martedì 30 novembre 2010

L'impeccabile governatore della puglia


Stanno cadendo una dopo l’altra, sotto la mannaia pur notoriamente non ostile alla sinistra della Corte Costituzionale, le "leggi spot" sulle quali Vendola ha giocato e vinto, non soltanto per merito suo, le elezioni. Dopo il nucleare e l’acqua, le assunzioni in Sanità. Eppure i principi richiamati dalla Suprema Corte sono assolutamente elementari anche per il meno quotato dei cultori del diritto, a dimostrazione che siamo di fronte o ad una fragorosa incompetenza, del tutto incompatibile con i generosissimi compensi erogati ai nostri super-dirigenti che andrebbero pertanto immediatamente rimossi con annesso addebito dei danni, o ad una concezione della Regione Puglia come una sorta di repubblichetta rossa autonoma, auto-abilitatatasi perfino a dotarsi di una Costituzione su misura, in funzione in realtà di uno straripante culto della personalità di un auto-referenziale demiurgo, già peraltro in fuga da una Regione alla quale rischia di dover dare, prima o poi, troppe imbarazzanti spiegazioni.

Né si tratta dei soli strafalcioni giuridici dell’era vendoliana. Si vedano le leggi tardo-comuniste contro la libertà d’impresa e di lavoro dell’ex-assessore Barbieri, anch’esse rivelatesi incostituzionali; quella sulle diossine, modificata alla chetichella dopo l’effetto-annunzio perché destinata alla stessa fine, nonché inapplicabile; quelle sulle cosiddette "internalizzazioni", in violazione del principio costituzionale dei pubblici concorsi per le pubbliche assunzioni, mentre non è stata ancora ritirata quella sulla "pubblicizzazione" di un’acqua già pacificamente pubblica, a sua volta in contraddizione non soltanto con le leggi nazionali, ma anche con ineludibili direttive comunitarie che quelle leggi altro non fanno che recepire, mentre le promesse gratuità cozzano con i conti in profondo rosso dell’ente e di una Regione che da mesi non è più in grado di pagare nessuno. Certamente utilissime per una campagna demagogica queste "leggi spot", ma del tutto improduttive di reali effetti sugli stessi interessi che fingono di tutelare.

Impedire, per esempio, il nucleare sul territorio pugliese non significa garantire le nostre popolazioni da incidenti che dovessero realizzarsi in una centrale vicina, così come l’Italia intera non è certamente al sicuro rispetto alle centrali d’Oltralpe. Con il trasferimento da cooperative a società pubbliche i lavoratori, per le normative vigenti su tali appalti, non guadagnano né salario né sicurezza del posto di lavoro, ma passano soltanto alle dipendenze dirette della politica. Con la trasformazione della natura giuridica dell’AQP non si migliorano i servizi idrici, ma se ne stabilizza –ancora- l’uso politico. In fondo a tutto questo ci sono soltanto nuovi sperperi, clientele e disservizi, inseguendo un’ideologia fallita che nel fondamentalismo pseudo-ambientalista ha anche individuato l’ultimo pretesto della sua guerra all’economia libera, mentre i veri problemi della Puglia, dai conti al lavoro alla Sanità, continuano a marcire. E se il Centro-destra pugliese si decidesse a sfidare un’apparente impopolarità a favore della verità, avrebbe alla lunga soltanto da guadagnare.

domenica 28 novembre 2010

I giovani Fli (fli)


MILANO - «Generazione Italia considera conclusa negativamente l'esperienza di questo governo che, come fosse un suo feudo personale, ha presieduto. I patti richiedevano l'immediata approvazione di una legge antitrust che eliminasse il monopolio di Mediaset e che favorisse il rinnovo strutturale della Rai restituendo ai media la loro libertà e democratica funzione per informare imparzialmente ed obiettivamente l'opinione pubblica. I patti richiedevano la netta separazione tra gli interessi personali dal Capo del Governo e la sua funzione di altissimo Pubblico Ufficiale». È l'incipit della «Lettera di sfiducia» pubblicata da Generazione Italia, il movimento che fa capo a Futuro e Libertà.

IL RICHIAMO - «Lei in campagna elettorale - si legge ancora nella lettera - ha promesso di risolvere il secolare problema meridionale, di garantire la pace sociale, di sostenere la piccola e media impresa, di eliminare la partitocrazia e lo Stato padrone; di fare dell'Italia un grande paese ad ispirazione liberal-democratica. Il suo Governo ha inteso la governabilità come fine a se stessa, il potere per il potere, la governabilità per la governabilità - proseguono i finiani - un Governo non intenzionato ai cambiamenti, un Governo dei conflitti con la magistratura e con il sindacato, un governo del controllo dell'informazione. Nella nostra alleanza - scrive ancora Generazione Italia - c'è chi ci accusa addirittura di sovvertire lo Stato di diritto perchè chiediamo una verifica, falsificando la verità e dichiarando che questo Governo non sarebbe il frutto, come nel passato, di una contrattazione post elettorale, bensì, sarebbe la conseguenza di un patto preventivo stipulato davanti agli elettori. E quindi solo a Berlusconi - prosegue la dura requisitoria di generazione Italia - se è vera la premessa, competerebbe concedere la verifica e implicitamente mantenere o sciogliere le Camere. È una tesi che lede i poteri costituzionali del Presidente della Repubblica e lascia trasparire il ritorno nella politica di dogmi antiliberali. Onorevole Presidente, lo Stato non è lei. E dopo di lei non c'è il diluvio. Le chiedo con quali diritti Lei batta i pugni sul tavolo dichiarando la sua insostituibilità? Con quali diritti Lei pretenda di interpretare personalmente la Costituzione tuttora in atto? Onorevole Presidente, Lei non è l'uomo della provvidenza, tutt'altro. L'Italia è una Repubblica democratica, in cui il Parlamento elegge e fa cadere i Governi, valutando i meriti e i demeriti di chi presiede o fa parte del Governo - conclude il mesaggio - il tradimento è solo quello di chi, ad un Paese disperatamente alla ricerca di un patto costituente, contrappone voglia di potere e minacce di tumulti di piazza».

La lettera è uno scherzo: Governo: Fli, lettera e' 'scherzo'. Contro accuse tradimento, usato parole sfiducia Bossi del '94

ROMA, 28 NOV - La lettera di sfiducia al governo pubblicata online e firmata Generazione Italia era uno scherzo, svela Fli. 'Con le stesse parole che abbiamo riportato,il 21 dicembre '94, Bossi annunciava la sfiducia a Berlusconi dopo pochi mesi dalla vittoria' alle urne, scrive Fli in una nota. Abbiamo 'usato il discorso dell'allora on. Bossi anche per replicare alle accuse di tradimento da parte di Pdl e Lega: chi ha replicato al nostro 'scherzo' con parole al vetriolo, dovrebbe pensare prima di ragliare'.

Manie di protagonismo


Salvate il soldato Nichi. Salvatelo dalla gi­randola di aerei su cui salta in queste settima­ne. Dal turbine di interviste che rilascia. Dal­la quantità di videomessaggi che lancia nel vasto mare di internet. Dalle innumerevoli comparsate televisive. Salvate il soldato Ven­dola e dategli un po' di tregua nella sua Puglia che lo piange e lo invoca: presidente, quando trovi il tempo di dedicarti anche a noi tra un appuntamento e l'altro della tua campagna elettorale? Il leader di Sinistra ecologia e libertà è in pieno fer­mento. Scommette sul vo­to imminente e si danna co­me un forsennato per incol­lare i mille cocci della sini­stra radicale. La sua agen­da trabocca, le sue Fabbri­che stantuffano a tutto va­pore, il suo movimentismo s’irrobustisce. Da Milano a Roma, da Bologna a San Francisco, dalle telecame­re della «7» a quelle di «SkyTg24» l'avversario più temibile di Pierluigi Bersa­ni è instancabilmente al la­voro per ricostruire «l'Italia migliore». Che «in questi giorni è in piazza e sui tet­ti». Dunque, è fatta di gatti. E la Puglia, la regione che l'ha eletto governatore e gli frutta una busta paga men­sile di 14mila euro? Nei rita­gli di tempo, come dimo­stra l'intensissimo mese che sta per chiudersi. Metà delle sue giornate sono tra­scorse lontano da Bari, do­ve si ferma un giorno sì e uno no. Il tour d e force è c o­minciato presto: venerdì 5 era a Torino per una serie di appuntamenti tra cui l'in­contro con i ragazzi della Fabbrica di Nichi e un di­battito con il governatore Roberto Cota e il giornali­sta Bill Emmott. Il giorno dopo l'ha dedicato alla Lombardia, «la regione con le maggiori infiltrazio­ni criminali» come h a detto dopo averlo appreso da Ro­berto Saviano: Varese, Lim­biate e grande serata al tea­tro Dal Verme di Milano per sostenere la corsa alle primarie di Giuliano Pisa­pia. La sua vittoria, la setti­mana successiva, è stato un successo anche di Ven­dola.

