giovedì 30 maggio 2013

Ma vaffanculo, vah


L'ex ministro del Lavoro Elsa Fornero non perde le buone abitudini. Nel mirino delle sue parole ci sono sempre i lavoratori italiani che questa volta definisce come "poco produttivi e troppo costosi". In sintesi la Fornero elegantemente accusa gli italiani di essere "lavativi" e di pretendere salari elevati. Peccato che milioni di suoi connazionali lavorano dieci ore al giorno pern 600-800 euro al mese. Lei comunque con la sua busta paga da docente universitario costa abbastanza e con lei anche sua figlia che come "mamma" ha intrapreso la carriera accademica.

Da choosy a lavativi - L'ex ministro torna a farsi sentire con un'intervista a Class Tv. Così dopo aver chiamato i giovani "choosy", ovvero con poco spirito di adattamento, dopo aver consigliato a tutti di "tornare a lavorare la terra" ora è giunto il momento di essere tacciati come "scansafatiche". La sua riforma che avrebbe dovuto incentivare l'occupazione è stato un flop clamoroso. E ora anche lei si rende conto che quella riforma forse va rivista, come ha già annunciato il nuovo ministro del lavoro Giovannini: "Sono d’accordo con il ministro Giovannini che vada modificata, nessuna norma nasce perfetta, si fanno esperimenti". Se poi gli esperimenti sono sulla pelle degli italiani alla Fornero poco importa.

Fiera del suo flop - Lei non rinnega la sua esperienza di governo e prova un pò di nostalgia: "Nonostante il grande carico di sofferenza sento ancora l’orgoglio di essere appartenuta al governo Monti, Era facile criticare un governo senza appartenenza politica, Mario Monti era molto impegnato come tutti noi. Abbiamo scontato nel nostro operato assenza di risorse e credo che anche l’attuale governo avrà i medesimi problemi".

Esodati - Intanto in dote al nuovo governo la Fornero ha lasciato la grana esodati. Anche su questo punto l'ex ministro pensa di non avere colpe: "Abbiamo salvaguardato 130 mila esodati, su tutti gli altri non mi posso esprimere, spero che il nuovo governo trovi la copertura finanziaria". Poi sempre sugli esodati attacca l'Inps: "L’istituto non ha alcun diritto di rispondere in modo soggettivo su questo tema. Se una persona è stata riconosciuta come salvaguardata non c’è nessuno, nemmeno ai vertici, che possa dare un’opinione diversa. Se non si adegua ritengo debbano esserci delle sanzioni".

La tristezza e la stupidità


Avete presente le bagnine di Baywatch che correvano sulla sabbia dorata di Malibù, esibendo le loro generosissime forme strizzate in costumi rossi? Be’, dimenticatevele. A Jesolo il sindaco Valerio Zoggia, di comune accordo con la Federconsorzi, ha deciso che nella prossima stagione balneare gli steward sulla spiaggia locale saranno soltanto uomini. Niente donne, niente hostess, niente bagnine. La ragione? Le rappresentanti del gentil sesso, nella veste di controllori da litoranea, si farebbero rispettare poco da bagnanti e venditori abusivi di religione musulmana. Nella passata stagione addirittura alcuni immigrati islamici avrebbero offeso e sputato le ragazze del servizio d’ordine, che intimavano loro di rispettare le regole. «Ai loro occhi», ha spiegato il presidente della Federconsorzi Renato Cattai, «non godevano della necessaria autorità, perché i musulmani, per la loro cultura, non ascoltano le donne quando danno ordini o anche solo consigli. Anzi, si agitano e finiscono per offenderle». Quindi la morale è che, per tenere buoni i musulmani, tra l’altro venditori abusivi, il sindaco e la Federconsorzi hanno pensato bene di «far fuori» le donne. Un gran bell’esempio di democrazia e di rispetto. Della civiltà altrui, certo, mica della nostra.

La notizia appare ancor più irritante perché la spiaggia è uno dei luoghi dove si esprimono al meglio la civiltà di un popolo e la sua evoluzione nel tempo. Andare a mare in bikini, costume intero o velo integrale fa la differenza tra l’Occidente e molti Paesi musulmani e segna il discrimine tra il mondo contemporaneo e gli anni del Dopoguerra. L’esibizione del corpo in battigia e l’invenzione stessa del «due pezzi» sono stati un passaggio fondamentale nella crescita del nostro modo di considerare la donna, molto di più della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Dove non riuscì la liberazione dei costumi, poté la libertà di indossare il costume. Tornare a impedire alle donne di frequentare la spiaggia perché malviste dai musulmani, considerarle inadeguate al servizio d’ordine perché prive di autorità, come ha fatto il sindaco di Jesolo, ci sembra una regressione delirante, un conformarsi al pregiudizio altrui, nell’incapacità di segnare la differenza tra due civiltà, la nostra e la loro, peraltro in un luogo dove in passato si sono molte spesso scontrate: il mare.

E poi, diciamola tutta, la spiaggia con bagnini soltanto uomini fa un po’ tristezza. È una discriminazione non solo verso le povere donne scartate, ma anche verso noi maschietti che magari andiamo in spiaggia apposta per godere della soave beltà di queste Veneri che vengon fuori dall’acqua in costumi risicatissimi, e apprezzare la meraviglia del mondo – tanto più in una stagione come l’estate – che ci ha donato insieme il sole, il mare e le donne. Guardare una femmina che si fa un bagno sotto il Solleone è un tributo alla bellezza, un ringraziamento al Creatore, una salvezza insieme erotica e spirituale. Insomma, sindaco di Jesolo, non ci tolga il piacere di simulare l’annegamento per venire salvati, dipoi, da una bagnina con le sue attrezzature e i suoi «gommoni». Non ci sottragga il gusto di fare i monellacci con i racchettoni e i fischi di apprezzamento, per ricevere il dolcissimo rimbrotto di una hostess succinta. Suvvia, lei che è stato eletto prima di Letta con le larghe intese (PdL, Pd e Udc tutti insieme, come in un’ammucchiata da spiaggia), non avrà problemi ad intenderci. A buon intenditor…

Dell'essere insistenti


La Germania torna a fare la maestrina. Stavolta non sull'economia. Pretende di farci la morale in materia d'immigrazione, come se il flusso di disperati proveniente dai paesi poveri dell'Africa, o dilaniati dalle guerre, fosse un problema solo nostro e non (anche) dell'Europa.

Dopo la protesta della città-stato di Amburgo contro le autorità italiane, ora interviene il ministero dell’Interno tedesco, che per rassicurare i propri concittadini dice che l'Italia si riprenderà i profughi che, fuggendo dalla Libia, dal Ghana e dal Togo, sono arrivati in Germania passando dall’Italia. E ricevendo, da Roma, cinquecento euro e i documenti che autorizzano a viaggiare nei Paesi dell’area Schengen. È da inizio maggio - scrive il quotidiano tedesco Bild - che il ministero tedesco tratta con le autorità italiane. E cita cita un portavoce del ministero dell’Interno tedesco "Abbiamo la promessa dell’Italia, che si riprenderanno i fuggiaschi". Ma di quante persone stiamo parlando? Sarebbero circa 300 profughi sbarcati ad Amburgo ed altrettanti a Monaco di Baviera. Bild scrive che dovrebbero rientrare nei loro paesi in aereo "a spese dei Paesi coinvolti". Con il rientro in treno o autobus sussiste il pericolo - avverte il tabloid tedesco - di fuga durante il tragitto. Già a fine marzo, il ministero dell'Interno aveva avvertito le autorità dei Laender tramite una circolare: "Nel territorio federale, in particolare sui bus e treni che oltrepassano il confine della Baviera meridionale, è segnalato l’arrivo crescente di appartenenti a Stati terzi dall’Italia". Sprezzante il commento del ministro dell’Interno della Baviera, Joachim Herrmann (Csu), citato dalla Bild: "Il comportamento del governo italiano è sfacciato". Secondo il giornale tedesco l’Italia avrebbe dato documenti e soldi a 5.700 profughi originari del Nordafrica, a condizione di lasciare la Penisola.

L'Italia per ora non commenta. Una nota diffusa dal ministero dell'Interno precisa che "la somma forfettaria di 500 euro" è stata corrisposta agli immigrati "al fine di contribuire alle spese di prima necessità e a supporto di un percorso di integrazione in Italia". "Ovviamente - si legge ancora - qualora lo straniero sia in possesso di un valido permesso di soggiorno e siano soddisfatti i requisiti di ingresso e soggiorno previsti dall’art. 5 della Convenzione Schengen, lo straniero può circolare e può rimanere nel territorio tedesco, come nel territorio di uno degli altri Stati membri, per un periodo di tre mesi trascorsi i quali le autorità tedesche devono rinviarlo in Italia". Piaccia o no ai tedeschi, il problema immigrazione riguarda tutta l'Europa, non solo i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle cui coste approdano i disperati provenienti dall'Africa. Servono risposte comuni. Non ci vuole molto a capirlo.

mercoledì 29 maggio 2013

Il prezzo delle guerre altrui


Londra garantirà protezione in patria a 600 interpreti, gli americani sostengono un programma speciale di 500 visti all'anno per i collaboratori afghani che hanno rischiato la vita contro i talebani. Pure Italia e Germania non lasceranno i collaboratori locali alla mercè delle rappresaglie dopo il ritiro del 2014. La Farnesina conferma che il nostro Paese permetterà «la presentazione di domanda d'asilo ai cittadini afghani che abbiano collaborato o che tuttora collaborino con il contingente italiano, la cui situazione personale sia tale da ritenere fondatamente che possano correre rischi di danni alla propria persona o ai propri familiari o che siano esposti a minacce, in virtù del servizio prestato a favore della coalizione». Una ventina di afghani erano già partiti con le nostre colonne in ripiegamento lo scorso anno da Bala Murghab, Bakwa e Gulistan. Dalla Difesa confermano che sono stati ridislocati nelle basi a Farah, Shindad e Herat, ma chi voleva poteva tornare a casa. Quanti afghani chiederanno protezione in Italia? La stessa fonte militare spiega che «un numero totale non lo abbiamo ancora, ma stiamo affrontando il problema basandoci sulle richieste volontarie». Oltre agli interpreti ed ai lavoratori fissi nelle basi, anche i servizi segreti dovranno garantire la sicurezza dei loro collaboratori locali. Non solo: al Giornale risulta che personaggi influenti, come la prima donna procuratore generale di Herat, hanno cominciato a mettere le mani avanti chiedendo protezione all'Italia in caso di necessità.

