto, l'idea più imbecille mai sorta in Europa negli ultimi settecento anni. Caro Podolyak, perdonami se ho scritto qualcosa di indelicato. Ti voglio bene come si può volere bene a una mente bisognosa di essere accudita. Avanzi l'Italia, avanzi la pace. Risorga il movimento pacifista. 

martedì 21 febbraio 2023

Lo sguardo altrui

Nei rapporti con gli altri il fattore fondamentale per consentire l'instaurarsi di rapporti pacifici e di mutua comprensione è la capacità di mettersi nei panni altrui, di guardare il mondo circostante anche con gli occhi dell'altro, dalla sua prospettiva. Non è un esercizio facile, ma è l'esercizio etico primario che sta alla base di tutte le etiche tradizionali come formula della reciprocità. Questa prassi è stata tuttavia progressivamente erosa nella cultura occidentale (in particolare americana). Non è sempre stato così, ma oggi lo sguardo occidentale è addestrato a concentrarsi su quali possano essere i lati da cui l'altro potrebbe avermi offeso, dal mio punto di vista, posto come ultima autorità. Spostato sul piano della politica estera questo unilateralismo etico nell'opinione pubblica si esprime in forme di "imperialismo ingenuo", che farebbero tenerezza se non lasciassero dietro di sé una scia di morte e distruzione. Ora, qualcuno ancora oggi continua a chiedersi: "Cosa mai avrà avuto da temere la Russia in Ucraina? E' chiaro che si tratta di un pretesto per invadere l'Europa." "E cosa mai avrà da temere la Cina per armarsi?" "E cosa mai avranno da temere l'Iran, o la Corea del Nord, o il Venezuela," ecc. ecc.? Perché, giusto cielo, ci odiano tanto, noi che siamo manifestamente lo standard della civiltà e cavalleria? Per approssimare una risposta può aiutarci soffermare un momento lo sguardo su alcuni dettagli.


Ad esempio.


Gli USA sono il paese al mondo maggiormente coinvolto in conflitti bellici nel corso della sua storia; e sono peraltro il paese con l'esercito di gran lunga più potente al mondo, spendendo da soli più della somma dei successivi 15 paesi più militarmente sviluppati al mondo (800 miliardi di dollari/anno per gli USA, contro i 293 della Cina, i 76 dell'India, i 65 della Russia, i 56 della Germania, ecc.; dati 2021). 


Gli USA hanno inoltre fomentato sistematicamente un'infinità di colpi di stato verso governi sgraditi (spesso vantandosene post hoc). E quando i regime changes non riescono in forma indiretta, nutrendo le proprie quinte colonne, si passa spesso allo stadio successivo, dell'intervento diretto. Il canone, divenuto oramai classico, del'interventismo americano è infatti rappresentato da un'operazione in due tempi: in prima istanza si alimentano e finanziano le proteste (sempre sedicenti "democratiche") all'interno del paese X; in seconda istanza si utilizza come giustificazione ad intervenire il fatto di essere "invocati dalla minoranza oppressa nel paese X".  Questo giochino, sempre spalleggiato dai media a gettone, è uno schema universalmente noto e discusso ovunque, tranne in Occidente.  Qui da noi i probi raddrizzator di torti, Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo sotto l'ascella, sono invece sempre sinceramente stupiti di come ovunque la giungla extraoccidentale pulluli di malvagi oppressori, e di oppressi desiderosi di essere liberati da noi. Se pensiamo che il segno distintivo del controllo militare imperialistico è la presenza di basi miltari al di fuori del proprio territorio, è utile ricordare che i paesi da noi descritti come proverbialmente aggressivi e guerrafondai (Russia, Cina, Iran, Corea del Nord) possiedono tutti assieme una manciata di basi militari extraterritoriali (6 la Russia, 4 la Cina, tutte in paesi loro prossimi). Gli USA da soli possiedono invece oltre 800 basi militari extraterritoriali, distribuite su tutti i continenti. 


Infine, come impeccabilmente documentato da Daniele Ganser (ne "Le guerre illegali della NATO"), dopo la caduta dell'URSS, la Nato, non si è limitata ad espandersi massivamente, in particolare verso Est, ma è intervenuta ripetutamente con iniziative di aggressione verso paesi terzi (iniziative non difensive, in violazione della funzione originaria dell'alleanza). Ed è per queste, e altre, ragioni che sarebbe utile smettere di continuare a scandalizzarci della pagliuzza nell'occhio altrui senza notare il trave nel nostro. Da occidentali spiace dirlo, ma nonostante il profluvio di autoassoluzioni hollywoodiane, da tempo agli occhi del resto del mondo gli USA appaiano come il bullo del quartiere e la Nato come la sua gang.


Andrea Zhok

lunedì 13 febbraio 2023

Berlusconi ha ragione

Ripeto: in questo Paese siamo maestri nella sacra arte di non discutere mai del focus di una questione. La polemica sulle parole pronunciate da Silvio Berlusconi è del tutto decentrata rispetto a ciò che, volutamente, stampa, media e la stessa politica fingono di non sia reale. Le accuse rivolte a Zelensky non sono quelle di una voce isolata nel deserto, di un anziano che ha smarrito una rotella, ma corrispondono al pensiero della maggioranza degli italiani, certificata non solo da ogni singolo sondaggio pubblicato da un anno a questa parte ma, paradossalmente, dalla stessa Giorgia Meloni la quale, nell'indifferenza dell'opinione pubblica ormai anestetizzata a qualsiasi forma di dolore, ha esplicitamente detto che la stessa opinione pubblica non è d'accordo con le scelte del Governo ma che lo stesso Governo ha deciso di non ascoltare l'opinione pubblica, tradendo difatti l'essenza stessa dell'idea di democrazia, poiché aiutare l'Ucraina è "giusto". Che sia giusto o meno e, soprattutto, che la modalità sia giusta o meno, siamo davanti alla maggioranza del Paese che dice A, mentre il Governo decide di fare B, dovendo ottemperare al giuramento di fedeltà verso il suo padrone. Insomma, disquisire sulle frasi pronunciate da Berlusconi equivale a preoccuparsi della porta che cigola, mentre l'intera casa va a fuoco Ed è indubbio che ci siamo talmente abituati a vivere avvolti nelle fiamme che domani, io giorno dopo e il giorno dopo ancora, avremo ancora tanto da dire su quel cigolio.


Giovy Novaro