Lunedì 8 Nichi era di nuo­vo in una Milano «sporca, chiusa, inefficiente e inde­gna dell'Expo». Non si trat­tava di impegni legati alla guida della Puglia, ma di partecipare alla prima pun­tata di «Vieni via con me» per leggere l'elenco degli epiteti riservati ai gay. Po­chi giorni d i tregua e sabato Vendola si è imbarcato per gli Stati Uniti accompagna­to da una corte di giornali­sti, amici e familiari, come hanno denunciato rappre­sentanti dell'opposizione. Ha percorso gli Usa da ovest a est: prima tappa la California per il Governors Global Climate Summit, du­rante il quale ha incontrato l'ex governatore Arnold Schwarzenegger, quindi Washington e New York. Le­zioni all'università, incon­tri con politici e diplomati­ci, serate con i pugliesi d'ol­treoceano, ma anche inter­viste, commenti e perfino una videolettera ai precari. Al ritorno in patria lo at­tendeva un'intensa giorna­ta con il presidente dell'eu­rogruppo Alleanza progres­sista, Martin Schulz, scar­rozzato per tutta la Puglia. Il martedì una puntatina a Taranto per un convegno con Emma Marcegaglia mentre mercoledì 24 è scat­tata una corsa a tappe non ancora conclusa: Roma, per un'audizione parla­mentare, l'incontro Stato­regioni e la scalata sul tetto dell'università; poi Bolo­gna, per l'appoggio alla can­didatura alle primarie di Amelia Frascaroli e u n con­vegno sul welfare; quindi Milano, per essere intervi­stato in diretta da Daria Bi­gnardi alle «Invasioni bar­bariche» su La7; infine di nuovo Roma, per la manife­stazione della Cgil e un in­contro con il ministro degli Esteri del Nicaragua. I rari momenti lasciati li­beri da un calendario così gravoso sono stati riempiti da interviste a giornali o tv: Unità, il Fatto, Repubblica (su carta e in tv), Maria La­tella su Sky ed Enrico Men­tana su La7, perfino la rivi­sta Rolling Stones, oltre al­la stampa locale e ai giorna­li per gli italoamericani du­rante il viaggio negli States. Ha registrato videomessag­gi contro Berlusconi (per la battuta sulle ragazze e i gay), in difesa dei lavorato­ri dello spettacolo in agita­zione e in appoggio dei suoi 300mila fan su Face­book; ha presentato l'ulti­mo libro di Fausto Bertinot­ti; si è congratulato con la nuova presidente del Brasi­le, la dissidente birmana San Suu Kyi e la neosegreta­ria Cgil Susanna Camusso; ha spedito sacchetti d'ac­qua potabile agli alluviona­ti; ha censurato «la guerra per bande del Pdl in Campa­nia», la telefonata del pre­mier a Ballarò, la «controri­forma Gelmini» e il «federa­lismo differenziato». Con gli ultimi scampoli di fiato, ha scritto a Berlu­sconi chiedendo soldi per la sanità pugliese, ha pro­messo un piano regionale per il lavoro ed esaltato la sua terra come prima in Ita­lia nella produzione di energia rinnovabile. Giu­sto per non dimenticarsi del proprio collegio eletto­rale.  

Svizzera e crimini


La Svizzera è, con il 22%, il Paese europeo con la più alta percentuale di stranieri. È perciò quasi fisiologico che la Confederazione, dove molte leggi si adottano a mezzo referendum, sia spesso all’avanguardia nell’affrontare i problemi che la massiccia immigrazione degli ultimi tre decenni sta ponendo a un’Europa afflitta da crisi economica ed elevata disoccupazione. L’anno scorso, gli svizzeri bloccarono, con una maggioranza del 57%, la costruzione di minareti, traducendo per primi in un provvedimento «politicamente scorretto» la diffusa insofferenza verso gli islamici. Oggi, sono chiamati alle urne su una proposta ancora più controversa, sostenuta dal conservatore Partito del Popolo (SVP), che se approvata, costituirebbe una autentica svolta nell’approccio dei Paesi europei verso la criminalità «di importazione»: essa prevede, una volta espiata la pena, la revoca del permesso di soggiorno e la immediata espulsione per tutti gli stranieri - compresi quelli nati e cresciuti in Svizzera e perfettamente integrati - che si rendano colpevoli non solo di reati violenti come l’omicidio, la violenza carnale e la tratta di esseri umani, ma anche di rapina, furto con scasso e traffico di stupefacenti e perfino di godimento abusivo dei servizi sociali. Dal momento che l’anno scorso il 60 per cento degli assassini e il 57% dei furti sono stati commessi da stranieri, è facile capire perché la proposta abbia riscosso grande favore presso la popolazione, soprattutto nei cantoni di lingua tedesca.

Gli altri partiti, a loro volta consci del problema ma contrari a misure così estreme, sono corsi ai ripari presentando una proposta alternativa, che contempla egualmente la espulsione dei criminali, ma con criteri meno automatici e soprattutto più rispettosi dei diritti umani. Oggi gli elettori saranno chiamati a scegliere tra le due soluzioni, o (ma è una eventualità considerata estremamente improbabile) a respingerle entrambe. Le previsioni sono per un’alta affluenza alle urne e una vittoria di misura della proposta del Partito del Popolo, che alle ultime legislative ha ottenuto circa un terzo dei voti.

Comunque vada, il referendum odierno rappresenta uno spartiacque per quanto concerne il trattamento degli stranieri che delinquono in Europa. La soluzione adottata dalla Svizzera diventerà senza dubbio un punto di riferimento per tutti i partiti del continente che hanno fatto del contrasto all’immigrazione il loro cavallo di battaglia e che recentemente hanno aumentato i loro consensi elettorali, entrando per la prima volta in Parlamento in Svezia e addirittura in maggioranza in Olanda. Ma, soprattutto, farà apparire come misure all’acqua di rose la cacciata dalla Francia dei rom che hanno infranto la legge e, in Italia, il respingimento dei clandestini e il decreto che prevede la espulsione dei cittadini comunitari che, dopo tre mesi, non abbiano casa e lavoro regolari e vivano a carico dei servizi sociali.

Si può essere d’accordo o meno con la proposta dell’SVP, che certamente, nel suo rigore, non è priva di connotati xenofobi e discriminatori, soprattutto per l’inclusione nella lista di reati tutto sommato minori. Comunque, essa fornisce ai Paesi europei ampia materia di riflessione: è la prova che, se la presenza di stranieri, e soprattutto di stranieri difficilmente assimilabili che tendono a violare la legge supera una certa soglia, la reazione diventa molto forte. Il caso della Svizzera è, sotto certi aspetti, diverso da quello dei Paesi UE, perché vi sono considerati stranieri anche i cittadini comunitari e ottenere la cittadinanza è difficile. La sua percentuale del 22 per cento non è perciò raffrontabile a quella dell’Italia, della Francia o della Germania. Ma, tenuto conto che le nostre sono in costante aumento, il giorno in cui anche noi dovremo trovare soluzioni nuove non è lontano.

Islamicamente corretto


Io lo so come si sente la Barbie «con colori e abiti unici» realizzata da Eliana Lorena cui, sfortunata, in mostra alla libreria etnica Azalai di Milano con altre Barbie in abiti moderni, kimono, chador, sari.. è invece capitato il burqa. Lo so perché è stato descritto molte volte come si sente una donna che indossa un burqa, e forse sarebbe l’ora di smettere di farci sopra gli spiritosi. Per esempio Khaled Hosseini autore di L’aquilone e di Mille splendidi soli racconta: «Mariam non aveva mai indossato il burqa, Rashid dovette aiutarla.. il pesante copricato imbottito le stringeva la testa. Era strano vedere il mondo attraverso una grata... la innervosiva non poter vedere di lato e si sentiva soffocare dal tessuto che le copriva la bocca...». Molte altre persone esperte, fra cui da noi la deputata Suad Sbai, hanno spiegato molte volte che in quella prigione si entra in una depressione clinica e in una patologica confusione mentale, si diviene facile preda di molte malattie della vista, dell’udito, dell’equilibrio e che quindi è necessario vietare il burqa per legge.

Il burqa non ammette leziosaggini, ma solo una decisa battaglia per eliminarlo dalla società in cui la donna ha combattuto per secoli per essere libera, la nostra: già l’anno scorso, in occasione dei cinquant’anni della bambola Barbie da festeggiarsi in modo politically correct, la pupa internazionale dalle lunghissime, instabili gambette, è stata infagottata variamente in modo multietnico, e messa in mostra; l’artista, Loredana Castelli ha spiegato che questo avvolgere la donna-Barbie in panni e colori diversi non fa che denunciarne la identica mercificazione corporea. Sotto il nero morte del burqa come sotto la minigonna rosa originaria di Barbie. Così è anche per il sari e il costume da geisha. Mi dispiace, non è vero. Il sari e il costume ci riportano a parecchi guai femminili, e noi abbiamo i nostri, ma ci piace graduarli a seconda della nostra libertà di sceglierceli. Il burqa è invece la proibizione, più o meno interiorizzata non importa, del diritto della donna ad avere un corpo, ad avere la sua libertà.

Fu proprio questo lo scandalo originario di Barbie, quello di abbandonare la mimesi infantile della porcellane, il legno, la plastica pesante, i materiali delle bambole di un tempo. Erano più belle? Forse, ma Barbie fu come un fuoco. Fu scandalo, fu rivoluzione, fu anche un’idea massificata dell’emancipazione, buona per le principesse e le contadine, per le ragazze bene e le impiegate. Proprio come Mac Donald: doveva la plebe della periferia romana sciamare in Piazza di Spagna occupandola per quel cibo da poche lire, gustoso magari, ma così volgare? Barbie fu il segnale della libertà per le bambine di immaginarsi slanciate, bellissime, fidanzate con Ken, in sintonia con la tv che da poco occupava l’etere e la fantasia. Non posso dimenticare la faccia di un amico quando regalai un Barbie a sua figlia: era schifato; ma la ragazzina, felice. Era la felicità della modernità e della libertà con la sua confusione, magari.

Ma il burqa non c’entra. Perché se vai a cercare il burqa, là troppo spesso troverai violenza abituale contro le donne, delitto d’onore, poligamia, antisemitismo, odio per i cristiani, per gli indu, per gli americani e parecchi altri infedeli. Nei burqa sono state alle volte trovate armi che i terroristi travestiti speravano che le guardie non avrebbero avuto il coraggio di cercare. Non amo discutere le prese di posizione del Papa perché non sono cattolica, ma rispettosamente non credo, come ha affermato, che se una donna sceglie di indossare il burqa allora le sia lecito farlo. La paura, la minaccia, il conformismo, il bisogno e anche il fanatismo troppo spesso ci trasportano sulle loro ali di pipistrello. Una donna può diventare il manifesto estremista della sua famiglia, di suo padre di suo fratello, del suo clan.