I più esposti e visibili agli occhi dei talebani sono i cosiddetti Terp, gli interpreti afghani, che con il giubbotto antiproiettile ed il volto spesso coperto seguono le truppe in prima linea. Probabilmente c'era un Terp anche ieri quando un'autobomba ha colpito una colonna mista di italiani e afghani e due bersaglieri sono rimasti feriti. In Afghanistan resteremo anche dopo il 2014, ma a ranghi ridotti. La Farnesina rivela che in vista del ritiro «il Ministero degli Esteri ha da tempo promosso una riflessione congiunta Esteri-Difesa-Interni, al fine di individuare le misure idonee a permettere al personale afgano che abbia collaborato con Isaf di presentare la domanda di protezione internazionale in Italia». I militari dovranno segnalare chi è veramente a rischio e poi l'ambasciata a Kabul provvederà «ad autorizzare il loro ingresso in Italia» dove chiederanno l'asilo. Al momento sono impiegati con il contingente italiano 78 interpreti, che guadagnano dai 700 ai 1200 dollari al mese, ma ci sono altre decine, se non centinaia di lavoratori locali e di personaggi influenti che potrebbero aspirare alla protezione dell'Italia. Il problema è che assieme a loro devono partire pure i familiari o i membri allargati del clan. Una fonte riservata del Giornale rivela che pure Maria Bashir, procuratore generale di Herat, ha messo le mani avanti, fin dalla scorso anno, con una richiesta di protezione per sé e la famiglia allargata. L'unica donna a questo livello nella magistratura afghana ha già subito un attentato ed il fallito rapimento di uno dei figli.

Gli inglesi si porteranno in patria al momento del ritiro i Terp che hanno servito per 12 mesi di fila in prima linea dal dicembre 2012. Londra calcola che saranno circa 600 afghani con relative famiglie. Il Dipartimento di Stato americano garantisce 500 visti d'ingresso Usa all'anno per i collaboratori locali in Afghanistan. Pure la Germania, che nel nord del Paese impiega oltre 1600 afghani con varie mansioni, sta pensando ad una soluzione per evitare le rappresaglie dopo il ritiro. Zabiullah Mujahed, portavoce dei talebani, non ha dubbi: «Come gli stranieri se ne andranno, i collaborazionisti pagheranno il prezzo del loro tradimento».

martedì 28 maggio 2013

Liberi di crederci o no

Difendere le proprie origini... a casa d'altri


Nuova polemica a distanza tra Cecile Kyenge e il Carroccio. Dopo l'intervista con Lucia Annunziata, il ministro dell'Integrazione è finito nell'occhio del ciclone per le sue dichiarazioni "tenere" sulla poligamia. Dichiarazioni che la Kyenge non ha alcuna intenzione di ritrattare: "Sono nata in una famiglia poligamica, e non si rinnegano mai le proprie origini".

"Sono entrata da irregolare in Italia", ha raccontato il ministro a In mezz'ora ribadendo che il reato di immigrazione clandestina va abolito e annunciando che la legge sul diritto di cittadinanza e voto agli stranieri nati in Italia è in dirittura d’arrivo. "Crescere con tanti fratelli mi dà l’idea di vivere all’interno di una comunità - ha spiegato la Kyenge ai microfoni di Rai3 - facilita i rapporti con l’altra parte della società, al di fuori della famiglia". Se da una parte giustifica il padre "cattolico" dal momento che in alcuni stati la legge permette di sposare fino a quattro mogli, dall'altra sembra suggerire al Vaticano: "Questi sono Paesi dove religione e tradizione hanno imparato a convivere". Immediate le polemiche a cui questa mattina, a margine della cerimonia di Pesaro per il conferimento della cittadinanza onoraria ai figli di immigrati nati in Italia, la Kyenge ha replicato duramente. Alla Lega Nord e a Forza Nuova, che l’hanno accusata di difendere la poligamia, il ministro non ha voluto rispondere: "Sono nata in una famiglia poligamica, e non si rinnegano mai le proprie origini. Ma questo non vuol dire condividere quell’idea".

"Spero che mia madre possa dare un sostegno alla cultura dell’integrazione perché questo è un bene per l'Italia", ha commentato Marisha Kyenge, la figlia ventunenne del ministro che ha preso parte a Pesaro, insieme a numerosi altri familiari del ministro, alla cerimonia di consegna degli attestati di cittadinanza onoraria. Marisha, che studia Cultura della Moda a Rimini, ha parlato anche delle contestazioni subite dalla madre: "È una donna forte, indifferente a questi attacchi, non si lascia toccare dalle contestazioni". Anche a Persaro non sono certo mancate le contestazione della Lega Nord che ha organizzato un picchetto di protesta in piazza del Popolo. La manifestazione è stata comunque organizzata lontano dal Teatro Rossini, dove si trovava la Kyenge, per ragioni di ordine pubblico. "L'unica opposizione al governo è stata letteralmente 'confinata' in un luogo lontano da quello richiesto - hanno denunciato i leghisti - per impedirle di manifestare il proprio dissenso alle proposte e dichiarazioni di un ministro".

E allora? Siamo nella civile ue, no?


La Germania accusa l'Italia di aver violato gli accordi europei in materia di immigrazione, spingendo alcune centinaia di profughi africani che avevano raggiunto il nostro Paese a proseguire il viaggio, fino ad Amburgo, in cambio di denaro e permessi di soggiorno. Dura protesta dell’amministrazione della città-Stato di Amburgo contro le autorità italiane. Il ministro regionale per gli Affari Sociali, il socialdemocratico Detlef Scheele, ha avvertito che i migranti che arrivano in Germania dall’Africa "non hanno alcuna possibilità, diversamente che in Italia, di ottenere un permesso di lavoro, non hanno diritto all’alloggio e nemmeno alle prestazioni sociali". Il ministro ha poi sottolineato che "sarebbe irresponsabile incentivare false attese, il ritorno è l’unica opzione" e bisogna rispedirli "dove possono lavorare e dove hanno un diritto di soggiorno: ciò è possibile in Italia o nei loro Paesi d’origine". Il quotidiano Die Welt pubblica il contenuto di una lettera di due pagine che il Ministero federale dell’Interno ha inviato alle autorità dei laender responsabili per l’accoglienza degli stranieri in cui si afferma che l’Italia avrebbe offerto 500 euro a parecchi migranti provenienti dall’Africa, incoraggiandoli a recarsi in Germania, dopo averli muniti di documenti validi tre mesi, che autorizzano a viaggiare nei Paesi dell’area Schengen. Nel documento è scritto che "cittadini di Paesi terzi (esterni all’Ue, ndr), secondo quanto da loro dichiarato, hanno ottenuto 500 euro dalle autorità italiane per lasciare volontariamente i centri di accoglienza in via di chiusura". Nella lettera del ministero dell’Interno, citata dal giornale, si aggiunge che "ai profughi il denaro è stato messo in mano con l’invito a recarsi in Germania". Nel frattempo sono arrivati ad Amburgo oltre 300 migranti, provenienti da Nigeria, Togo e Ghana, che dopo lo scoppio della guerra civile in Libia, invece di tornare in patria si sono rifugiati in Europa. Molti di loro sono attualmente accampati all’aperto nella città anseatica dietro il monumento a Bismarck.

Contenti loro...


All'unanimità. Cioè, con 545 sì. La Camera ha approvato la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta nei confronti delle donne e la violenza domestica siglata a Istanbul nel maggio del 2011. Si tratta del primo strumento internazionale per la lotta alla violenza contro le donne. Il provvedimento va ora al Senato.

IL TRATTATO - Ma cosa prevede la convenzione? Contrasta ogni forma di violenza, fisica e psicologica sulle donne, dallo stupro allo stalking, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali e impegno a tutti i livelli sulla prevenzione, eliminando al contempo ogni forma di discriminazione e promuovendo «la concreta parità tra i sessi, rafforzando l'autonomia e l'autodeterminazione delle donne».

lunedì 27 maggio 2013

Risarcimenti danni ai detenuti... che ridere


L'emergenza carceraria italiana va risolta entro un anno. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha infatti rigettato il ricorso dell'Italia avverso alla sentenza dell'8 gennaio scorso con cui il sistema penitenziario nazionale era stato condannato per trattamento inumano e degradante inflitto agli ospiti delle strutture carcerarie. Il procedimento giudiziario nasce dalla denuncia di 7 detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. Oltre a prescrivere urgenti modifiche alle strutture detentive, i giudici europei hanno imposto all'Italia un'ammenda di 100 mila euro per i danni morali arrecati ai denuncianti.

IL RICORSO - Il ricorso presentato dall'avvocatura dello Stato chiedeva che il caso venisse riesaminato davanti alla Grande Camera Torreggiani. A seguito del rigetto disposto dalla Corte di Strasburgo, la sentenza è diventata oggi definitiva. L'Italia ha ora un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime.

LE CONSEGUENZE - A fronte di una capienza complessiva di 45.588 unità, le carceri italiane ospitano ad oggi 66.009 detenuti (dati rapporto Antigone). In quasi tutti i penitenziari italiani si assiste a scene degradanti, con fino a 8 persone stipate in celle ideate per quattro o addirittura due. Le norme sanitarie dispongono uno spazio minimo di almeno 9 metri quadri a detenuto. I ricorsi di chi è ristretto in spazi inferiori ai 3 metri sono invece già più di 400. È qui che nasce la piaga del sovraffollamento carcerario alla base della sentenza di Strasburgo. Ora lo Stato italiano deve correre ai ripari: «Se entro un anno non viene risolto in modo strutturale il problema del sovraffollamento carcerario - spiega Amedeo Barletta, docente universitario di Diritto Europeo e Costituzionale - lo Stato potrebbe dover far fronte a migliaia di altre richieste di risarcimento di altri detenuti già pendenti davanti alla Corte Europea dei Diritti e a tutte che seguiranno dopo questo precedente».

