MILANO — Il più piccolo dei bambini è scoppiato a piangere anche ieri. Fa sempre così, quando lei si allontana. «Non preoccuparti — gli ha detto — la mamma tornerà presto». Pantaloni neri e maglia scura, capelli castani raccolti a coda, occhi segnati dalle occhiaie. Giovanna M. ha 39 anni e dalle 9 di lunedì mattina sta ripassando, giorno dopo giorno, l’ultimo anno della sua vita: «Adesso capisco», ripete spesso agli investigatori, con cui ha passato alcune ore anche ieri. Tocca a lei, oggi, rileggere da capo il suo passato, dare riscontri sui contatti del suo compagno, sulle sue amicizie, i particolari della sua «conversione», i periodi passati fuori casa. Ora scopre che forse, quando non c’era, andava a rintanarsi in un appartamento per preparare bombe. Giovanna è una testimone nell’indagine che sta ricostruendo chi c’è intorno al kamikaze Mohamed Game. Ma lei sa anche che, quando tutto sarà finito, si ritroverà sola. Con quattro bambini. E un marito che ha perso gli occhi e una mano per portare la jihad nella caserma «Santa Barbara» di Milano. Ha risposto subito, quando le sirene dell’attentato gridavano ancora vicino casa sua, alla domanda su chi fossero gli amici di Mohamed: «L’idraulico, quello del terzo piano». È il più anziano della cellula, Mahmoud Kol, 52 anni, l’uomo che ha messo a disposizione il covo e che avrebbe accompagnato l’elettricista libico a farsi saltare in aria. Per l’antiterrorismo, erano due sconosciuti. Il terzo uomo, Mohamed Israfel, era stato invece controllato dalla Digos a luglio scorso, prima che si unisse al gruppo. S’era fatto notare per qualche frase un po’ troppo accesa, gli investigatori l’avevano tenuto d’occhio, avevano anche perquisito la sua casa, nello stesso stabile di via Gulli 1 dove è stato poi scoperto il laboratorio usato per costruire l’ordigno. Ma in quella casa non c’era nulla che lasciasse sospettare una deriva islamista. In quel momento non emergevano neppure legami fra i tre, la cellula di fatto non esisteva, non aveva dato segnali. Anche per questo, la donna che viveva con Game notava solo che «ogni tanto era un po’ nervoso, un po’ più chiuso». Abitavano in meno di 40 metri quadri, in una palazzina popolare vicina allo stadio di San Siro. Casa occupata dal 2003. Una stanzetta per i bambini. Un soggiorno con il divano letto e la Tv, una cucina minuscola. Senza bagno. Condizioni igieniche critiche. Ora qualcuno si chiede cosa significa vivere accanto a un aspirante kamikaze, e come sia possibile non accorgersene. Lei ha sempre vissuto alla giornata, lavorando da un paio di anziani per qualche ora a settimana, panni da stirare e pulizie. Annunci su internet per cercare lavoro. I bambini sotto tutela del Comune. Quando, lunedì mattina, le hanno detto che suo marito rischiava la vita, è rimasta immobile, con lo sguardo perso nel vuoto (ieri l’uomo, ancora in coma, non ha potuto rispondere al magistrato per la convalida dell’arresto). «Come è potuto arrivare a questo?», mormora Giovanna. Ora vive in una comunità protetta del Comune. Ha visto il suo compagno attaccarsi sempre più alla religione; rispettare per la prima volta nella sua vita i precetti del ramadan, lo scorso settembre. Lei era ai margini. Sopportava rassegnata. Game era molto attento a non farle sapere niente. A qualche amica, Giovanna ha confidato: «Pensava solo ai suoi figli». Come dire che lei non contava nulla. Da un anno Mohamed era anche prostrato dalla miseria e dai debiti, chiedeva aiuto. Simile, in questo, all’identikit dello shahid in Medio Oriente: senza lavoro, umiliato dalla povertà, si fa esplodere anche con la promessa di un aiuto economico per la famiglia. Morire da martire per l’islam. E lasciare qualcosa a chi resta.
Giuseppe Guastella Gianni Santucci
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