Moltissimi musulmani sono contro il burqa e persino il niqab (il velo sul viso), e approvano la scelta della Francia e del Belgio di bandirli per legge. Del resto persino il gran maestro islamico sunnita, lo sceicco dell’università di Al Azhar Muhammad Sayyd Tantawi, a ottobre proibì alle studentesse di portare sia l’uno che l’altro, permettendo semmai un fazzoletto in testa, il hijab. Donne afghane, iraniane, egiziane, irachene, di Gaza, della Turchia, del Marocco, hanno chiesto alle loro compatriote con pubblici appelli di respingere l’umiliazione e la violenza che il burqa e il niqab portano con sé. E noi che facciamo? Giuochiamo con le bambole?

venerdì 26 novembre 2010

Fli


Il giornalista e militante nelle file dell’antifascismo liberale Ernesto Rossi, figura eminente del Partito d’Azione prima e di quello Radicale poi, coniò la brillante definizione di “Padroni del vapore” in un suo famoso pamphlet omonimo scritto negli anni ’50. I padroni del vapore messi sotto accusa da Rossi erano tutti i grandi industriali che avevano favorito il regime mussoliniano e avevano fatto grossi affari nel corso del Ventennio. Se dunque la borghesia italiana e la grande impresa appoggiarono per questioni di interesse l’ex socialista rivoluzionario Mussolini divenuto dittatore fascista, quali sono invece i gruppi industriali ed i poteri più o meno forti corsi in aiuto di Gianfranco Fini, l’ex fascista che ha lanciato un’Opa sul centrodestra ammiccando alla sinistra? È indubbio che esista un “blocco sociale” che simpatizza per il leader di Futuro e Libertà, ne finanzia le iniziative, si dichiara pronto a votarlo e, talvolta, milita al suo fianco. Non certo suoi padroni, ma almeno padrini.

Per rimanere sull’argomento vapore, o meglio gas naturale, salta subito agli occhi un dato significativo: sul sito di Generazione Italia, il movimento nato la scorsa primavera per iniziativa di Italo Bocchino a sostegno di Fini, fa bella mostra di sé un annuncio pubblicitario della Sorgenia, operatore privato nel campo dell’energia elettrica e, appunto, del gas. È però noto che la Sorgenia fa parte del gruppo Cir, quello controllato da Carlo De Benedetti, meglio noto come presidente del Gruppo Editoriale l’Espresso. Non è quindi troppo strana la sponsorizzazione fatta da la Repubblica a favore del Presidente della Camera; soprattutto se si considera il fatto che abbia preso il largo dopo le prime rotture con il Pdl volute da Fini. Il quotidiano diretto ora da Ezio Mauro non è certo nuovo ad interventi decisi nel campo politico, soprattutto quando si tratta di tutelare gli interessi della famiglia o vendicare i torti subiti. Qualcuno ricorderà che la campagna contro Bettino Craxi si scatenò dopo che il governo da lui presieduto mise i bastoni fra le ruote a De Benedetti nell’acquisto della Sme messa in svendita da Prodi. Stesso copione fu quello con Berlusconi, in seguito alla tenzone per la conquista del gruppo Mondadori. È bene tenere conto di questi particolari leggendo e rileggendo i chilometrici editoriali di “Barbapapà” Scalfari che hanno suggerito a Fini il tentativo di detronizzazione. In fondo il nuovo vapore, ovvero il nucleo forte dell’industria postmoderna e postfordista, è la comunicazione.

Oltre a Repubblica, un altro giornale (un altro importante gruppo editoriale) tratta con molti riguardi l’uomo che neanche vent’anni fa proponeva il “fascismo del 2000”: il Corriere della Sera (gruppo Rcs) diretto da Paolo Mieli. Dimostrazione più lampante di questa comunione di interessi è il marchio Rizzoli impresso sul libro che da un anno a questa parte funge da manifesto finiano: “Il futuro della libertà”. Non è questa la sede per dilungarsi sulla superficialità dell’opera e sul suo carattere untuosamente bipartisan (per capirci, non ci si stupirebbe se fosse firmato da Walter Veltroni invece che da Fini). Ma è interessante notare che le precedenti opere dell’ex segretario di An furono pubblicate da case editrici meno prestigiose e distribuite.

“Un’Italia civile”, in realtà una lunga intervista fatta da Marcello Staglieno nel 1999 (molto utile da rileggere per prendere nota delle tante giravolte finiane su presidenzialismo, immigrazione, bioetica, rapporti con l’alleato di Arcore) fu edito dalla fiorentina Ponte delle Grazie. La seconda opera, “L’Europa che verrà”, (altra chiacchierata, questa volta con Carlo Fusi de Il Messaggero) uscì nel 2003 per ripercorrere l’avventura finiana nella Convenzione Europea (non troppo entusiasmante, per la verità) arrivò nelle librerie grazie a Fazi editore, marchio reso celebre più che altro dal best seller soft porno di Melissa P. Il libro sulla campagna europea era, tra l’altro, prefato da Giuliano Amato; quest’ultimo, resosi conto che Fini aveva fatto sua “la migliore cultura democratica, a partire da Norberto Bobbio”, lo accompagnò, mano sulla spalla, nei salotti buoni dell’eurocrazia. Così Fini passò dal dare del tu a Jean-Marie Le Pen al permetterselo con Chirac ed Aznar. Altri meno noti simpatizzanti di Futuro e Libertà si trovano nel gruppo bancario Intesa-San Paolo, in Confagricoltura e Confindustria. Soprattutto nel campo agri-alimentare: se si vocifera un interessamento da parte di Gian Domenico Auricchio (quello del provolone piccante), è manifesta la militanza di Francesco Divella (industriale della pasta). Nonostante l’omonimia, non risulta nella lista degli amici l’imprenditore dei tortellini Fini.

Fra chi presta la propria opera nel settore pubblico o a partecipazione statale rispondono all’appello finiano Pierluigi Scibetta (consigliere dell’Eni), Ferruccio Ferranti (amministratore delegato del Poligrafico della Stato) ed Emilio Cremona (della Gse, azienda che si occupa di servizi energetici controllati dal Ministero del Tesoro): tutti e tre sono membri del comitato esecutivo di Fare Futuro, la fondazione culturale presieduta da Fini “a tempo indeterminato” (così dice lo statuto).Per rimanere nel campo delle fondazioni, è bene ricordare che anche quella voluta da Luca Cordero di Montezemolo (“Italia futura”) ha riservato un posto nel comitato promotore ad Angelo Mellone, giornalista, dirigente Rai e ad altro intellettuale di punta in Fare Futuro. D’altronde non è un mistero che Montezemolo e Fini si guardino da un po’ con reciproco interesse, in dolce attesa del terzo polo. Siamo pur sempre in democrazia e quindi non possiamo tralasciare l’elettorato. Quale blocco sociale è pronto a votare Futuro e Libertà? Da recenti sondaggi emerge che i possibili elettori si definiscono ancora di destra, sono giovani e pensionati (insomma, le categorie non ancora o non più produttive) e soprattutto donne. Che Fini piaccia alle signore, in effetti, è stato rivelato da un altro sondaggio, lanciato la scorsa estate dal sito di incontri extraconiugali clandestini Gleeden. L’ex alleato di Berlusconi è risultato il più votato fra gli uomini politici con i quali si tradirebbe volentieri il marito.

giovedì 25 novembre 2010

La (s)lealtà coniglia dei finiani


Roma - Nuova sconfitta per governo e maggioranza alla Camera nelle votazioni sulla riforma dell’Università. E' stato approvato un emendamento presentato da Fli, a prima firma Granata. Ma il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, non ci sta e avverte: "Se il ddl dovesse essere stravolto, sono anche pronta a ritirarlo". Il dibattito sul ddl ripartirà martedì con il provvedimento su "parentopoli", al quale il governo e Commissione hanno dato parere positivo per evitare episodi di nepotismo poco trasparenti all’interno degli atenei.

Il governo battuto alla Camera. Con 282 voti a favore di opposizioni e finiani, tre astensioni e 261 da Lega e Pdl. Il governo aveva dato parere contrario. Il risultato della votazione di Montecitorio è stato accolto con un boato dai deputati dell’opposizione. Poco dopo si sono creati due capannelli. Il primo nei banchi del Fli con Italo Bocchino, Fabio Granata e Benedetto Della Vedova che studiavano il fascicolo degli emendamenti: ad essi si è stranamente aggiunta la radicale eletta nel Pd Elisabetta Zamparutti, anche lei con in mano il fascicolo degli emendamenti. L’altro, accanto al banco dei Nove, con la presidente della commissione Cultura Valentina Aprea ed i colleghi del Pdl Marco Milanese e Guido Crosetto. Sola al banco del governo il ministro Gelmini: soltanto il capogruppo della Lega Marco Reguzzoni, che ieri avrebbe voluto la seduta notturna per accelerare i tempi dell’esame, le si è avvicinato a parlarle dopo il voto.

L'avvertimento della Gelmini. "Questa mattina è stato approvato un emendamento di scarso rilievo", ha ribattuto il ministro dell'Istruzione. "Finché Fli su un emendamento non particolarmente significativo marca una differenza questo rientra nella tecnica parlamentare e non entro nel merito", ha puntualizzato la Gelmini augurandosi che "non accada che vengano votati emendamenti il cui contenuto stravolga il senso della riforma, non sarebbe accettabile, se così fosse come ministro mi vedrei costretta a ritirarla".

Alfano: "Da Fli prove di sfiducia". "L’emendamento non influisce sull’impianto del ddl università - ha chiarito il ministro della Giustizia, Angelino Alfano - ma è un segnale per dimostrare che i finiani sono indispensabili". Secondo il Guardasigilli, però, il giorno del voto della sfiducia "ci sarà un vincitore e uno sconfitto e il gioco delle parti terminerà." "Il meccanismo è questo - ha spiegato Alfano - una o due volte al giorno bisogna far andare sotto il Governo per dimostrare che Fli è indispensabile. E' tutta una recita per preparare il voto del 14 dicembre. Ma il 14 qualcuno vincerà e qualcuno perderà e tutta queste parti del copione verranno cancellate".

Tutti sui tetti


Dopo Bersani pure Vendola e Fli sul tetto dell'ateneo

Roma - Bersani ha fatto scuola. O meglio: ha dettato una moda. Oggi è, infatti, toccato a Nichi Vendola di salire sul tetto della facoltà di Architettura a piazza Fontanella Borghese, occupata da due giorni da studenti e ricercatori. "Li ho trovati bene, qui c’è aria pulita, giù è troppo inquinato", ha commentato ironicamente il governatore della Puglia al microfono di Radio Città Futura. Poi, su invito di Venditti, arrivano anche i finiani che non si fanno mancare la passeggiata.

Le accuse di Vendola al governo. "Questa battaglia viene rappresentata come l’espressione di una volontà rivoltosa di una minoranza faziosa e ideologizzata che sarebbe al servizio dei 'baroni' dell’università - ha proseguito Vendola - ma è una rappresentazione paradossale: la riforma Gelmini è una riforma reazionaria che colpisce al cuore il sistema pubblico dell’alta formazione e toglie all’università l’ossigeno fondamentale per vivere". "Bisognerebbe decuplicare gli investimenti in ricerca e formazione e invece si taglia completamente il rapporto col futuro", ha concluso il leader di Sinistra e Libertà.