Punti di vista


Il suicidio di Dominique Venner a Parigi martedì scorso ha compiuto una duplice dissacrazione: ha dissacrato la Chiesa perché spararsi un colpo di pistola in Notre-Dame significa profanare un luogo sacro e una fede che condanna senz'appello il suicidio. Ma il gesto ha dissacrato anche la nuova religione civile del nostro tempo che si sostituisce alla religione cristiana. I suoi punti fermi oltre le nozze gay e la relativa adozione, si concentrano su una serie di anatemi contro il razzismo, il sessismo, l'omofobia, l'accanimento alla vita. I campi di applicazione si estendono ai temi bioetici, all'aborto e all'eutanasia, alle coppie di fatto e alla procreazione assistita, ai transgender e all'uso di stupefacenti, alle scuole private e all'immigrazione, con i suoi effetti collaterali. È sorto in Occidente un vero e proprio catechismo laico su questi «valori» che passa dall'America di Obama alla Francia di Hollande, ha precedenti nella Spagna di Zapatero, in Olanda e nei Paesi scandinavi dove il socialismo statalista conviveva con un libertarismo radicale. In Italia questa nuova religione civile ha sostituito il comunismo, a volte integrandosi col pacifismo e l'ecologia. La sconfitta delle culture socialiste rispetto al capitalismo e al mercato le ha portate a ripiegare sui diritti civili e sulla religione bioetica, come alibi consolatorio del fallimento sul piano della giustizia sociale. Il socialismo ha ceduto il posto al radicalismo.

Questa religione etica ha oggi una testimonial istituzionale, la presidente della Camera Laura Boldrini, autentica vestale a guardia del fuoco sacro. Chiunque metta in discussione questi principi inviolabili viene accusato dal nuovo clero laico di cadere in uno dei nuovi peccati mortali - omofobia, sessismo, razzismo, fascismo, accanimento alla vita - e viene perciò scomunicato, considerato blasfemo, peccatore e condannato alla pubblica gogna del disprezzo mediatico, fino a perseguire i trasgressori a norma di legge. La Nuova Inquisizione punisce i reati d'opinione, sancisce il moralismo giudiziario da intercettazioni e invoca norme che prevedano l'ineleggibilità per violazione dei sullodati precetti. Questa religione etica si traduce anche in chiave politica dando luogo al famoso canone del politically correct che provvede come il Sant'Uffizio a squalificare l'avversario. La religione bioetica esercita un disprezzo antropologico verso chi si pone in difesa dei valori della famiglia, della tradizione, della natura e della vita. Anni fa parlai di razzismo etico, una forma inedita di razzismo rispetto a quello «etnico», tristemente noto nel passato. Il razzismo etico è fondato sulla pretesa superiorità di una razza di illuminati rispetto ai retrogradi, oscurantisti nemici della religione bioetica. Una razza che decide quali sono i valori ammissibili e quelli inammissibili. Al razzismo etico (e al mio libro Comunitari e liberal) si è riferito di recente Luca Ricolfi nel suo pamphlet bipartisan La Sfida. Come destra e sinistra possono governare in Italia (Feltrinelli, pp.78, euro 6).

Al razzismo etico oggi non manca una precettistica moralista e una teoria dei diritti umani e individuali. Riassume queste due posizioni una coppia di recenti pamphlet di Stefano Rodotà, Elogio del Moralismo e Il diritto di avere diritti, entrambi editi da Laterza. Sin dai titoli, Rodotà esprime con chiarezza il perimetro etico di questa nuova religione. Non a caso Rodotà è diventato, dopo la sua candidatura grillina al Quirinale, l'ayatollah laico di questi nuovi pasdaran della rivoluzione mancata. Vi confluiscono in questo universo tutte le sinistre insoddisfatte, i girotondini e il popolo viola, Giustizia e libertà, i nuovi movimenti, Sel, frange del Pd e di 5 Stelle, molti quotidiani e riviste storiche di sinistra, i residui giustizialisti di Ingroia e Di Pietro e qualche esponente cattomoralista. È curioso pensare che la biografia collettiva di questo movimento trae origine dal '68 e contempla ai suoi esordi la lotta contro il bigottismo morale e religioso. Ma dopo avere demolito ogni senso morale comune, ha poi edificato un nuovo moralismo con risvolti giudiziari. A fronte di questo rigorismo puritano esercitato contro gli avversari, vi è invece la rivendicazione di un libertarismo giuridico individuale assoluto, che ben si compendia nella formula «il diritto di avere diritti». I doveri non sono presi in considerazione se non nella sfera del moralismo e della precettistica verso terzi. Ovvero: la vita è mia e me la gestisco io, ma la vita tua fa schifo assai. Permissivi in generale, però moralisti su certi temi e in alcuni casi.

Questa è oggi l'unica religione civile che serpeggia in Occidente e in Italia. Dall'altra parte, troppo pallida o naïve appare la risposta opposta. Nel versante moderato e conservatore si assiste a una frattura tra i Pragmatici, che tendono a cedere sul terreno culturale e legislativo alle richieste della nuova religione etica - si pensi ai conservatori britannici, ma è solo l'ultimo esempio - e i Cocciuti, una compatta ma perdente minoranza che protesta, si agita ma è inadeguata a sostenere le sfide culturali. Alla nuova religione civile fondata sul razzismo etico, non si può rispondere col piagnisteo reazionario e con la pura invettiva, chiudendosi nella ripetizione del passato e nei superstiti fortini. Messi fuori gioco i reazionari, il paesaggio civile appare così dominato da un'avvilente alternativa: da una parte il nuovo clero dei moralisti con la loro religione etica dei diritti civili, e dall'altra parte i cinici del nichilismo che agitano solo questioni pratiche o economiche e rifiutano di affrontare principi e temi di fondo, lasciando questo terreno al nuovo clero bioetico. Tutto questo viene dissimulato sotto la coperta liberale. Si tratta invece di vera e propria diserzione sul piano dei principi, di ignavia sul piano dei pensieri e di opportunismo sul piano dei comportamenti. Manca una risposta efficace e credibile che ripensi in modo intelligente i principi della tradizione, il rapporto tra natura e cultura, tra sfera personale e comunitaria, tra diritti e doveri, tra libertà e autorità. Non rifugiatevi dietro il comodo alibi, noi siamo liberali, scaricando tutto a livello di scelte private e individuali. Non rispondete al moralismo col cinismo, al bigottismo col nichilismo pratico. Sfidate a viso aperto il razzismo etico e il suo clero presuntuoso. Abbiate il coraggio di esprimere una visione della vita.

sabato 25 maggio 2013

Aggressioni mortali e non...

Dopo Milano, Londra, Stoccolma, ora anche a Parigi... si parla di "false flag" per distogliere l'attenzione o forse no. Ma la colpa è sempre della destra...


A pochi giorni dal massacro di Woolwich, nel Regno Unito si parla nuovamente di “islamofobia”. E il Paese entra nel panico, dopo il caso di ieri dell’aereo proveniente dal Pakistan e fatto atterrare, fra la massima allerta e l’allarme, all’aeroporto di Stansted, dopo che due passeggeri avevano destato sospetti. Ma è a terra che la preoccupazione, venerdì, si è fatta più evidente. Gli attacchi e gli atti violenti nei confronti della comunità musulmana sono infatti aumentati a dismisura e, in poco più di 48 ore, se ne sono contati almeno 150. Nove moschee sono state oggetto di raid, in una, a Milton Keynes, è stata persino lanciata una bomba incendiaria. Così, allo stesso modo, si sono avuti assalti a singoli musulmani, graffiti anti-Islam, ma, soprattutto, a scaldare i motori sono il British National Party (Bnp) e la English Defence League (Edl), due partiti di estrema destra recentemente caduti in disgrazia per la perdita del supporto e a rischio collasso, ma che dai fatti di Woolwich stanno cercando di ottenere nuova visibilità. La Edl marcerà la settimana prossima a Newcastle e a Londra – lunedì – per protestare contro l’apertura di scuole islamiche e di moschee. Mentre, a poche ore dall’omicidio del soldato Rigby, un rappresentante del Bnp è entrato nell’occhio del ciclone, per avere scritto su Twitter che gli assassini del militare dovevano essere “avvolti in pelli di maiale” e lasciati in mano a un plotone di esecuzione. Gli attacchi contro le moschee si sono avuti anche a Gillingham, Braintree, Bolton e Cambridge. Secondo il quotidiano The Independent, che ha seguito i singoli episodi, negli ultimi giorni il numero dei reati contro le comunità musulmane è cresciuto a un ritmo superiore di dieci volte alla media. Ma l’allarme è anche sul web, con pagine facebook e blog che incitano apertamente all’odio. La pagina chiamata “True British Patriots” ha chiamato alle armi per fare in modo che le moschee vengano “bruciate e buttate giù”. E a poco è servito l’appello di oltre cento rappresentanti religiosi musulmani che hanno detto che “criminali e loro supporter sentiranno la forza della legge”. Così, allo stesso modo, non è servito a molto che il vice primo ministro, il liberaldemocratico Nick Clegg, si facesse vedere e tenesse un discorso insieme a militari e a leader islamici.

La situazione, a Londra e dintorni, si fa di ora in ora più “calda”, ma anche la provincia più profonda del Regno Unito viene coinvolta dall’odio o, perlomeno, dal risentimento. Intanto, nei quartieri a più alta concentrazione di cittadini musulmani, si rafforza la presenza della polizia. Nella capitale, a Tower Hamlets, a Shadwell, a Stratford – sede del quartiere olimpico – e in generale in tutto l’est della metropoli inglese, le pattuglie girano ininterrottamente e l’attenzione si concentra soprattutto attorno ai luoghi di culto. Dai quali, accusano ora tabloid e giornali di destra britannici, non sono tuttavia mancati discorsi abbastanza ambigui sui fatti di Woolwich. Il Daily Mail riporta casi di appelli di “solidarietà” ai killer del soldato, anche se al momento a fare più notizia sono le vicende che coinvolgono “l’altro fronte”. Oggi apparirà davanti ai giudici un 22enne di Lincoln, arrestato ieri dopo alcune lamentele relative ai suoi post sul suo profilo facebook, giudicati razzisti e “islamofobi”. Il razzismo, nel Regno Unito, viene punito severamente, in ogni sua espressione. Ma è in momenti come questo, dopo che il giovane Lee Rigby si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, che la vantata tolleranza dei britannici viene messa in discussione e viene messa alla prova dagli stessi sudditi della regina Elisabetta.

