giovedì 15 ottobre 2009

Terrorismo islamico

L'attentato alla caserma «Santa Barbara». La moglie del kamikaze: «Ecco chi frequentava». Game in coma. La donna: era chiuso e nervoso. Uno dei suoi complici, fermati, era già stato controllato a luglio

MILANO — Il più piccolo dei bambini è scoppiato a piangere anche ieri. Fa sem­pre così, quando lei si allonta­na. «Non preoccuparti — gli ha detto — la mamma torne­rà presto». Pantaloni neri e maglia scura, capelli castani raccolti a coda, occhi segnati dalle occhiaie. Giovanna M. ha 39 anni e dalle 9 di lunedì mattina sta ripassando, gior­no dopo giorno, l’ultimo an­no della sua vita: «Adesso ca­pisco», ripete spesso agli inve­stigatori, con cui ha passato alcune ore anche ieri. Tocca a lei, oggi, rileggere da capo il suo passato, dare riscontri sui contatti del suo compagno, sulle sue amicizie, i particola­ri della sua «conversione», i periodi passati fuori casa. Ora scopre che forse, quando non c’era, andava a rintanarsi in un appartamento per prepara­re bombe. Giovanna è una te­stimone nell’indagine che sta ricostruendo chi c’è intorno al kamikaze Mohamed Game. Ma lei sa anche che, quando tutto sarà finito, si ritroverà sola. Con quattro bambini. E un marito che ha perso gli oc­chi e una mano per portare la jihad nella caserma «Santa Barbara» di Milano. Ha risposto subito, quando le sirene dell’attentato grida­vano ancora vicino casa sua, alla domanda su chi fossero gli amici di Mohamed: «L’idraulico, quello del terzo piano». È il più anziano della cellula, Mahmoud Kol, 52 an­ni, l’uomo che ha messo a di­sposizione il covo e che avreb­be accompagnato l’elettricista libico a farsi saltare in aria. Per l’antiterrorismo, erano due sconosciuti. Il terzo uo­mo, Mohamed Israfel, era sta­to invece controllato dalla Digos a luglio scorso, prima che si unisse al gruppo. S’era fatto notare per qualche frase un po’ troppo accesa, gli inve­stigatori l’avevano tenuto d’occhio, avevano anche per­quisito la sua casa, nello stes­so stabile di via Gulli 1 dove è stato poi scoperto il laborato­rio usato per costruire l’ordi­gno. Ma in quella casa non c’era nulla che lasciasse so­spettare una deriva islamista. In quel momento non emerge­vano neppure legami fra i tre, la cellula di fatto non esiste­va, non aveva dato segnali. Anche per questo, la donna che viveva con Game notava solo che «ogni tanto era un po’ nervoso, un po’ più chiu­so». Abitavano in meno di 40 metri quadri, in una palazzina popolare vicina allo stadio di San Siro. Casa occupata dal 2003. Una stanzetta per i bam­bini. Un soggiorno con il diva­no letto e la Tv, una cucina mi­nuscola. Senza bagno. Condi­zioni igieniche critiche. Ora qualcuno si chiede cosa signi­fica vivere accanto a un aspi­rante kamikaze, e come sia possibile non accorgersene. Lei ha sempre vissuto alla giornata, lavorando da un pa­io di anziani per qualche ora a settimana, panni da stirare e pulizie. Annunci su internet per cercare lavoro. I bambini sotto tutela del Comune. Quando, lunedì mattina, le hanno detto che suo marito ri­schiava la vita, è rimasta im­mobile, con lo sguardo perso nel vuoto (ieri l’uomo, ancora in coma, non ha potuto ri­spondere al magistrato per la convalida dell’arresto). «Come è potuto arrivare a questo?», mormora Giovan­na. Ora vive in una comunità protetta del Comune. Ha visto il suo compagno attaccarsi sempre più alla religione; ri­spettare per la prima volta nel­la sua vita i precetti del rama­dan, lo scorso settembre. Lei era ai margini. Sopportava ras­segnata. Game era molto at­tento a non farle sapere nien­te. A qualche amica, Giovan­na ha confidato: «Pensava so­lo ai suoi figli». Come dire che lei non contava nulla. Da un anno Mohamed era anche prostrato dalla miseria e dai debiti, chiedeva aiuto. Simile, in questo, all’identikit dello shahid in Medio Oriente: sen­za lavoro, umiliato dalla po­vertà, si fa esplodere anche con la promessa di un aiuto economico per la famiglia. Morire da martire per l’islam. E lasciare qualcosa a chi resta.

Giuseppe Guastella Gianni Santucci

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