Sul tetto anche Venditti. Sul tetto della facoltà anche il cantautore Antonello Venditti: "Mi sento parte in causa - ha spiegato a Radio Città Futura - la lotta della cultura è una lotta per la dignità ed è una lotta globale, di tutti". "Democrazia vuol dire partecipazione - ha concluso Venditti - il governo vuole dividere, mettere del cemento tra le varie proteste di ricercatori, artisti, operai, mentre dobbiamo unirci, ragionare insieme, darci un modello".

Pure i finiani a spasso tra i tetti. Anche una delegazione di deputati di Futuro e libertà è salita sul tetto della sede di Fontanella Borghese della facolta di Architettura della Sapienza. A rispondere all’invito del cantautore Antonello Venditti, i parlamentari Benedetto Della Vedova, Flavia Perina, Fabio Granata e Chiara Moroni. "Abbiamo accettato l’invito di Venditti - ha spiegato la Moroni all’Adnkronos - per marcare la differenza tra chi condanna la protesta e chi crede invece che le richieste di studenti e professori vadano ascoltate". "Riteniamo opportuno - ha, quindi, concluso la Moroni - ascoltare le loro richieste e vogliamo spiegare la battaglia che Fli ha portato avanti sulla riforma universitaria".

mercoledì 24 novembre 2010

Il sigaro di Bersani


E’ un Bersani “shock and wave” quello degli ultimi giorni. Giovedì scorso il segretario del Pd piomba in Consiglio dei Ministri e prova a lanciare un salvagente al governo sulla infinita questione dell’immondizia napoletana. “Ho sentito in coscienza il dovere di salire le scale di Palazzo Chigi per dire una cosa sui rifiuti – spiega conciliante – E l’ho detta attraverso il ministro Maroni che ha avuto la bontà di uscire dal Cdm e di ascoltarmi”. Un quarto d’ora di dialogo, dunque. Stamattina studenti e ricercatori salgono sul tetto della Facoltà di Architettura a Roma ed ecco che, tutto a un tratto, novello epigono dei Beatles, in cima a una scala spunta il solito Bersani col toscano penzolante dalla bocca. “Le riforme senza popolo non si fanno – dice contrariato dalla riforma Gelmini – questo ddl è un disastro omeopatico, smantella l’università pezzo per pezzo”. Poco più di un mese fa, il 14 ottobre, il segretario del Pd aveva preferito non incontrare gli studenti riuniti davanti a Montecitorio, forse temendo delle contestazioni. Così Bersani una volta si preoccupa di stare per strada a fianco degli studenti, un’altra volta diventa protagonista assoluto di questa protesta. Un giorno oscilla a sinistra nella speranza di contenere il dilagante Vendola, il giorno appresso pende verso il centro con l’obiettivo di non alienarsi Casini. Insomma Bersani incarna alla perfezione cosa vuol dire essere un (confuso) leader della sinistra italiana. Un futuro premier di lotta e di governo. Un po’ Jekyll un po’ Hyde.

Campania


La più bella battuta di «Vieni via con me» non appartiene a Corrado Guzzanti ma a Roberto Saviano: «Vado via perché quelli di sinistra dicono che sono di destra e quelli di destra che sono di sinistra». Per l’ennesima volta, infatti, l’autore di Gomorra s’è dimostrato per quello che è: dichiaratamente di parte, Fazio-so, omertoso sulle malefatte del Pd. Dopo aver parlato dei nemici di Falcone (evitando di dire che erano a sinistra), e dopo aver detto che la ‘ndrangheta flirta con la Lega (scordandosi delle inchieste sulle cosche calabresi in Lombardia con esponenti del Pd coinvolti), nel concedere il tris in tv Saviano non s’è smentito parlando di rifiuti e di inchieste politiche: gli unici riferimenti sono stati per il centrodestra, con l’immancabile Cosentino. E sul centrosinistra? Niente. Solo un vago, vaghissimo accenno, riferito però all’incapacità politica delle istituzioni napoletane di risolvere l’emergenza rifiuti. Le cose, però, ancora una volta non stanno come ce le racconta il TelePredicatore casalese. L’8 novembre scorso l’ex governatore della Campania del Pd, Antonio Bassolino, finisce sotto inchiesta, insieme al sindaco collega di partito Rosa Russo Iervolino (più 36 persone) per epidemia colposa e omissione d’atti d’ufficio. Secondo gli esperti epidemiologi nominati dal pm, fra il novembre 2007 e il gennaio 2008, quando i rifiuti impedivano l’accesso in strada, le malattie gastrointestinali e della pelle si sono infatti moltiplicate. Bassolino, nella veste di commissario straordinario per l’emergenza rifiuti, è poi sotto processo dal 2008 per truffa aggravata ai danni dello Stato e frodi in pubbliche forniture insieme ad altre 27 persone. Dal marzo scorso sempre l’ex governatore è alla sbarra anche per peculato perché, secondo i pm partenopei, i vertici del commissariato ai rifiuti da lui presieduto avrebbero erogato indebitamente somme di denaro a un avvocato. Sul punto Giuseppe Fusco, legale di Bassolino, precisa al Giornale che «in realtà il rinvio a giudizio è stato annullato dal tribunale per un vizio di forma e ora siamo in attesa della nuova decisione del gip (...)». Saviano dovrebbe sapere che anche il presidente della Provincia di Benevento, Aniello Cimitile, Pd, è indagato per roba di monnezza: quale docente e membro della commissione collaudo viene arrestato (e posto ai domiciliari) il 3 giungo con alcuni collaudatori degli impianti di stoccaggio. Secondo l’accusa fu attestata sia l’idoneità degli impianti quando questi erano sotto sequestro, che la conformità del prodotto del combustibile da rifiuti a un contratto che in realtà non esisteva.

C’è poi l’inchiesta «Normandia 1» dove spunta il consigliere regionale Pd Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno. Il suo nome lo fa ai magistrati il pentito casalese Emilio Di Caterino, nome che a Saviano dovrebbe dire qualcosa. È stato il collaborante a spedire a Fabozzi una testa di maiale mozzata «perché il clan Bidognetti – ha riferito - voleva incontrare il sindaco per alcuni appalti (...). Il sindaco però fece sapere di essere disponibile per le richieste ma di non voler incontrare nessuno (...). Questa risposta dette fastidio al clan che decise (...) di spedire la testa di suino al sindaco (...). Dopo l’avvertimento Fabozzi immediatamente si mobilitò (...) e fece sapere che anche in relazione ai successivi appalti sarebbe stato a disposizione del clan Bidognetti». Fabozzi nega tutto e si autosospende. Nel luglio scorso, invece, in una maxi inchiesta sulla sanità pugliese i pm ammanettano dirigenti Asl e imprenditori. Punto centrale dell’indagine sono tre appalti sui rifiuti presumibilmente pilotati: tutto ruota intorno alla figura di Alberto Tedesco, ex assessore pugliese alla Sanità già indagato eppoi promosso senatore del Pd. La procura di Bari aveva chiesto l’arresto anche di Elio Rubino e Mario Malcangi, genero e braccio destro di Tedesco. Rifiuti, politica, inchieste. Perché una persona che a sinistra dicono essere di destra (e viceversa) si è dedicato solo ed esclusivamente a Nicola Cosentino?

L'ennesimo fancazzista, ovvero l'alternativa a Berlusconi (2)

L'italia in effetti (insieme a Rutelli, Fini e Casini e i vari galli di centrosinistra), aveva proprio bisogno di uno come lui. E non vedevamo l'ora che finalmente uscisse allo scoperto. Ora, grazie a lui l'italia si salverà da Berlusconi


MILANO - «Basta con i superuomini». Affondo di Luca Cordero di Montezemolo contro il governo guidato da Silvio Berlusconi che era stato critico nei suoi confronti. Presentando il rapporto sull'occupazione giovanile organizzato dalla sua fondazione ItaliaFutura, il presidente della Ferrari ha detto che «il periodo dell'"one man show" è finito: questo vale in qualsiasi azienda, come nella società civile», perchè, ha aggiunto rispolverando uno slogan caro alla sua esperienza in Confindustria, «è il momento di fare squadra». Secondo Montezemolo, serve infatti discontinuità con il passato: «Non è possibile andare avanti così, non accettiamo che la cosa pubblica sia considerata cosa privata dalla politica». In questa fase, aggiunge, «sento il dovere di fare qualcosa per il paese a cui appartengo, è il momento di uscire dal recinto». Il presidente di ItaliaFutura evidenzia anche che «quello di imprenditore e di politico sono due mestieri diversi» e che «il fattore comune deve essere la società civile».

RICOSTRUZIONE CORALE - Montezemolo ha poi precisato che con l’espressione ’one man show’ si è riferito ad un modo di fare politica ormai superato. «Oggi la politica - ha spiegato - non la può più fare una persona sola. C’è una squadra, una partecipazione e questo vale per tutti, anche per me. La politica oggi è un discorso molto più corale che un discorso di leadership personale». Quanto poi al fatto che la sua espressione possa far pensare a Berlusconi, Montezemolo ha precisato che non è così anche se «Berlusconi - ha detto - ha impersonato molto una politica di tipo personale. Sono fasi della storia - ha aggiunto - che cambiano».