I regali di Corrado Passera...


Un risparmio fino a 500 milioni di euro in bolletta: i consumatori di elettricità italiani avrebbero potuto goderne già da quest’anno. Sfruttando gli effetti del nuovo dinamismo del mercato del gas per ridurre il peso dei vecchi incentivi statali al Cip6. Invece un atto firmato dall’ex ministro dello Sviluppo Corrado Passera nelle ultime ore di vita del governo tecnico ha stabilito che tutto slitterà (se va bene) almeno di un anno. Il decreto in questione è datato 24 aprile, lo stesso giorno in cui Enrico Letta accettava con riserva l’incarico dal presidente Giorgio Napolitano. Si tratta dell’atto con cui ogni anno il ministero dello Sviluppo economico definisce a conguaglio la remunerazione per le centrali soggette alle convenzioni di cui al provvedimento Cip n. 6 del 1992. Un conto, pagato dalle bollette, che quest’anno sarà più salato del necessario. Un passo indietro: il Cip6/92 è stato il primo importante meccanismo di incentivazione della produzione elettrica privata in Italia. Due le principali tipologie sussidiate: le fonti rinnovabili e le cosiddette fonti “assimilate” alle rinnovabili, ossia cogenerazione da combustibili derivati da processi industriali come siderurgia, chimica e raffinazione del petrolio e, a certe condizioni, da combustibili fossili. Ha permesso la costruzione di circa 3.000 MegaWatt di impianti verdi e 5.000 MegaWatt assimilati, in una fase in cui in Italia mancava capacità produttiva. Nel contempo però si è rivelato costosissimo, nonché refrattario a ogni tentativo di revisione normativa. L’onere netto in bolletta è arrivato così a pesare 3,5 miliardi di euro all’anno nel 2006, di cui due terzi per le assimilate (spesso assai diverse da quelle energie “verdi” che si volevano incentivare).

Oggi molte convenzioni sono scadute o sono state risolte in anticipo, come nel caso di Edison, uno dei maggiori operatori Cip6. Tra quelle restanti, ormai prossime alle fine, le maggiori sono quelle dei raffinatori come Erg (Garrone) e Saras (Moratti). L’onere in bolletta si aggira oggi intorno a 1 miliardo all’anno. Gli impianti Cip6 percepiscono una remunerazione per kilowatt/ora prodotto legata al tipo di tecnologia e ai cosiddetti “costi evitati”, quelli cioè che l’allora monopolista Enel avrebbe sostenuto se fosse stato esso stesso a costruire l’impianto. Il più importante di essi è il costo evitato di combustibile (Cec): il produttore Cip6 riceve il valore del quantitativo di gas che sarebbe stato necessario a produrre col metano il kWh generato dall’impianto. Ma come si calcola il valore del gas “non bruciato”? Il punto è qui e con questo si arriva al decreto di Passera. Per il calcolo si usano parametri simili a quelli tradizionalmente usati dall’Autorità per l’energia per il definire i prezzi del gas alle famiglie, basandosi cioè sull’andamento del prezzo del petrolio e derivati. Negli ultimi anni però il mercato gas è cambiato e i prezzi di riferimento sono diventati sempre più quelli dei mercati spot. Tanto che l’Autorità ha deciso che da ottobre i prezzi regolati dipenderanno dai mercati spot anziché dai prezzi del greggio.

Perché allora non adottare lo stesso criterio anche per il costo evitato Cip6? È quanto si è chiesta la stessa authority in una delibera pubblicata a dicembre, in cui suggeriva al ministero dello Sviluppo di cambiare il calcolo del Cec legandolo ai prezzi del mercato del bilanciamento. Così facendo, stimava l’Aeeg, sull’energia Cip6 ceduta nel 2012 si risparmierebbero 500 milioni di oneri in bolletta. Il ministero però ha deciso di mantenere il vecchio criterio di calcolo anche se fuori mercato, per poi eventualmente cambiare nel 2013. A una richiesta di commento, i tecnici del ministero replicano che il Mise ha già in parte tagliato il Cec con un decreto di novembre (che però prevede deroghe). Che i maggiori cambiamenti del mercato sono arrivati solo nel 2012. E che, in generale, “un taglio retroattivo sarebbe stato scorretto: gli operatori avevano già chiuso gli acquisti del combustibile. Dal 2013 arriverà un cambiamento nel senso indicato dall’Autorità, con una fase di transizione”. Sarà, ma dov’è il problema-retroattività se spesso acquirente e venditore del combustibile sono lo stesso soggetto? Secondo una ricognizione dell’Autorità a novembre, già nell’estate 2011 le industrie acquistavano il gas per l’anno successivo a un prezzo sensibilmente inferiore alle formule legate al greggio: circa 35 centesimi al metro cubo contro i 42 riconosciuti dal decreto Passera. Segno che spazio almeno per un ritocco c’era. Di sicuro gli impianti Cip6 ringraziano. I consumatori no.

Come volevasi dimostrare...

Un articolo di Marco Della Luna... e nemmeno troppo profetico... anzi, forse era anche ovvio.


Una tassa di scopo sui redditi da lavoro e sulle pensioni oltre i 60mila euro (lordi) per racimolare dai 2 ai 3 miliardi di euro in quattrini sonanti e dare quindi sostanza (e fondi) a tutte le belle parole sulla “drammatica crisi occupazionale”, sui “giovani che non hanno lavoro”, sul baratro occupazionale di una generazione che non ha (e avrà futuro). La grande trovata di cui si discute a via XX Settembre - e a cui si è accennato anche al ministero del Welfare durante l’incontro con i sindacati e gli imprenditori - è proprio una nuova tassa che andrebbe a colpire chi guadagna da 3.000 euro netti al mese in poi. Insomma, nulla di nuovo. Si mazzola il ceto medio che le tasse le paga e non può farne proprio a meno.

I fantomatici fondi europei che dovrebbero sbloccarsi con il superamento della procedura d’infrazione europea (stimati in circa 12 miliardi), sono e resteranno ancora ben lontani dalle casse del governo. Il problema è che tra chiusura della procedura e l’effettiva disponibilità di cassa passeranno mesi. Tanto più che per attivare parte dei fondi europei serve finanziare con risorse nazionali di pari importo i progetti a cui si ambisce. Insomma, è un bancomat al 50%: metà li mette Bruxelles a condizione che il governo nazionale stanzi il restante 50%. In Italia, invece, occorre iniettare subito soldi freschi per favorire la ripresa occupazionale. L’emergenza è concreta ma i provvedimenti fin ora varati non sembrano indicare particolare fantasia. Ricordate la trovata per dare copertura al posticipo della prima rata Imu? Sono stati prelevati soldi da altri capitoli di bilancio e dragate risorse da spese preventivate e approvate, ma mai finalizzate. Come i 100 milioni promessi a Gheddafi nel 2008 e mai spesi per opere infrastrutturali di compensazione in Libia. E infatti ha già fatto storcere il naso in Confindustria l’altra trovata, ovvero il “prestito” che il governo si è fatto autonomamente prelevando quasi mezzo miliardo di fondi dai capitoli per la formazione e l’incremento dei salari di produttività.

Grattato il barile - Prelievo “temporaneo” - ha garantito tempestivamente Palazzo Chigi - per dare copertura alla sospensione della prima rata dell’Imu di giugno. Manovra contabile quantomeno bizzarra in un momento in cui bisognerebbe invece rilanciare la qualificazione professionale, aiutare chi è stato espulso dal mondo del lavoro, rendere professionalmente appetibili i lavoratori meno formati. Il prelievo temporaneo da altri capitoli di bilancio messo in piedi per l’Imu dimostra la disperazione di cassa del governo. In confronto con l’impegno di spesa dell’Imu la partita occupazionale è ciclopica. Secondo uno studio dell’Ires Cgil la platea degli italiani in difficoltà (disoccupati, inoccupati, cassintegrati, ecc) è ormai di quasi 9 milioni di persone. E l’unico modo per incentivare le imprese ad assumere è ridurre il carico fiscale sul lavoro, vale a dire staccare incentivi sostanziosi per le nuove assunzioni. Morale: servono soldi freschi da iniettare. E non essendoci il becco di un quattrino in cassa - per il momento, almeno - si ragiona e ci si chiede dove trovare soldi freschi. E la trovata geniale - in vigore in Italia dai tempi della guerra di Abissinia - è aumentare le tasse a chi già le paga (dipendenti, pensionati e contribuenti regolari. Ovvero tutti quelli che già pagano e che in caso di un miniprelievo assicurano un immediato flusso di cassa. La quadratura del cerchio a cui poteva tranquillamente arrivare anche un semplice contabile, senza scomodare i cervelloni dell’economia astratta.

Solo che per drenare da 2 ai 3 miliardi di nuove risorse fresche bisogna abbassare, e di molto, l’asticella dei pagatori. Ovvero andare a colpire non solo i benestanti da 300mila euro all’anno (sono poco più di 32mila quelli che dichiarano redditi tanto consistenti), ma coinvolgere nella platea dei tartassati per lo scopo lavoro anche chi prende un dignitoso stipendio ma nulla di più. Con un prelievo progressivo dall’1 al 7% per i redditi più alti. Che si tratti di qualcosa di più di una possibilità lo dimostra la serietà con cui ne parla anche un sindacalista navigato come Raffaele Bonanni: «La tassa di scopo sulle pensioni d’oro e sui redditi alti va bene ma non basta», ha messo le mani avanti il segretario confederale della Cisl da Lecce. Ma Bonanni, che di governi ne ha visti tanti - e di “tasse di scopo” almeno altrettante - è molto più prudente sull’eventuale (sovrastimato) gettito che l’imposta per il lavoro potrebbe fruttare realmente: «Va benissimo per far vedere alla gente che c’è un po’ di giustizia», ammette, «ma nella situazione economica attuale non credo che porterà tante risorse quante ne servono per rilanciare l’occupazione. La tassa di scopo va bene ma non illudiamo la gente che da lì si traggono i soldi che servono».