OPERAZIONE VERITA' - Il presidente di Italia Futura ha sottolineato che il Paese data la «gravità in cui versa ha bisogno di una grande operazione verità». Bisogna, secondo Montezemolo, «preparare il futuro della ricostruzione di domani», e in questo processo «ognuno deve fare la sua parte. La ricostruzione corale - ha detto - deve cominciare ora liberandoci dalla paura perchè il Paese è bloccato: non c’è ascensore sociale nè mobilità. Dobbiamo uscire, andare al centro del ring perchè la paura ci sta paralizzando e su queste paure rischiamo di far lucrare la politica».

martedì 23 novembre 2010

L'alternativa a Berlusconi


ROMA - Allora, l'antefatto è questo. L'altra sera, nel corso del suo quarto e ultimo show al Gran Teatro di Roma, Beppe Grillo ad un certo punto se ne esce così. «Roberto Saviano, per carità, è bravissimo. Ma "Vieni via con me" è un programma Endemol. E di chi è la Endemol? Di Silvio Berlusconi. Dunque quando Saviano fa audience, a guadagnare è il Cavaliere. Se poi ci aggiungiamo che Saviano lancia accuse a destra e a manca, senza però fare mai mezzo nome, è facile capire perché Silvio goda come un riccio» (in sala, 3.500 persone - tutto esaurito - che restano sorprese, mute, non un accenno di applauso per il comico genovese). Passano poche ore e arriva la replica. Nichi Vendola - il leader di Sinistra ecologia e libertà, l'ex comunista che per hobby scrive filastrocche e che fu tra i primi a dichiararsi omosessuale, «non gay, sia chiaro», l'uomo colto e sensibile che ha letto Neruda, Pirandello e Pasolini e che secondo alcuni starebbe rosicchiando consensi e voti al Pd - è ospite di Maria Latella su Sky Tg24. E va giù duro. «Quella di Grillo è una deriva di integralismo. E si tratta, a mio parere, di un fenomeno piuttosto preoccupante: perché se ciascuno sente di possedere il metro per giudicare, si finisce in una sorta di giudizio universale permanente. Insomma - conclude Vendola - io penso che la politica sia il campo della verità con la "v" minuscola, ma se qualcuno pensa di avere sempre la verità con "v" maiuscola, è chiaro che finisce poi per sentirsi Savonarola». Grillo, adesso, sospira; poi, con la voce che conoscete: «No, dico: lei ha idea di che fine fecero fare a Savonarola?».

Wikipedia: «Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola (Ferrara, 21 settembre 1452 - Firenze, 23 maggio 1498) è stato un religioso e politico italiano. Appartenente all'ordine dei frati domenicani, nel 1497 fu scomunicato da papa Alessandro VI, l'anno dopo fu impiccato e bruciato sul rogo come "eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove"». Ancora Grillo: «Ora, a parte che se fosse vissuto in quest'epoca, a Savonarola avrebbero organizzato subito una puntata di "Porta a Porta" e così forse sarebbe persino riuscito ad evitare il rogo... il punto è che io, in comune con Savonarola, ho solo una cosa: la parola. Con la differenza che io la uso in Rete, la faccio viaggiare con Internet. Dove non ci sono padroni. E dove il consenso è incontrollabile. Se dici cose giuste, oneste, ti dicono che hai ragione e che sei perbene. Se fai il furbo, ti scoprono dopo mezzo secondo. Un modo di procedere, mi rendo conto, che Vendola, purtroppo, non può capire». Non sia severo, Grillo. «Senta: sa quanti anni sono che Vendola fa politica? Trenta. Vendola è nato facendo politica». E allora? Se anche fosse? Non è mica reato fare politica per mestiere. «Vede, il fatto è che Vendola fa politica vecchia. Sta lì che promette e fonda partiti, ma non è più tempo di partiti, non c'è più storia del Pci che tenga, o tradizione, o destra e sinistra. Questo è il tempo dei giovani e della loro forza in Rete». Anche Vendola, nella campagna elettorale delle ultime elezioni regionali, ha usato molto Internet. «Vede? Anche lei che mi sta intervistando è vecchio. Lei ha la testa di un vecchio...». Grillo, la prego... «Cosa vuol fare, eh? Vuol dimostrare che io ce l'ho con Vendola? Ma guardi che io sono oltre, capitooo?». Non sarà, mi scusi, che lei invece si rivolge ad un elettorato molto vicino a quello, magari più politicizzato, di Vendola? «Ah ah ah! Ma che dice? Ma di quale elettorato parla? Noi siamo un popolo che sta lì, in Rete. Tutti insieme senza leader. È Vendola che aspira ad essere un leader, non io, non uno solo di noi aspira a questo ruolo». Grillo, è un po' complicato crederle. «E invece deve! E se non è servo di qualcuno scriva che per candidarsi alle prossime Comunali con il nostro simbolo a cinque stelle basta inviarmi una email e dimostrare di non essere iscritto ad alcun partito e di avere la fedina penale pulita... Lo spieghi anche a Vendola cosa significa avere la fedina penale pulita, lui che in Puglia s'è ritrovato con mezza giunta sotto processo...». Vendola, amareggiato: «Mi spiace che Grillo usi un linguaggio così violento. Mi addolora la deriva distruttiva del suo impegno. No, non riesco a capire la politica quando diventa, come in questo caso, livore e contumelia». Per paradosso, alle nove della sera, sul sito personale di Vendola (www.nichivendola.it) c'è ancora una pagina che comincia così (ma che è ormai superata dagli eventi): «Pubblichiamo un post di Beppe Grillo che esplicita il sostegno a Nichi per la battaglia intrapresa dal presidente della Regione Puglia in difesa dell'acqua come bene comune e contro il nucleare...».

Fabrizio Roncone

A braccia aperte


Non si ferma il flusso di immigrati verso le coste della Calabria. Dopo lo sbarco di 137 clandestini avvenuto ieri a Crotone da un veliero dotato di motore, oggi, al largo della stessa costa, la guardia costiera è intervenuta per salvare 60 immigrati che si trovavano in difficoltà a bordo di una barca a vela di 18 metri con bandiera greca in balia delle onde a 45 miglia dalla riva. Dall'imbarcazione è partito un sos e subito si è messa in moto la macchina dei soccorsi. Tre motovedette della guardia costiera sono partite alla volta del punto segnalato dalla richiesta di aiuto, mentre nella zona veniva dirottata anche una nave porta container. Ed è stata proprio quest'ultima, la «Sukaiyana», battente bandiera panamense, a raggiungere prima l'imbarcazione a vela. Con non poche difficoltà per il mare grosso e onde alte tre metri, il mercantile è riuscito ad accostare e, con l'assistenza delle motovedette, ha tratto a bordo tutti e 60 gli immigrati, tra i quali ci sono anche tre bambini ed una donna. Le loro condizioni sono complessivamente buone.

Il mercantile, scortato dalle unità della guardia costiera, è ora diretto verso il porto di Crotone dove dovrebbe arrivare in nottata, mare permettendo. Una volta giunto in prossimità della costa, gli ufficiali della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, che stanno coordinando le operazioni di soccorso, valuteranno se è possibile far entrare il mercantile nello scalo crotonese. Altrimenti gli immigrati saranno trasbordati sulle unità militari e condotti definitivamente in salvo. Con quello di oggi, salgono a 12 gli sbarchi sulle coste calabresi, in prevalenza quella crotonese, avvenuti dall'agosto scorso. Un numero in continuo aggiornamento, visto il ritmo con cui si susseguono gli arrivi, ormai a cadenza bisettimanale, se non giornaliera, come negli ultimi due casi. Così come quello degli immigrati, saliti, con quello di oggi, a quasi 700 persone.

Ed ogni sbarco non fa che confermare la nuova tendenza dei trafficanti di essere umani. Non più vecchie carrette del mare, ma yacht lussuosi o eleganti velieri. Come nel caso degli ultimi due arrivi. Quello di ieri, inoltre, sembra confermare un'ipotesi che è al vaglio anche della Direzione nazionale antimafia e cioè che il traffico di persone sia gestito da un'organizzazione internazionale con diramazioni nei Paesi dell'Est europeo. Dopo l'arresto, effettuato nei mesi scorsi in varie circostanze, di otto scafisti ucraini, il veliero arrivato ieri dopo essere stato intercettato al largo da una motovedetta della finanza, batteva bandiera russa.

lunedì 22 novembre 2010

La campania intanto incassa... soldi buttati


Napoli - Il Colle non ha ricevuto il testo del decreto legge sulla raccolta dei rifiuti e la realizzazione di termovalorizzatori in Campania. Napolitano ha fatto sapere che "si riserva pertanto ogni valutazione sui contenuti del testo quando gli verrà trasmesso". Intanto il capo degli ispettori Ue, Pia Bucella, è giunta a Napoli per fare il punto sulla gestione del ciclo dei rifiuti. "Dopo due anni la situazione non è molto diversa - ha spiegato il tecnico di Bruxelles - i rifiuti sono per le strade, non c’è ancora un piano di trattamento e gestione della differenziata".

Ue: "Situazione come due anni fa". Da Bruxelles sono arrivati questa mattina i tecnici per far luce sull'emergenza rifiuti che da settimane affligge la Campania. "Abbiamo parlato per tre ore della problematica relativa alla sentenza della Commissione europea", ha spiegato il capo degli ispettori europei. Il 4 marzo l'Italia era stata condannato l’Italia per non aver realizzato una rete integrata di trattamento dei rifiuti in Campania per non aver avviato lo smaltimento del pregresso, le cosiddette ecoballe. "Gli ispettori - ha aggiunto Pia Bucella - hanno però ribadito che questa volta non si accontenteranno solo della presentazione del piano ma vogliono che sia implementato". Bruxelles è infatti favorevole a "liberare i fondi non appena ci sarà un Piano di gestione adottato e implementato". "Non basta un Piano sulla carta ma deve essere realizzato fattivamente", ha continuato Bucella spiegando che, fino a questo momento "non ci sono state" multe, ma "ogni sentenza della Corte di giustizia deve essere eseguita in 12-24 mesi. Non è immaginabile - ha concluso - che passino altri 15 anni".

Colle: "Mai ricevuto il decreto". "La presidenza della Repubblica non ha ricevuto e non ha quindi potuto esaminare, né prima né dopo la riunione del consiglio dei ministri di giovedì 18 novembre, il testo del decreto legge sulla raccolta dei rifiuti e la realizzazione di termovalorizzatori in Campania, che sarebbe stato definito dal Governo". Ad assicurarlo è stato proprio il Quirinale spiegando che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, "si riserva pertanto ogni valutazione sui contenuti del testo quando gli verrà trasmesso".

Il decreto approvato dal Cdm. Il decreto approvato dal Cdm introduceva "misure volte ad accelerare la realizzazione di termovalorizzatori" in Campania attribuendo a Caldoro "poteri commissariali", così come si leggeva nel comunicato di palazzo Chigi diffuso al termine della riunione. Il dl si propone di "assicurare il superamento della criticità rifiuti in Campania". Tra l’altro il decreto contiene "la cancellazione delle discariche di Terzigno-Cava Vitiello, Andretta, Serre-Valle della Masseria". Per i lavoratori dei Consorzi in esubero, veniva "autorizzato l’accesso alle procedure di mobilità presso gli impianti provinciali". E verranno "stanziati fondi a valere sul Fas per la copertura degli oneri per l’impiantistica e le misure di compensazione ambientale".