Delle facce come culi


Stipendio mensile netto aumentato del 24%, rimborsi spesa più generosi degli attuali, ma legati alla reale produttività, più portaborse e meglio pagati con stipendi però erogati direttamente da Camera e Senato in modo che a nessuno venga la tentazione di mettersi direttamente in tasca quei soldi. È la proposta di legge n.495 depositata a Montecitorio dal primo firmatario: il deputato del Pd Guglielmo Vaccaro. Una firma di peso, perché Vaccaro non è soltanto uno dei leader del partito in Campania, ma soprattutto il principale luogotenente dell’attuale presidente del Consiglio, Enrico Letta. I due fanno coppia fin dalla prima Repubblica, quando entrambi avevano cariche di vertice nel movimento giovanile democristiano. Vaccaro poi fu voluto da Letta con sé alla sua segreteria tecnica da ministro dell’Industria fra il 1999 e il 2001, e lo stretto sodalizio si è rafforzato prima nella Margherita e poi nel Partito democratico. Proprio per questa sintonia ha un peso non indifferente quella proposta di legge che dopo anni di bandiere grilline sventolate per la prima volta capovolge la questione dei costi della politica, proponendo di pagare di più i parlamentari a patto che siano produttivi.

L’idea di base di Vaccaro è prendere a modello lo status economico degli europarlamentari, rimodulando solo i rimborsi spese perché girare l’Italia è naturalmente meno costoso che percorrere i 27 Stati dell’Europa. La sua proposta è di dare a deputati e senatori la stessa indennità mensile netta degli europarlamentari: 6.200 euro netti contro gli attuali 5 mila scarsi. Un aumento di 1.200 euro netti mensili, pari appunto al 24% in più. Una volta fatta questa scelta, sarebbe direttamente indicizzata alle rivalutazioni e alle decisioni del Parlamento europeo, e quindi nessuna campagna sui costi della politica o polemica a 5 stelle potrebbe incidere su quello stipendio messo in sicurezza. Diverso il caso dei rimborsi spesa, che verrebbero presi dal modello di Strasburgo, e come là legati direttamente alla produttività, ma con quote generalmente dimezzate. L’unico vantaggio potrebbe essere quello della diaria. Vaccaro infatti propone che «a titolo di rimborso delle spese di soggiorno, ai membri del Parlamento è assegnata una diaria di entità pari all’indennità di soggiorno erogata in favore dei membri del Parlamento europeo. Tale diaria è corrisposta in proporzione alle effettive presenze del parlamentare in assemblea e nelle commissioni parlamentari delle quali fa parte». Oggi la diaria è pagata con un forfait di 3.503,11 euro netti mensili. Al parlamento europeo è invece di 304 euro ogni giorno di presenza. Però fra Strasburgo e Bruxelles al massimo si può raggiungere 80-100 giorni di presenza all’anno, e quindi è impossibile avere più di 2.500 euro al mese di diaria. Nel parlamento italiano invece Laura Boldrini e Piero Grasso si sono impegnati a fare lavorare tutti dal lunedì al venerdì: 5 giorni alla settimana fra aula e commissioni. Se uno fosse presente tutti i giorni arriverebbe a 6.688 euro mensili di diaria, quasi il doppio del massimo ottenuto oggi. Per le spese generali oggi i parlamentari ricevono 1.845 euro diretti e 1.845 euro dietro presentazione di documentazione, normalmente impegnati per pagare il cosiddetto portaborse.

La proposta Vaccaro è di assegnare loro a fronte dei primi 1.845 euro la metà esatta del fondo messo a disposizione dei parlamentari europei, e cioè 2.150 euro al mese, più «il rimborso delle spese di viaggio sostenute nel territorio nazionale per lo svolgimento del mandato, previa presentazione della relativa documentazione ovvero di una autocertificazione». Anche qui l’aumento potrebbe rivelarsi consistente. Molto più alto quello delle spese per i collaboratori: a fronte degli attuali 1.845 euro mensili, si propone il 50% «di quanto previsto per la medesima finalità in favore dei membri del parlamento europeo», e cioè 8.950 euro mensili. Non un centesimo di quella somma però - a differenza di quel che avviene ora - potrebbe finire nelle tasche di deputati e senatori: sarebbero Camera e Senato a fare i contratti e a preparare le buste paga per i 3 collaboratori assumibili con quella cifra. Verrebbe invece ridotto il fondo per i rimborsi di spese di trasporto, che passa da 1.107 a 400 euro mensili , e annullato il rimborso spese telefoniche che attualmente è di 258 euro al mese. Il fedelissimo di Letta poi aggiunge: «I membri del Parlamento hanno altresì diritto al rimborso dei due terzi delle spese mediche e delle spese connesse alla gravidanza e alla nascita di un figlio». Il totale netto mensile legato alla funzione di parlamentare passerebbe dunque in linea teorica dagli attuali 13.558 euro a 24.388 euro mensili. Su base annuale si passa dagli attuali 153,7 milioni di euro a 276,6 milioni di euro. Una differenza di 123 milioni di euro, anche questa teorica, perché si spenderebbe di meno quanto meno i parlamentari dovessero lavorare. Per risparmiare rispetto ad oggi ci vorrebbe un Parlamento si scansafatiche, e chissà che non pensino proprio a quel modello i lettiani quando dicono di volere tagliare i costi della politica…

Franco Bechis

Come si andrà avanti...


Il regime in questi giorni alza l’allarme sulla disoccupazione che si impenna, sulla produzione che si affossa, sulle piccole aziende che muoiono in massa. Il Quirinale grida alla crisi angosciante. Evidentemente, il regime sta creando panico sociale per far passare qualche brutto giro di vite fiscale, giustificato con l’esigenza di salvare posti di lavoro, e che invece produrrà effetti contrari, perché recessivi – come tutti i precedenti. Farà una nuova tassa patrimoniale, o una nuova razzia sui conti correnti, magari convertendo i depositi in azioni della banca depositaria, per risanarla a spese dei clienti, e consentirle così di creare nuove bolle, nuove voragini e nuove emergenze coi giochi speculativi in cui le banche oggi impiegano prevalentemente i propri fondi?

In ogni caso, sarà un altro, importante passo avanti nella ristrutturazione sociale in senso oligarchico, tecnocratico e autoritario in atto in Italia e vigorosamente portata avanti, negli ultimi tempi, da esecutori quali Mario Monti, con l’appoggio di quasi tutti i partiti e del Colle; mentre i grossi capitali e i grossi redditi si sono rifugiati off-shore, fuori dal raggio d’azione del fisco, il quale perciò si può rivolgere solo ai patrimoni e ai redditi medi e medio-piccoli, che non si sono delocalizzati. Berlusconi darà il suo endorsement a ulteriori manovre di quel tipo, e così forse guadagnerà un’assoluzione e il mantenimento della eleggibilità, quindi della libertà? Lo Stato italiano non può fare altro che interventi fiscali, dato che gli altri strumenti macroeconomici li ha ceduti alla BCE e alla UE, cioè de facto alla Germania, la quale, interessatamente, non li vuole usare, se non a proprio vantaggio. Il governo Letta, impotente, chiaramente si regge su due labili colonne: sulla difficoltà di tornare al voto adesso, e sui rinvii di promesse contrapposte (Imu, Iva, detassazione dei redditi da lavoro). Tira a campare in attesa di uno sblocco a livello superiore – BCE, UE, Berlino (elezioni politiche di settembre) – che gli dica che cosa fare, per via gerarchica. E dato che palesemente siamo in un ordinamento internazionale gerarchico multilevel, la nostra situazione ormai strutturale di crisi economico-finanziaria va inquadrata nel sistema di potere globale, forgiato in esito alla II Guerra Mondiale a Teheran, Yalta e Bretton Woods, nonché Montevideo per il WTO. Ma da BCE, UE e Berlino al più verrà un’espansione delle base monetaria di tipo USA, che andrà – come le ultime creazioni di moneta addizionale – al sistema bancario (non alla produzione e al consumo), quindi produrrà un momentaneo sollievo per l’economia reale e la società, anestetizzandola nel mentre che il sistema bancario gonfierà una nuova, grande bolla speculativa, come già ripetutamente avvenuto.

Al livello apicale abbiamo il cartello monetario-finanziario, monopolista della moneta e del credito, nonché del rating, delle teorie economiche e delle prescrizioni (neoliberismo, rigorismo fiscale), che ha posto due terzi o più del mondo in una posizione di dipendenza e sudditanza, che porta da decenni avanti un progetto elitista di accentramento del potere e della ricchezza, e che dispone della piattaforma politico-militare degli USA – secondo livello – per distruggere chi si oppone, dove necessario. Domani forse sostituiranno gli USA con la Cina. Per ora, non so se e quanto Cina, Russia e Brasile sianmo indipendendenti da esso. Al terzo livello, in Europa, abbiamo la potenza continentale vassalla, la Germania (con la para-vassalla francese). La Germania, in cambio della collaborazione esecutiva a questo disegno, cioè in cambio del fatto che lo impone ai partners europei più deboli, riceve alcuni vantaggi, ossia la possibilità di sottrarsi in parte alle ricette recessive, e di approfittare del disastro che queste ricette causano ai partners più deboli per sottrarre loro capitali e quote di mercato, e per comperare le loro aziende a prezzi di necessità. Prima di intervenire in aiuto dei partners deboli, o di uscire dall’Euro, o di porgli fine, il capitalismo tedesco aspetta di aver tolto loro, in questi modi, tutto ciò che si può togliere, compresi i migliori tecnici. Ciò vale soprattutto per l’Italia, che, per facilitare quel processo, viene deprivata della liquidità necessaria per investire, lavorare, produrre e pagare i propri debiti, in modo che, per tirare avanti, debba svendere le proprie risorse e cedere sovranità.