Caldoro: "Tre anni per uscire dalla crisi". Nel corso dell’intervista per Mattino Cinque, Caldoro spiega: "Siamo in emergenza e la cosa importante è trovare subito un’intesa e garantire procedure trasparenti e soprattutto veloci, perchè abbiamo vent’anni di ritardo da colmare e dobbiamo rispondere ai problemi". Ricorda a tal proposito Caldoro: "Per vent’anni si è stabilita una strategia per i rifiuti non facendo impianti, non aprendo discariche, non realizzando impianti di termovalorizzazione e puntando tutto sulla differenziata e sullo stoccaggio: un sistema che nel 2008 è fallito. Ci siamo trovati davanti a una situazione tale da dover ripartire da capo".

Notte tranquilla a Terzigno Sono una quindicina i manifestanti che hanno presidiato la rotonda di via Panoramica situata a poca distanza dalla discarica Sari di Terzigno. Gli autocompattatori provenienti dall’area vesuviana, come previsto dall’ordinanza hanno scaricato i rifiuti all’alba di oggi. Nella discarica sono entrati 41 camion senza che vi fossero incidenti e hanno lasciato il sito senza problemi. Attualmente alla rotonda di via Panoramica ci sono solo pochi cittadini anti discarica e la situazione è di assoluta calma secondo quanto riferito da fonti della questura di Napoli.

domenica 21 novembre 2010

A volte tornano

Quattro temi per il paese. La necessità di ricostruire

Come nello scorso agosto, così oggi la politica e le istituzioni si sono date un mese di tempo per decidere del loro futuro e di quello dell'Italia. Ogni cittadino consapevole vive questo tempo con animo sospeso e medita sulle alternative. Propongo al lettore qualche riflessione di carattere esclusivamente personale. Se il governo in carica otterrà la fiducia, esso continuerà il suo lavoro. Se la perderà in una delle due Camere, la crisi si aprirà inevitabilmente e inizieranno consultazioni per accertare se un nuovo esecutivo possa nascere dal Parlamento. Secondo la Costituzione questo è sovrano lungo tutto l'arco della legislatura; il suo compito non è di essere fedele a un «mandato degli elettori» perché i parlamentari sono stati eletti senza vincolo di mandato (articolo 67). Esso ha ricevuto una delega, non un mandato. Esso è il popolo, e può (anzi, in quel caso, «deve») essere sciolto solo se si dimostra incapace di formare un governo sorretto dalla propria fiducia. Non c'è né legge elettorale, né cosiddetta costituzione materiale che possano modificare le regole chiarissimamente scritte nella Costituzione.

Se un gruppo di forze politiche si proporrà con un accordo di programma e un sostegno parlamentare credibili, esso riceverà dunque l'incarico di costituire un governo. Se l'accordo si conferma, il governo si forma, giura, entra in carica e va alle Camere per ottenerne la fiducia. L'esecutivo precedente cesserà di esistere da quando il nuovo avrà giurato; a nulla servirebbe che avesse ottenuto la fiducia di un ramo del Parlamento poco prima di essere sfiduciato dall'altro. Ottenuta la fiducia, il nuovo esecutivo sarebbe legittimo a tutti gli effetti e per tutte le materie che la Costituzione assegna alla sua competenza. Eventuali accordi che limitino la durata o il programma di un governo sono, dal punto di vista costituzionale, irrilevanti; hanno la natura di pronunciamenti politici. Fino al giorno in cui venga colpito da un voto di sfiducia o dal terminare della legislatura, ogni governo è legittimo e ha pienezza di poteri.

Nel passaggio da uno ad altro governo, la funzione del capo dello Stato di tutore e garante della correttezza costituzionale è particolarmente rilevante proprio perché in quel passaggio manca un esecutivo dotato della pienezza dei poteri. Sostenere che il capo dello Stato abbia il dovere o il potere di condizionare il programma, o la durata, o la composizione, o l'omogeneità politica del nuovo governo significa sollecitarlo a distorcere il proprio ruolo e minarne l'autorevolezza istituzionale. Quegli aspetti, infatti, sono competenza del Parlamento e delle forze politiche. Il governo, dunque, potrebbe cadere soltanto per effetto di un voto di sfiducia e il presidente del Consiglio fa bene a ricordarcelo. Ma quel voto di sfiducia, se ci fosse, avrebbe a sua volta un senso soltanto se il suo fondamento fosse chiaro: non un disaccordo su temi di ordinaria politica, ma il riconoscimento (nato, per impulso di Fini, nella stessa maggioranza) di una profonda triplice crisi della democrazia, dello Stato di diritto e dell'unità nazionale.

Il voto di sfiducia dovrebbe allora essere espressione di una unione nazionale volta a uno scopo. E l'unico scopo che si può vedere è di porre fine alla stagione politica iniziata nel 1992-94 e mai risoltasi in un duraturo rimedio ai mali della Repubblica. Sarebbe indispensabile, in altre parole, che la maggioranza sfiduciante fosse del tutto consapevole che il suo vero compito non consisteva tanto nel far cadere il governo, ma nel compiere una intensa, anche se breve, «ricostruzione della normalità istituzionale». È su questa che sarebbe giudicata dalla storia. Il nesso tra pars destruens e pars construens è strettissimo. Lo è innanzi tutto nei tempi. Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa.

Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell'Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l'informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra.

Se le figure politiche che avessero determinato la caduta del governo mancassero della capacità e della determinazione richieste dalla pars construens, sarebbero esse, non Berlusconi, a scomparire dalla scena politica. In passato ciò è già avvenuto con le esperienze delle legislature iniziate nel 1996 e nel 2006: hanno entrambe restituito il potere a un avversario rafforzato dalla sconfitta. Se invece l'iniziativa apparisse come il primo e credibile passo di una cura profonda, non «di parte», è assai probabile che essa verrebbe assecondata da forze assai più numerose di quelle che se ne facessero promotrici. Proprio perché si tratta di compiere una ricostruzione istituzionale, il nuovo governo potrebbe, anzi dovrebbe, essere sostenuto da un arco di forze politiche ampio, tanto da includere componenti rilevanti sia della destra sia della sinistra. Esso non sarebbe né tecnico, né a tempo, né del presidente, né di «ribaltone»; sarebbe, semmai, un governo del Parlamento. La ricostruzione dovrà infatti essere patrimonio comune della Repubblica, tanto di chi vincerà quanto di chi perderà al successivo voto. La ricostruzione istituzionale dovrebbe essere completata in questa legislatura, prima di andare al voto. Se si votasse senza averla compiuta, essa non verrebbe intrapresa affatto, o sarebbe opera dal vincitore disconosciuta dallo sconfitto.

Tommaso Padoa-Schioppa

sabato 20 novembre 2010

Marcegaglia e Casini


Milano - La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, torna a occuparsi di politica esortando l'esecutivo ad andare avanti, governando il Paese. Altrimenti, "se non ci saranno altre possibilità di avere un governo che governi, allora vengano le elezioni, non possiamo stare in questo gioco". Lo ha detto la Marcegaglia a margine dell’assemblea nazionale dell’Udc in corso a Milano.

Il momento è difficile. "Il Paese va governato, siamo in un momento difficile e anche i mercati finanziari possono creare problemi con l’Irlanda sotto attacco", ha ricordato la Marcegaglia. "Chiediamo - ha spiegato - che il Paese sia governato, che non ci siano interruzioni, ci sono una serie di cose da affrontare subito".

Un dovere dire cosa vogliamo. Non è compito di Confindustria dire che cosa si debba fare, ma il presidente dell’associazione ha definito "un dovere il fatto di dire cosa noi vogliamo". "Vogliamo - ha sottolineato - un governo che abbia la capacità di governare e di fare delle scelte. Se questo governo sarà in grado di farlo, bene. Se non sarà in grado di farlo - ha rilevato - bisogna pensare a qualcosa di diverso".

I rischi di sei mesi di campagna elettorale. La Marcegaglia ha concordato nel dire che nell’incertezza si possa fare anche peggio, ma "avere 6 mesi di campagna elettorale davanti - ha detto ancora - una campagna di fango, in questo momento difficile non so se sarebbe la scelta giusta". In dubbio sulla possibilità che un governo tecnico possa essere la soluzione migliore per uscire da questa crisi: "Sono governi in grado di governare veramente?", si chiede il presidente di Confindustria. "Non lo so - ha ammesso - gli esempi in Italia non sono stati molto positivi".

Casini: noi al governo se c'è cambiamento. L’Udc è pronta a partecipare al governo se c’è un vero cambiamento. Lo ha detto il leader del partito, Pier Ferdinando Casini. "Questo partito non ha la vocazione alla diserzione - ha detto intervenendo brevemente al termine della tavola rotonda tra la Marcegaglia e Raffaele Bonanni - vogliamo partecipare al governo di questo Paese, ma c’è una sola condizione: che il governo lo cambi davvero, perché a tutto il resto non siamo interessati".

Tanto per cambiare...


PALERMO - Il senatore Marcello Dell'Utri avrebbe svolto una attività di «mediazione» e si sarebbe posto quindi come «specifico canale di collegamento» tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d'Appello di Palermo nelle 641 pagine, depositate venerdì e in possesso dell'Ansa, della sentenza con la quale il senatore del Pdl Dell'Utri è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il parlamentare era stato condannato per i fatti avvenuti fino al 1992 e assolto per quelli successivi. Il collegio presieduto da Claudio Dall'Acqua, a latere Sergio La Commare e il relatore Salvatore Barresi, gli hanno ridotto la pena dai nove anni subiti in primo grado a sette anni.