Al quarto livello abbiamo la partitocrazia, la burocrazia e i potentati economici specificamente italiani (comprese le mafie); la prima, composta perlopiù di incompetenti, di ladri e di cialtroni professionali, che si vendono molto facilmente. Questi soggetti si occupano di prelevare dalla spesa pubblica e dalle altre riscorse pubbliche, distribuiscono benefici clientelari per sostenersi, si vendono anche allo straniero, non possono rinunciare alla corruzione, agli sprechi, alle creste, perché non sanno fare altro e sono stati selezionati per fare proprio quello – quindi impediranno per sempre al Paese di riprendersi, mentre, controllando i meccanismi elettorali, rendono impossibile sostituirli attraverso il voto. Essi non possono rinunciare, soprattutto, al flusso di circa 100 miliardi che, annualmente, trasferiscono a Roma e al Sud – dedotte le loro intermediazioni – prelevandolo dai lavoratori autonomi e dipendenti di alcune regioni del Nord, i quali costituiscono il quinto livello, il livello più basso della catena alimentare. Tutti gli altri livelli gli mangiano addosso. Per migliorare la nostra posizione possiamo trasferirci in Germania, passando al terzo livello, o in USA, passando al secondo. O in Brasile, e porci forse fuori da questa catena alimentare. Almeno per qualche tempo.

Il governo Letta dichiara di voler risolvere una situazione, la quale però può essere trattata solo con quegli strumenti monetari macroeconomici, che – giova ripeterlo – il governo non ha, perché sono stati ceduti alla BCE e alla UE, che, sotto l’egemonia della Germania, non li vogliono usare. Non può nemmeno tagliare sulla parte di spesa pubblica costituita da creste e sprechi (che io stimo in 100 – 150 miliardi l’anno, considerate anche le decine di migliaia di poltrone nelle società partecipate da enti pubblici, che servono solo per rubare), perché è quella di cui vive la politica. Quindi il governo Letta fallirà. Per inconcludenza e per erosione dei gruppi parlamentari da parte del palazzo, per divisioni interne e per scarsa competenza tecnica, sta anche fallendo l’attacco di Grillo-Casaleggio al sistema, il suo populismo pacifico. Al prossimo, sensibile peggioramento della situazione sociale, che è inevitabile dato il trend, probabilmente vedremo in azione il populismo non pacifico, le sommosse popolari, che pure falliranno, perché non hanno i mezzi né l’organizzazione per combattere gli interessi istituzionalizzati del sistema come sopra delineato, e perché non esiste nemmeno un nemico fisico che si possa colpire con la violenza. Falliranno, ma con il loro tentativo creeranno le condizioni per una svolta autoritaria e poliziesca, per la criminalizzazione e la repressione del dissenso, e il loro fallimento diffonderà frustrazione, rassegnazione e passività. Quella sarà la vittoria del vero potere sui popoli ridotti a bestiame. Sarà una vittoria stabile? Questo è il quesito più importante e affascinante, sul piano teoretico. Intanto, però, portate i vostri figli in salvo all’estero.

Inutili strombazzamenti

Annunciazione di Davide Giacalone

L’annuncio è: stop al finanziamento dei partiti. In omaggio alla moda grillina ci saranno solo applausi (anche di chi sosteneva il contrario). In omaggio alla moda comunicativa la notizia è stata data direttamente dal presidente del Consiglio, via twitter. Il fatto è che, se tutto va bene, si potrà scriverlo un’altra decina di volte, dato che, al momento, neanche esiste il testo del disegno di legge, che poi comincerà il suo iter parlamentare. E se qualche cosa va storto l’annuncio odierno sarà un tradimento domani. Come, del resto, nell’accordo generale, già si tradì il responso di un referendum. Il “costo della politica” è un tema serio, che sarebbe colpevole sottovalutare. Quel passo andava fatto, anche se è solo accennato. Ma i costi sono prima di tutto quelli di un’invasiva presenza di società e nomine pubbliche. Come anche di un’asfissiante esuberanza di legislazioni concorrenti fra di loro e burocrazie non coordinate. Una foresta da disboscare. Che al momento rimane intatta. Il costo diretto calerà (se calerà) di poco, ma con alto valore simbolico. Quello indiretto rimane intatto, con alto potenziale devastante.

La brutta impressione è che la politica sappia parlare solo di sé stessa, considerando la realtà un disturbo, un ostacolo al libero dispiegarsi del gioco degli schieramenti. Questa sgradevole sensazione ci resta anche alla vigilia dall’appuntamento amministrativo. La chiamata agli elettori è fatta in gran parte sulla base dell’appartenenza o del rifiuto, senza che si sia entrati nel merito di tante questioni. Certo, colpevoli anche i giornalisti, che trascurano la concretezza per strillare solo le parole politiciste. Ma in nessuna delle città che eleggeranno domenica il loro sindaco e il consiglio comunale abbiamo sentito pensieri forti sull’identità urbana e sul suo futuro. Sull’idea che s’intende realizzare. In alcune città, addirittura, pure i candidati nelle liste civiche sono gli stessi della volta scorsa. Non basta esserne stufi, si deve essere capaci di rompere con la logica del rifiuto e dell’appartenenza. Tocca a ciascuno di noi farlo. Il che significa votare avendo in mente gli interessi propri e quelli della città. Il candidato migliore è quello che si ritiene possa mettersi subito al lavoro, in questo senso. Va bene anche il meno peggio.

giovedì 23 maggio 2013

Moralisti...


Se Zanda incontrasse uno Zanda sul suo cammino, oggi nessuno gli toglierebbe una richiesta di ineleggibilità, una mozione di dura reprimenda morale, o almeno un'interrogazione sull'etica. Di cui Zanda è impareggiabile custode. Le giornate storte capitano a tutti, ieri è toccata a Luigi Zanda. Non solo il neo capogruppo dei senatori Pd ha dovuto fare autocritica e avviare un rapido dietrofront (il secondo in una settimana, se continuano così gli verrà il mal di mare) sulla sua contestatissima proposta di regolamentazione dei partiti, letta subito dai maligni - ossia tutti gli altri - come un dispetto a Grillo, e di cui ieri Zanda (che l'aveva presentata il giorno prima) ha annunciato il ritiro: «Non volevo punire nessuno, ma se questa è l'interpretazione non ho alcun interesse a mantenere il provvedimento». Ma è pure spuntata, sulle colonne del Corriere della Sera, una sua letterina di raccomandazione a Giovanni Hermanin, allora presidente, nominato dal centrosinistra, dell'Ama (l'azienda municipalizzata che teoricamente smaltisce i rifiuti della Capitale, e i cui uffici si riempiono ad ogni sindacatura di nuovi raccomandati). Da Zanda non ce lo saremmo mai aspettato. Proprio lui che, nel 2010, tuonava: «Alemanno si deve dimettere: ha una responsabilità diretta per gli interventi con i quali ha fatto assumere i suoi protetti». Come la mettiamo col fatto che, tre anni prima, il medesimo si rivolgesse ad Hermanin per chiedere l'assunzione di un tal «dottor G.B., di cui ti allego il curriculum» e del quale «mi vengono garantite le capacità professionali e la correttezza istituzionale?». Chiedendo oltretutto di «farmi avere notizie sulle fasi istruttorie attraverso cui l'istanza verrà esaminata», tanto per chiarire che non avrebbe mollato l'osso. Di certo i fan zandiani, oggi duramente colpiti, verranno rassicurati: il senatore chiederà una perizia grafologica e dimostrerà che la sua firma era stata falsificata da qualche antipatizzante interno al Pd (la scelta è ampia). Nel frattempo, tocca pensare che anche il Guardiano della Virtù Zanda a volte si distragga.

Non quando si tratta di Berlusconi, però. Nell'intervista ad Avvenire di quattro giorni fa non solo assicurava che il Cavaliere «secondo la legge italiana non è eleggibile» («Ricordate a Zanda che Berlusconi è già stato eletto, e governa insieme a lui», notò Jena sulla Stampa), ma si sdegnava pure per l'ipotesi di una sua nomina a senatore a vita: «In 67 anni di Repubblica non è mai stato nominato nessuno che abbia condotto la propria vita come Silvio Berlusconi». Sorvolando su stimatissimi senatori a vita (Emilio Colombo, Gianni Agnelli) che pure non hanno condotto la propria vita esattamente come Maria Goretti. O come Zanda. Il quale poi ha dovuto specificare di aver parlato solo «a titolo personale». Dei costumi erotici di Berlusconi il senatore però si è sempre fatto un cruccio, tanto che nel 2009, quando si cominciava a parlare del caso D'Addario, mise nero su bianco, in un ordine del giorno, una sorta di codice etico che prevedeva per l'allora premier la «coerenza tra comportamenti privati e vita pubblica».

Toccò al segretario Bersani sconfessarlo, ricordandogli che «noi non siamo l'autorità morale di Berlusconi». E dire che di ragioni di gratitudine, verso il Cavaliere, Zanda ne avrebbe: fu grazie ad una gentilezza di Berlusconi, su richiesta pressante di Cossiga (di cui Zanda è stato per molti anni il segretario), che l'attuale capogruppo Pd entrò in Senato. Nel 2003 morì il senatore della Margherita Severino Lavagnini, e nel suo collegio di Frascati vennero convocate elezioni suppletive: Rutelli (allora riferimento di Zanda, poi passato nelle truppe di Franceschini) lo candidò, e Cossiga chiese a Berlusconi, come favore personale, di dare una mano all'esordiente. Benignamente, ma con scarsa lungimiranza, l'allora premier fece in modo che il candidato di centrodestra non raccogliesse le firme necessarie, e così Zanda rimase solo a contendere il seggio di Frascati. E vinse, naturalmente: praticamente col 100% dei voti. E con il 6,7% di votanti: la più bassa partecipazione nella storia repubblicana. E forse mondiale.

Sinistre generosità


Milano è città di stilisti. E anche se la settimana della moda è passata da un pezzo, c’è sempre l’occasione per far debuttare un giovane emergente, magari un futuro Armani. O, nel caso di oggi, per dare spazio a qualcosa di ancora più inaspettato, una sfilata di «costumi e creazioni di moda rom». Con l’unica differenza che a investire nell’iniziativa non è un’azienda in cerca del nuovo Valentino, ma un’agenzia governativa dipendente dai Ministeri per le Pari opportunità e per l’Integrazione. L’Ufficio nazionale anti discriminazione razziale (Unar) ha finanziato la data, ultima di cinque tenutesi tra la seconda metà dello scorso anno e l’inizio del 2013, per sensibilizzare e «combattere i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti dei rom e sinti e camminanti», con la campagna «Dosta!», termine romanes che significa «Basta». Un’intera giornata, patrocinata dalla Commissione europea e anche dalla giunta arancione di Giuliano Pisapia, dedicata alla cultura di un popolo che in Italia conta 140mila persone.

Le iniziative previste comprendono un dibattito, la proiezione del docufilm «Miracolo alla Scala», un «aperirom», un concerto e «una sfilata di moda con costumi rom e macedoni». L’idea dell’Unar, nata nel 2011 e concretizzatasi durante il 2012, quando nei Ministeri di competenza sedevano Elsa Fornero e Andrea Riccardi, è nata con l’intenzione di favorire l’integrazione aumentando il livello di conoscenza della cultura rom e sinti da parte della cittadinanza. L’investimento è stato di «poche decine di migliaia di euro», soldi necessari per coprire i costi di organizzazione. Avrebbero potuti essere di più, ma i Comuni interessati dal tour (Catania, Reggio Calabria, Napoli, Roma e Milano) hanno contribuito fornendo gli spazi gratuitamente. E anche gli artisti coinvolti non hanno richiesto compensi. Oggi, per la chiusura a Milano, ci saranno, oltre ad alcuni gruppi rom e sinti, Marco Ferradini e Massimo Priviero.

La giornata, a ingresso libero, si aprirà con la proiezione dello spot «E tu quanti zingari conosci?», promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Subito dopo, sempre nella sede delle Officine creative Ansaldo in via Tortona, zona Navigli, seguirà un dibattito al quale parteciperanno alcuni studenti universitari e di istituti superiori e gli assessori per la Coesione e per le Politiche sociali di Milano, oltre ad alcuni rappresentanti delle comunità sinti e rom italiane. A chiudere la mattina sarà la visione di «Miracolo alla Scala», storia (vera) di una ragazza dello storico campo rom di Triboniano che diventa ballerina di flamenco in una scuola milanese. L’iniziativa di oggi è stata studiata appositamente per Milano e da lì nasce l’idea dei due eventi principali del pomeriggio. L’aperitivo e la moda sono due simboli della città e così si è pensato alla sfilata, con costumi e vestiti creati da ragazze rom milanesi, e all’aperitivo a buffet con prodotti tipici delle comunità rom e sinti, durante il quale suoneranno Ferradini e Priviero. Prima sarà invece il turno di Jovica Jovic, fisarmonicista al quale nel 2010 l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni consegnò personalmente il rinnovo del permesso di soggiorno. Non è certo se l’iniziativa avrà un seguito: anche se, tra i 37 milioni di fondi europei appena stanziati per l’Unar, è difficile che non se ne riesca a ricavare una parte per rinnovare le politiche di integrazione per rom e sinti.

mercoledì 22 maggio 2013

E' l'unione europea che lo vuole...

Qui il video di uno dei due assassini... Una scena raccapricciante, ripresa con un telefonino. Uno dei due uomini che hanno appena aggredito e decapitato a colpi di machete un giovane soldato si fa riprendere da un passante. Urla frasi sconclusionate: "Queste cose nella mia terra succedono ogni giorno. Nessuno è al sicuro. Cacciate il vostro governo, non si cura di voi". Siamo a Woolwich, nella zona sud orientale di Londra. I due assalitori, al grido di "Allah è grande", hanno ucciso un militare: il suo corpo è a terra, a pochi metri di distanza. Dopo pochi attimi arriva la polizia che blocca e ferisce i due uomini.


Un soldato britannico è stato ucciso a Londra a colpi di machete, da due uomini poi feriti (uno in maniera grave) da agenti di polizia intervenuti sul posto. Il fatto di sangue è avvenuto a pochi metri da una caserma della Royal Artillery, reparto di artiglieria di sua maestà. Secondo un testimone, citato da Sky News, l'uomo ucciso indossava una t-shirt dell'associazione di volontariato «Help for Heroes», che aiuta i militari feriti in battaglia. Numerosi testimoni riferiscono che il soldato ucciso sarebbe stato decapitato dai suoi aggressori.

ATTACCO - La polizia britannica sta trattando l'uccisione del soldato come un «attacco terroristico di matrice islamica». La polizia di Londra ha affermato che i due aggressori avrebbero cercato di filmare l'assassinio e avrebbero invitato anche altre persone presenti sulla scena a filmare l'omicidio gridando ogni tanto «Allah è grande». L'arrivo degli agenti ha poi fermato lo scempio: i due aggressori sono stati colpiti e portati in ospedale. Il premier David Cameron ha definito l'accaduto «davvero sconvolgente» e ha convocato il Comitato di crisi del governo il cosiddetto Cobra, una prassi che si segue solo nei casi che possono avere implicazioni con la sicurezza nazionale. L'uccisione del soldato britannico in strada a Londra è «il delitto più spaventoso, una cosa mai successa prima e ci sono forti indicazioni che l'episodio sia collegato al terrorismo» ha aggiunto Cameron in una conferenza stampa a Parigi, prima di incontrare il presidente francese Hollande.

LA TESTIMONIANZA - Anche testimoni citati dalla Bbc hanno raccontato che gli aggressori hanno urlato «Allah u Akbar» (Allah è il più grande) mentre attaccavano. Secondo un testimone identificato come James, l'uomo morto aveva una ventina d'anni circa, così come i suoi aggressori. «Erano impazziti, veri e propri animali. Lo hanno trascinato lungo il marciapiede e hanno lasciato il suo corpo per terra», ha spiegato. Poi «brandivano coltelli e una pistola e hanno chiesto alle persone presenti di essere fotografati. Sembrava questa la loro unica preoccupazione», ha aggiunto. Un altro testimone, Thomas, ha detto di essere accorso dopo aver udito esplodere «colpi di pistola. Due persone - ha raccontato - hanno aggredito con un'ascia o qualcosa del genere un militare dell'esercito. Poi è intervenuta la polizia che ha risposto all'aggressione».

Ma vah, Penati... che culo!

Penati=sinistra. Incondannabile?


I giudici del Tribunale di Monza hanno dichiarato la prescrizione per il reato di concussione contestato a Filippo Penati, imputato per il cosiddetto “Sistema Sesto”. L’ex presidente della Provincia di Milano era accusato per presunte tangenti legate alle aree ex Falck e Marelli, due grandi aree industriali del milanese. Restano a suo carico le accuse di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Penati, assente in aula, ha comunque fatto sapere che “come annunciato, già nei prossimi giorni, farò ricorso in Cassazione per annullare la sentenza di prescrizione voluta dai Pm per i fatti di 13 anni fa”. La prescrizione arriva per effetto della nuova legge varata dal governo Monti, che riforma proprio il reato di concussione, prevedendo una distinzione tra concussione per costrizione (il pubblico ufficiale che obblighi un cittadino a pagare una tangente) e concussione per induzione (la semplice richiesta di tangente). La seconda ipotesi prevede un abbassamento delle pene, con conseguente riduzione dei tempi di prescrizione.

Nella scorsa udienza, i legali di Penati si erano opposti alla prescrizione, ma non ci avevano rinunciato esplicitamente. Si era aperta una questione procedurale, sulla quale i giudici si sono pronunciati oggi. Il processo è giunto alla seconda udienza con il rito immediato e vede imputato Penati per corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti insieme al suo ex segretario di presidenza Antonino Princiotta, accusato di corruzione per atti contrari ai dovere d’ufficio, Penati non verrà quindi processato per concussione. Al momento di pronunciare la conferma dell’avvenuta prescrizione dei reati, il giudice ha sospeso l’udienza in attesa che l’avvocato difensore dell’ex Presidente della Provincia di Milano Matteo Calori, lo contattasse per avere conferma circa le sue intenzioni di presentarsi in aula e pronunciarsi circa la volontà di opporsi alla sentenza di prescrizione, eventualmente ricorrendo anche in Cassazione. “Penati non c’è ed io non posso al momento assumere la responsabilità di una sua decisione a riguardo”, ha detto il legale. Il processo continua per i reati di corruzione finanziamento illecito ai partiti relativi alla Milano-Serravalle e a Milano-Metropoli.

martedì 21 maggio 2013

Si, si, certo, come no

Un commento: "Come era facile intuire, ecco che la difesa (incredibile che possa pure essercene una, per un delinquente simile...) cerca di farlo passare per un infermo di mente, diagnosi che gli permetterebbe di avere una pena sicuramente meno pesante di quella che gli spetterebbe per gli efferati delitti commessi. La pazzia invece e' stata di quelli che gli hanno permesso di restare qua, visto che aveva gia' dato chiari segni di insofferenza e di incapacita' a seguire le regole della nostra legge, che purtroppo ormai mostra molta piu' comprensione per certi soggetti che non per chi la infrange in maniera molto piu' blanda. Io sarei per imbarcarlo di nuovo, ma su una barchetta lasciata nei paraggi delle coste da dove e' arrivato..."


Sono passati dieci giorni da quando, quell'11 maggio all'alba, il ghanese Mada Kabobo uscì per strada e diede sfogo ad una lucida follia: colpendo a picconate cinque persone, tre delle quali rimaste uccise. Sull'episodio, molto discusso, ancora si spacca l'opinione pubblica: colpa dell'immigrazione clandestina. Kabobo, interrogato dagli uomini del Nucleo radiomobile di Milano, subito dopo la strage si giustificò così: "Quando fumo droga e bevo alcol le voci che sento nella mia testa sono molto più forti, molto più nitide e mi dicono cosa devo fare". Da qui la teoria che, il ghanese, non fosse pienamente lucido nel compiere il massacro. A sconfessare la testimonianza dell'omicida però i risultati negativi degli esami tossicologici: nessun stupefacente era presente nel suo sangue. Oggi dalla documentazione medica trasmessa dalla casa circondariale di Milano e in seguito alle dichiarazioni di Kabobo durante l'interrogatorio emerge invece che l'imputato porti "Segni inequivocabili di una situazione di infermità mentale": così, per lo meno, illustra il pm milanese Isidoro Palma che ha richiesto una perizia psichiatrica per il 31enne. Ora si attende il responso del gip Andrea Ghinetti che deciderà se concedere, o meno, l'esame psichico.