DELL'UTRI - Premette che non ha ancora letto le motivazioni però dalle prime anticipazioni che stanno emergendo dalle agenzie di stampa, Marcello dell'Utri si limita a dire: «I giudici hanno ricicciato le stesse cose della sentenza di primo grado. Sono sostanzialmente le stesse accuse del primo processo». «È una materia trita e ritrita - dice Dell'Utri all'Adnkronos - non c'è nulla di nuovo sono tutte cose che abbiamo già visto». Però, il senatore del Pdl continua a dirsi «fiducioso» e lo sarà «fino all'ultimo momento, altrimenti che faccio, mi uccido?». Dice anche di non sentirsi «preoccupato». «Non vedo come mi possono condannare sul nulla», ecco perché crede molto nel giudizio dei giudici della Corte di Cassazione. «Saranno i miei avvocati cassazionisti ad occuparsi adesso del caso, prepareranno una difesa adeguata per rispondere a tutte le accuse e alle motivazioni della sentenza di secondo grado». Dell'Utri ribadisce poi di non volere aggiungere altro perché «non ho ancora letto le motivazioni. Come faccio a parlare di una cosa che non conosco? So che hanno depositato le motivazioni ma non so altro».

LE MOTIVAZIONI - Per i giudici Dell'Utri «ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso». In particolare, l'imputato avrebbe inoltre consentito ai boss di «agganciare» per molti anni Berlusconi, «una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico». Per questi motivi la Corte ritiene «certamente configurabile a carico di Dell'Utri il contestato reato associativo». Marcello Dell'Utri «ha svolto, ricorrendo all'amico Gaetano Cinà ed alle sue "autorevoli" conoscenze e parentele, un'attività di "mediazione" quale canale di collegamento tra l'associazione mafiosa Cosa nostra, in persona del suo più influente esponente dell'epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo». «Una mediazione» tra i boss e l'attuale presidente del Consiglio che durò per due decenni, con la quale avrebbe consentito «all'associazione mafiosa, con piena coscienza e volontà, di perpetrare un'intensa attività estorsiva ai danni del facoltoso imprenditore milanese imponendogli sistematicamente il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di "protezione" personale e familiare». Non oltre il 1992, hanno però sancito i giudici, periodo dopo il quale i pagamenti sarebbero cessati, come dichiarato da quasi tutti i collaboratori di giustizia.

MANGANO - I giudici della corte d'appello di Palermo presieduta da Claudio Dall'Acqua scrivono anche di Vittorio Mangano. Il mafioso fu assunto, su intervento di Marcello Dell'Utri, come «stalliere» nella villa di Arcore non tanto per accudire i cavalli ma per garantire l'incolumità di Silvio Berlusconi. I giudici ritengono credibile il collaboratore Francesco Di Carlo, che ha ricostruito il sistema di «relazioni» di Dell'Utri con ambienti di Cosa nostra. Credono fondato soprattutto il suo racconto su una riunione svoltasi a Milano nel 1975 «negli uffici di Berlusconi» alla quale parteciparono, oltre a Dell'Utri, anche i boss Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e Stefano Bontade che all'epoca era «uno dei più importanti capimafia». La presenza di Mangano ad Arcore avrebbe avuto lo scopo di avvicinarsi a Berlusconi, «imprenditore milanese in rapida ascesa economica», e garantire la sua incolumità «avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni». Berlusconi avrebbe pagato «ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari». La vicenda dei pagamenti da parte del Cavaliere si intreccia, secondo i giudici, con altri versamenti per la «messa a posto» della Finivest che all'inizio degli anni '80 aveva cominciato a gestire alcune emittenti televisive in Sicilia.

PATTO CON LA POLITICA - Però non risultano prove che confermino in maniera certa un presunto accordo tra mafia e politica durante la fase embrionale del partito Forza Italia, tra il ’93 e il ’94. La tesi, sostenuta dall’accusa che si avvaleva delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, è stata giudicata di «palese genericità» dalla corte. Il sostegno fornito a Forza Italia, secondo i giudici, non potrebbe essere inteso come il segno dell’esistenza di un patto, e dunque priva il giudizio di quegli elementi che indurrebbero, in questo specifico caso, alla configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

CIANCIMINO INATTENDIBILE - La Corte d'Appello ribadisce poi il suo giudizio circa la inattendibilità di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito. Proprio per questo motivo i giudici avevano deciso di respingere la richiesta dell'accusa di fare deporre Ciacimino come teste. «L'incontestabile progressione accusatoria che caratterizza con ogni evidenza le dichiarazioni sul conto dell'imputato - scrivono i giudici - non può che irrimediabilmente refluire in maniera oltremodo negativa sull'attendibilità e sulla credibilità di Massimo Ciancimino». La Corte ha ritenuto che «la pretesa rivelazione da parte del genitore sui presunti rapporti diretti Dell'Utri-Provenzano, che Massimo Ciancimino aveva peraltro taciuto per oltre un anno e 4 mesi, non era suscettibile di possibile utile approfondimento, oltre che manifestamente tardiva». «Tutte le superiori considerazioni - concludono i giudici - hanno dunque indotto la Corte a dubitare più che fondatamente della credibilità ed affidabilità di un soggetto come Massimo Ciancimino finora rivelatosi, sulla base degli atti esaminati dalla Corte e con riferimento a quanto riferito sul conto dell' imputato, autore di altalenanti dichiarazioni che non ha esitato a rettificare o ribaltare nel tempo con estrema disinvoltura, senza supportare le sue oggettive contraddizioni con giustificazioni ragionevoli, accreditandosi come portatore di presunte conoscenze, quasi sempre de relato, perché attribuite alle pretese, ma non verificabili, rivelazioni di un padre defunto».

DI PIETRO - Immediate le reazioni delle opposizioni. «Silvio Berlusconi va sfiduciato, tanto più dopo le motivazioni della sentenza Dell’Utri», dice il leader di Idv Antonio Di Pietro: «Adesso che anche le sentenze parlano di rapporti ravvicinati tra la mafia e il Presidente del Consiglio, speriamo che si trovino 316 parlamentari che lo sfiducino. Ci auguriamo che ciò avvenga prima che Berlusconi faccia ulteriori danni al Paese e che distrugga completamente la nostra credibilità all`estero».

PD - Vincenzo Vita annuncia che il Pd intende portare in commissione di Vigilanza sulla Rai il caso del «silenzio assoluto del Tg1 sulla sentenza Dell’Utri». «Va bene - afferma Vita- che la notizia è arrivata solo alle 19 e 30, ma un notiziario con mezzi molto inferiori come quello di Mentana è comunque riuscito a inserirla tra i titoli e a montare in tempo un servizio completo e dettagliato. Evidentemente il direttore del Tg1 ha deciso di non farlo. Riproporremo presto in commissione di Vigilanza il caso del Tg1 di Minzolini, perché la situazione non è più tollerabile. La maggiore testata del servizio pubblico si è ormai ridotta ad arma contundente contro l'opposizione e di propaganda per il premier e la maggioranza. Stasera siamo arrivati al paradosso: il notiziario si è occupato di mafia dedicando un servizio al caso Maroni-Saviano, proseguendo poi nell'opera di demolizione del governatore Lombardo, proponendo un'intervista all'ex ministro Conso sui fatti del 1993, poi ancora un pezzo sull'audizione di Ciancimino jr.al processo De Mauro, e ha chiuso l'ampia pagina sul tema con la cattura del boss Iovine. Silenzio assoluto, invece, tra i titoli del Tg, per le motivazioni della sentenza di condanna per concorso esterno del senatore Dell'Utri, che secondo i giudici ha fatto da mediatore tra Berlusconi e i boss. Minzolini si è limitato a far leggere la notizia dalla giornalista in studio in coda a tutti gli altri servizi».

Strani mormorii


«È troppo tempo amore che noi giochiamo a scacchi, mi dicono che stai vincendo e ridono da matti». Questo è un messaggio d’amore per Gianfranco Fini. Lo ha scritto una ragazza citando una canzone di De Gregori. Il titolo come si sa è Non c’è niente da capire. È un biglietto pescato in un blog, buttato lì subito dopo l’ultimo videomessaggio del presidente della Camera. La ragazza crede ancora in Gianfranco, ma non capisce a che gioco stia giocando. La politica è solo una partita a scacchi? Allora davvero non c’è nulla da capire. Questa è l’aria che si respira tra il popolo finiano. Temono che la ribellione dell’eterno secondo scivoli in un finale shakespeariano, tipo «tanto rumore per nulla». O peggio. Ricordate la battuta del predellino? Siamo alle comiche finali. I finiani sperano di non diventare loro (ancora una volta) i protagonisti di una ridolinata. Marco V. scrive su Facebook nella pagine di Futuro e libertà (2.259 fan): «Questo tira e molla, questi tatticismi, questo gioco del cerino ci ha stancato. Il mondo ci ride dietro...».

C’è chi si chiede se quello di Fini sia un dietrofront. Se si cambia linea. Se il senso di responsabilità sia una scusa per concordare con Berlusconi almeno un pareggio. C’è la sensazione che qualcosa stia cambiando. Il Cavaliere non era finito, moribondo, sotto assedio? L’entusiasmo dello stato nascente, della sbornia anti berlusconiana si sta trasformando in angoscia. Il Manifesto per l’Italia lo stanno firmando in pochi. Ma non è quello il problema. Il dubbio grande è che l’ottimismo «futurista» non voglia confrontarsi con la realtà. E in questo caso la realtà si chiama voto. La «destra migliore» ha paura della democrazia. La risposta di Gianfranco sa di scusa: «Io preoccupato che si vada alle elezioni? Assolutamente no, ma non servono all’Italia». Malignità. Di solito le elezioni non servono quando si pensa di perderle. Intanto i finiani scrivono: «Non ho capito il senso. E voi?». «Fini è ambiguo. Ma se con Berlusconi finisce alla volemose bene tutti gli italiani scoppieranno a ridere». «È apparso poco chiaro negli obiettivi, oscuro da un punto di vista comunicativo, una specie di poco chiara retromarcia». «Sarà una tattica politica, ma ho l’impressione che si gridi alla ritirata».

La tattica stanca. Non hanno tutti i torti quelli che cominciano a preoccuparsi per questa lunga melina sulla fiducia. Nel sottobosco di Futuro e libertà c’è più di qualcuno che comincia a sospettare che Fini sia in sintonia con gli intellettuali, ma fatichi a dialogare con le persone. È una questione di carattere e negli anni la sua freddezza è aumentata. Anche chi ha scommesso su di lui resta spiazzato dai suoi stop and go, da una politica che sa troppo di tatticismo, di certi passi indietro che sanno di paura o il braccetto che gli viene ogni volta che deve affondare il colpo. Non è un ripudio. È più un senso di noia e di fastidio. Ma che cavolo stiamo facendo? Tra i tanti che scrivono c’è qualcuno che mostra di conoscere Fini. «Lo seguo dalla fine degli anni Ottanta e ho capito che è un politico estremamente tattico e prudente. È eccessivamente riflessivo e cauto. La marcia indietro deriva dalla paura di perdere pezzi del suo partito. Probabilmente non si fida dei propri uomini. Teme che possano essere comprati? Teme che siano ricattabili? Forse. O nulla di tutto questo. Solo l’esistenza di una trattativa sotterranea. Lo stallo deriverebbe dall’esigenza di risolvere i problemi del Palazzo, prima dei problemi degli italiani». È interessante leggere quello che scrive la base finiana. Si capiscono due o tre cose. Uno: non vogliono il governo tecnico, preferiscono giocarsela alle urne. Due: sono più anti berlusconiani di Di Pietro. Nei messaggi di questi giorni si discute se dare o meno il diritto di parola a chi attacca il leader o è chiaramente filo Pdl. Tre. Sono galvanizzati dal presunto tradimento della Carfagna. «Mara ti aspettiamo a braccia aperte».

venerdì 19 novembre 2010

Piccoli litigi


MILANO - Mara Carfagna è sul punto di lasciare Pdl e governo. Quella che al momento è solo una indiscrezione dell'Ansa (la diretta interessata non conferma e non smentisce) rappresenta, comunque, l'ultimo colpo di scena del terremoto che da settimane scuote il Pdl, culminato nell'uscita dal partito e dall'esecutivo dei parlamentari finiani. L'intenzione del ministro per le Pari Opportunità sarebbe quella di aspettare la verifica parlamentare del 14 dicembre prima di dare le dimissioni. Alla base della sua scelta ci sarebbero gli insanabili contrasti con i vertici campani del partito e «l'incapacità» dei coordinatori nazionali di affrontare i problemi interni al Pdl campano. A chi ha avuto modo di sentirla, inoltre, il ministro ha spiegato di sentirsi «amareggiata» per «gli attacchi volgari e maligni» di esponenti del partito come Giancarlo Lehner, Alessandra Mussolini e Mario Pepe.

MARA E FLI? - Negli ultimi giorni, diversi esponenti del Pdl hanno accusato più o meno velatamente la Carfagna di guardare con interesse a Fli, anche in vista delle elezioni del sindaco di Napoli. Una ricostruzione che Ignazio la Russa non condivide. «Nessuno può avanzare il minimo sospetto che il ministro abbia mai avuto qualsivoglia cobelligeranza con esponenti di Fli» ha voluto subito commentare il ministro. Anche Stefania Prestigiacomo è scasa in campo per difendere la Carfagna. «Basta fuoco amico. Si sta alimentando un gioco assurdo ed irresponsabile per accreditare dissidi e distinguo inesistenti» ha detto, sottolineando che «non è vero che Mara Carfagna intende lasciare il governo». Solidarietà e vicinanza al ministro per le pari Opportunità anche da parte di Sandro Bondi e Franco Frattini. Più duro Giancarlo Lenher, che rispedisce al mittente le accuse di «attacchi volgari e maligni», invitando la Carfagna a rinunciare ai «colpi di teatro».

BOTTA E RISPOSTA BOSSI-FINI - Le notizie sulla Carfagna non fanno che rendere ancora più instabile l'equilibrio sul quale si regge l'esecutivo. Senza dimenticare che a creare scompiglio ha contribuito non poco l'appello alla responsabilità lanciato da Gianfranco Fini tramite un videomessaggio in Rete. I finiani hanno rimarcato con forza di non aver in mente nessun passo indietro né cambi di rotta e di essere pronti a votare la sfiducia al premier. Al contrario, il leader delle Lega Umberto Bossi ha accusato Fini e la sinistra di avere paura delle elezioni e ha spiegato di considerare il ritorno alle urne la strada migliore anche in caso di fiducia in parlamento. Per Bossi Berlusconi potrebbe fare come Fanfani: «Ottenne la fiducia ma si dimise comunque». «Non temo le elezioni, ma non servono al paese» ha replicato prontamente il leader di Montecitorio, invitanto ancora una volta alla responsabilità. «Non faccio il Gran premio, siamo al pit stop», aveva detto in precedenza sempre Fini, rispondendo a una domanda su una sua condotta nei confronti del governo contrassegnata da «stop and go», cioè fermate e fughe in avanti.

PREDELLINO BIS - Secondo Il Giornale, intanto, il presidente del Consiglio sarebbe colto in queste ore dalla tentazione di «rottamare» il Pdl e di creare un nuovo partito, per «dare vita a qualcosa di innovativo». «Boatos di palazzo - scrive il quotidiano - confermano che il Cavaliere avrebbe già incaricato una società di marketing di disegnare un nuovo logo e un nuovo nome per il sempre più probabile ex Pdl». Per Il Giornale «resta il mistero sul nome», ma «quel che è certo è che al premier Popolo della libertà non piace più. Lo trova poco diretto, poco efficace, poco immediato».

Mostri




Come sarà giudicato in futuro il salvataggio della Grecia e dell'Irlanda? A pensar male si fa peccato, si sa, ma non ci sentiamo di escludere la possibilità che i salvataggi degli ultimi mesi saranno guardati come il prodromo di un diretto controllo di Bruxelles sulle politiche economico-fiscali degli Stati membri. Speriamo solo di essere smentiti in futuro. Gli americani dicono don't miss the big picture!, "non perdere di vista il quadro generale!". E dato che il quadro particolare nella danza tra UE e governo irlandese è ormai chiaro, possiamo spostarci a quello più grande. Sul caso Irlanda, non possiamo fare a meno di pensare un po' male, anche se si fa peccato. E' ormai ufficiale l'imminente sbarco nella capitale irlandese di un gruppo di monitoraggio composto da membri della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. La ragione: "ispezione delle finanze irlandesi". Il termine "ispezione" è tutto un programma, se ne converrà. Se si guarda da vicino, l'Irlanda è ormai in amministrazione controllata, con buona pace del riluttante primo ministro irlandese Cowen il quale sino all'ultimo ha tentato di resistere alle pressioni pro-salvataggio di Bruxelles. Quale la causa? Di chi è la colpa? Non importa molto ormai. Quello che ci interessa è invece che siamo alla seconda. Alla seconda capitale europea la cui politica economica e fiscale passa quasi direttamente nelle mani del triangolo Bruxelles-Francoforte-Berlino.

Al riparo dalla concitazione giornalistica e dal brusio metallico di stampanti che sfornano agenzie, editoriali e analisi sullo psicodramma irlandese, forse è giunta l'ora di arrendersi all'evidenza. Dopo Atene, è il turno di Dublino. Dietro certe facce crucciate e gravi, in una pretesa disperazione in cui sembra insita il conforto, i massimi esponenti delle istituzioni comunitarie, Barroso e van Rompuy in testa, assaporano il gusto di una vittoria senza gaudio. Una delle ultime prerogative dello Stato Nazione europeo, la politica economica, cade quasi direttamente sotto diretta tutela comunitaria. Perché non sussurrare allora che la UE ha finalmente trovato il modo di mettere le mani sulla politica economica degli Stati membri? D'altronde sono rimaste poche le sostanziali competenze esclusive dei membri della UE: accanto alla politica economica-fiscale stanno solo la politica di difesa e quella estera (peraltro implicitamente connesse).

Potremmo anche ammettere una tale eventualità, se solo la cessione a livello comunitario avvenisse in un limpido processo democratico, fuori da uno schema puramente emergenziale e non più risultato di trattati scritti al riparo dagli occhi timorosi di noi cittadini, costretti a sbirciare dal buco della serratura per sapere cosa ne sarà di noi. Se fosse il risultato di un processo costituente europeo che sancisse finalmente il passaggio ''dall'arcipelago Europa'' (la definizione è tremontiana) ad una costituzionale e confederata Europa, governata da un processo democratico su modello statunitense, ci staremmo dentro con tutte le scarpe e forse ci piacerebbe crederci. Ma visto che questo non è, il problema diviene il metodo. Perché in questo caso metodo è sostanza. Certo, nessuno può dimenticare che i trattati di Roma giunsero proprio dopo una guerra fratricida tra popoli europei (e il tentato sterminio di uno di essi) e come conseguenza delle ferite arrecatici a cui fece seguito il declino dell'Europa nel mondo. Ma è altrettanto vero che l'Europa degli anni '50 non è più quella d'oggi e che mettere nella mani di burocrati il destino di decine di milioni, se non centinaia, di cittadini europei è troppo concedere. Di 'estasi burocratica' parlava anche Dostoevskij. Quella dei burocrati di Bruxelles rischia di far franare tutto il progetto europeo. Vorremmo non doverlo fare, ma a mente fredda 'insinuiamo' (con cautela s'intende) che di questa Europa che coglie gli Stati nel momento della difficoltà per accrescere 'il di sé potere', non sentiamo proprio il bisogno. Tutt'altro.

Napoli, l'immondizia e i concerti


Bruxelles - Arriva il conto. E pure salato. La Commissione europea ha chiesto il rimborso dei 720mila euro utilizzati per pagare il concerto di Elton John in occasione della festa di Piedigrotta a Napoli nel 2009. Lo ha annunciato il portavoce del commissario alla Politica regionale Johannes Hahn. "Dopo la nostra inchiesta, abbiamo inviato ieri una lettera alle autorità della Campania e copia al ministro dell’Economia italiano chiedendo che siano rimborsati i 720mila euro del fondo di sviluppo regionale utilizzati per il concerto di Elton John" ha dichiarato Ton Van Lierop.

La denuncia di Borghezio. Secondo la Commissione che ha cominciato le indagini su segnalazione dell’eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, si tratta di un progetto "a breve durata ed effimero che non rientra nel programma operativo Ue che si rivolge a investimenti a lungo termine". Il portavoce di Bruxelles ha però precisato che il pacchetto complessivo di 2,25 milioni di euro del fondo di sviluppo regionale affidati alla Campania per un più ampio progetto culturale, continueranno a restare operativi, ma da questi occorrerà dedurre e rimborsare i 720mila euro utilizzati per il cachet di Elton John per il concerto dell’11 settembre 2009.