Eurodittatura, migrazione e integrazione


Nell’Europa della crisi, democrazia, diritti e immigrazione sono temi sempre più spinosi da affrontare nel confronto politico a tutti i livelli. A Firenze, all’interno del Festival d’Europa (7-12 maggio), la Conferenza sullo Stato dell’Unione ha visto numerosi politici e rappresentanti delle istituzioni europee chiedere a cittadini e rappresentanti dei singoli paesi membri di affrontare il tema guardando al futuro. Le misure di austerità, adottate da molti stati europei sotto l’attenta vigilanza di Ue e Bce sembrano avere fornito nuovi argomenti a quella parte di Europa xenofoba e miope presente soprattutto nei paesi più provati dalla crisi. Non succede solo in Italia: la pericolosa “mancanza di trasparenza e legittimità” — come la chiamano il ministro dello sviluppo regionale portoghese Miguel Maduro e l’ex ministro degli esteri britannico David Miliband — sta creando un forte deficit democratico, accompagnato da risultati economici e sociali preoccupanti. L’Europa chiede ai suoi cittadini di non stare a guardare, ma al contrario di cogliere l’occasione delle elezioni europee del 2014 come un momento di grande partecipazione democratica. La scelta di chi ci rappresenterà, ha detto il Presidente Barroso, è cruciale per ristabilire la fiducia nel processo di integrazione economica e sociale. Ci chiede di non dimenticare che la solidarietà deve essere un valore fondante delle relazioni tra stati membri e tra i suoi cittadini. Istruzione, formazione, ricerca e sviluppo sono necessarie per evitare che le future generazioni siano stritolate dai vincoli fiscali. Investire negli stati membri più deboli, sottolinea Emma Marcegaglia (Presidente di Business Europe, la Confindustria d’Europa), rafforza l’integrazione e l’intesa politica all’interno dell’Unione.

L’Europa ci chiede di non utilizzare l’argomento dell’immigrazione nel dibattito politico e nei media in modo strumentale alla competizione elettorale, fomentando sentimenti xenofobi e razzisti. E ci chiede di non disconoscere il ruolo fondamentale dei migranti per la demografia e l’economia europea: “dire la verità” è il primo passo per rendere l’Unione Europea un posto attraente per i migranti — qualcosa di cui abbiamo davvero bisogno. L’Europa ci chiede di non continuare a demonizzare richiedenti asilo e migranti irregolari. Un tempo combattevamo le cause della migrazione (povertà e guerre), adesso combattiamo le persone. Ma, come ricorda la commissaria UE agli Interni Malmström, i trattati e le convenzioni sottoscritte dall’Europa sanciscono e proteggono i diritti umani di tutti, a prescindere dalla cittadinanza. In tema d’immigrazione, integrazione e asilo trovare un accordo condiviso da tutti gli stati membri è un percorso lento e niente affatto scontato. Nonostante ciò, nel giorno della Festa dell’Europa, la voce di istituzioni e politica si è unita a quella di accademici ed esperti per riconoscere che non si può fare a meno della migrazione nel territorio europeo, e che le politiche di difesa dei diritti e d’integrazione pagano più di quelle di sicurezza e repressione. Le politiche d’integrazione per i gruppi più vulnerabili della società (donne, bambini, disabili, migranti, rifugiati, ecc.) servono a confrontarsi e a costruire un’Unione Europea più sociale e solidale, che oggi manca e che darebbe legittimità anche al processo integrazione economica e finanziaria.

di Caterina Francesca Guidi e Laura Bartolini

Troika, cina e grecia


Ferrovie cinesi già al lavoro per strutturare le nuove reti di trasposto locali, multinazionali interessate agli scali aeroportuali regionali in un’ottica di trasporti aerei rapidi ed economici come negli Usa, l’idea di realizzare in Grecia una nuova vetrina informatica “europea” delle dimensioni della Hewlett Packard e la presenza della cinese Cosco nei cinque nuovissimi moli container nel porto di Pireo, oltre a cento battelli di ultima generazione che Atene acquisterà da Pechino. Sono i primi risultati del viaggio di affari intrapreso in oriente dal premier ellenico Antonis Samaras. Nella settimana dedicata a Pechino e a Baku a caccia di investitori, i numeri spiegano meglio di analisi e di commenti cosa ci guadagna la Grecia da una colonizzazione cinese e quanto i cittadini. Il Die Welt, dopo la Bild, si è addirittura spinto a definire Samaras l’uomo che ha condotto la Grecia del “Grexit” dall’euro a una permanenza più tranquilla. Ma a quale prezzo? Il primo ministro ha assicurato che la Cina investirà oltre 250 miliardi di euro in Grecia, per via di un’economia finalmente estroversa e tarata su un programma di 28 privatizzazioni. “Il nostro mondo sta cambiando – ha detto lasciando Pechino e atterrando a Baku per la seconda tappa di questo tour commerciale – la Cina esporta in tutto il mondo, la Grecia è un membro dell’Ue e può diventare la porta d’ingresso per promuovere i prodotti cinesi in Europa”. Aggiungendo che la Grecia è la prima potenza marittima del mondo, tra l’altro proprio più di 100 navi sono greche attualmente in costruzione nei cantieri navali della Cina a costi non ancora quantificati. Ma al di là delle affinità tra Socrate e Confucio (“vissero all’incirca nello stesso tempo” ha detto Samaras presentandosi al meeting di sviluppo elleno-cinese, promosso dal governo di Pechino), incoraggiano i 400 milioni di turisti cinesi nel mondo di cui il 5% è previsto che farà tappa in Grecia. Su questa consapevolezza il governo di Atene ha studiato delle misure ad hoc, come una app per gli i-pad in lingua cinese disponibile per crocieristi e per i visitatori orientali, oltre a facilitazioni per quanto concerne i visti.

Ma il piatto forte degli accordi siglati si ritrovano nel campo delle infrastrutture e dell’informatica. Pechino si inserirà con prepotenza nel sistema ferroviario e aeroportuale greco. In prima battuta parteciperà, con l’intenzione di vincere, alle gare per l’aggiudicazione della privatizzazione delle ferrovie greche, in secondo luogo, come una sorta di operazione a tenaglia, investirà sugli aeroporti. Ma non solo su quello internazionale di Atene, il cui 33% è stato appena ceduto alla multinazionale canadese Hochtief, bensì rilevando i tredici scali regionali presenti su tutto il territorio greco e utilizzandoli (almeno queste sarebbero le intenzioni secondo fondi ministeriali) come gli scali statunitensi, con costi bassi e rapidità di spostamento e in un’ottica tarata sull’attrattività turistica destagionalizzata. Il punto di domanda è quanta percentuale di questo benessere ricadrà sui cittadini, dal momento che le nuove leggi sul costo del lavoro previste dal memorandum della troika hanno abbassato salari e welfare: di fatto un incentivo solo per chi investe. Si aggiunga che la cinese Cosco ha già in mano i cinque nuovissimi moli containers che saranno sviluppati nell’imponente porto del Pireo, utilizzandolo come l’hub cinese verso il mercato europeo. Capitolo informatica: la Huawei e la ZTE sono due delle maggiori realtà high-tech del pianeta e sono cinesi. La prima ha un giro di affari di 35 miliardi di dollari e che in tre anni lieviterà fino a 70. Entrambe punterebbero a creare in Grecia un centro logistico come la Hewlett Packard. Rilevante il margine esistente nel settore marittimo, con opportunità che si aprono al 60% nel campo petrolifero e al 50% delle importazioni cinesi gestite da navi di proprietà greca. In parallelo, ben 146 sono le navi greche costruite in questo momento nei cantieri cinesi. Sotto l’Acropoli e nelle isole Cicladi quest’anno sono attesi migliaia di cinesi, ma non saranno solo turisti in cerca di souvenirs o di spiagge mozzafiato. Molti i magnati cinesi che ormai guardano all’Egeo come piattaforma di investimenti e di logistica verso l’Europa.

lunedì 20 maggio 2013

Disintegrazione


Ius soli sì, ius soli no. Il dibattito è acceso e rischia di spaccare la maggioranza. Il ministro Cecile Kyenge, si sa, in cima all'agenda ha un punto ben preciso: gli immigrati. Per loro vuole: cittadinanza alla nascita e posti riservati nelle pubbliche amministrazioni. Su questi temi il governo discute e nell'esecutivo delle larghe intese il dialogo è fondamentale. Sullo ius soli il ministro dell'Interno, Angelino Afano, in un'intervista al Corriere della Sera ha frenato affermando che "ci sono iniziative e leggi, in ogni ambito, che solamente un governo di centrodestra potrebbe portare avanti - sottolinea -. E ci sono iniziative e leggi che potrebbe portare avanti solamente un governo di centrosinistra. La conseguenza è che questo Parlamento e questo governo non faranno ciò che solo il centrodestra potrebbe fare, né ciò che solo il centrosinistra potrebbe fare". Insomma lo ius soli per Alfano non è tra le priorità del governo che invece deve dare risposte nette e celeri alla crisi e alla disoccupazione giovanile.

La Kyenge insiste - Non è dello stesso parere la Kyenge, che insiste, e al Salone del Libro di Torino torna a parlare di ius soli come punto fermo di governo: "Lo ius soli non è nel programma di governo ma è dalla società civile che deve venire la richiesta che ciascun bambino possa sentirsi a casa propria in questo Paese. Proprio visitando gli stand e la sezione 'Lingua Madre' di questa manifestazione - ha aggiunto - si dimostra come con le buone pratiche si possa sconfiggere il pregiudizio nel nostro Paese".

Rispondo solo a me stessa - Ma ai cronisti che gli chiedevano una risposta alla chiusura del ministro Alfano, la Kyenge ha risposto così: "Non posso rispondere ad una posizione del ministro Alfano, io rispondo a me". Insomma il ministro Kyenge di ascoltare il parere di un suo collega in Consiglio dei Ministri non vuole saperne. Eppure sa bene che il titolare degli Interni in materia di ius soli è competente. Poi la Kyenge aggiunge: "Abbiamo sentito tutti il programma di governo del premier Letta. É un tema che va affrontato su vari livelli in un clima di confronto e di dialogo che coinvolga tutti. Bisogna confrontarsi per arrivare ad una proposta". Confrontarsi sì, ma sullo ius soli, con Alfano, no...