Moschea, internet e mancata integrazione. Questi i tre elementi alla base dell’attentato alla caserma Santa Barbara in piazzale Perrucchetti a Milano. Il libico Mohamed Game è sposato con un’italiana e possiede regolare permesso di soggiorno, ultimamente frequentava la moschea di viale Jenner e navigava in siti internet legati all’islam jihadista. Ha perfettamente ragione il sottosegretario Alfredo Mantovano quando afferma che si è trattato di un “fatto grave e preoccupante che non va sottovalutato né enfatizzato. Esistono anche in Italia cellule costituite da una quantità di soggetti, che ci considerano obiettivi sulla base di input che arrivano da moschee compiacenti o attraverso internet. L’attenzione da parte delle forze di polizia e dei servizi è alta perché bisogna prevenire”. Prevenzione è la parola chiave. Ma in che modo possiamo prevenire tutto ciò senza incorrere nell’accusa di razzismo e islamofobia? Potrebbe sembrare strano, quasi un ossimoro, ma basterebbe guardare all’Arabia saudita ovvero alla patria del wahhabismo, della ideologia di cui si è nutrito Bin Laden. Ebbene, nella culla dell’islam dopo gli attentati terroristici del 12 maggio 2003 si è ufficialmente ammesso che le cause dirette del terrorismo devono essere ricercate nelle idee, nelle fatwe e nelle moschee in cui si predica l’odio. L’ambasciatore saudita a Londra ad esempio dichiarò che per riportare la vittoria contro il terrorismo islamico non bisogna limitarsi “a distruggere i terroristi, ma bisogna eliminare tutte quelle circostanze e azioni che favoriscono la comparsa del terrorismo, è nostro dovere quindi mettere a tacere tutte le voci che predicano odio e intolleranza”. Nell’aprile 2006 il re Abdallah di fronte al parlamento saudita ha ribadito: “Dobbiamo porre fine alle fazioni migranti dei terroristi omicidi e a combattere il pensiero che si basa sulla condanna di apostasia con un pensiero sano perché nella terra delle due sante moschee non c’è posto alcuno per l’estremismo”. Si tratta di dichiarazioni ufficiali che non corrispondono alla soluzione immediata del problema. In Arabia saudita i predicatori d’odio continuano ad esistere e gli estremisti islamici fedeli al wahhabismo sono ancora presenti nelle moschee e nella società. Sta di fatto che se le due dichiarazioni appena riportate venissero attribuite a rappresentanti del nostro governo si griderebbe senza ombra di dubbio al razzismo. Nel febbraio 2006 un responsabile delle edizioni del ministero della cultura e della comunicazione saudita ha sottolineato che “c’è un controllo continuo nelle librerie e si attuano ispezioni a sorpresa per evitare la diffusione di qualsiasi scritto che possa nuocere al lettore e spingerlo verso pensieri nocivi per la società e causare un danno maggiore”. Mi domando se in Italia venga attuato un controllo sulle pubblicazioni che circolano nelle moschee. Credo di sì, ma non credo si sia mai cercato di arginare la diffusione di materiale legato inequivocabilmente all’ideologia jihadista o radicale islamica. D’altronde nel nostro paese l’edizione del Corano più diffusa è quella a cura di Hamza Roberto Piccardo (ed. Newton and Compton) dove a commento del versetto 98 della sura IV per spiegare il termine “oppressori” si legge: “Quest’ultimo termine comprende gli orientalisti, le autorità di religioni altre che l’Islam, i giornalisti e tutti coloro che contribuiscono alla disinformazione a proposito dell’islam e dei musulmani. Costoro riceveranno cocente castigo, mentre è possibile che Allah, nelle Sua infinita misericordia, perdoni gli oppressi”. Questo è uno dei tanti commenti aberranti contenuti in questa edizione italiana del testo fondante dell’Islam. Nessuno ha mai pensato di vietarne la circolazione. Non si tratterebbe di limitare la libertà di espressione, non si tratterebbe di islamofobia, ma solo di fare sì che non circolino nel nostro paese testi che incitano all’odio e alla non integrazione. Per quanto concerne le moschee, non è razzismo pretendere che i sermoni siano in italiano, non è razzismo pretendere che siano aperte a tutti, cristiani, ebrei e musulmani. Sottolineo musulmani, perché è risaputo che in alcune moschee italiane alcuni musulmani sono banditi perché considerati dei “cattivi musulmani”. Quindi pretendere il rispetto di alcune regole minime – d’altronde rispettate nel mondo islamico stesso - non solo aiuterebbe ad evitare casi come quello di Mohamed Game, ma aiuterebbe anche molti musulmani residenti nel nostro paese a sentirsi più liberi e protetti. Dovremmo tenere a mente le parole dell’intellettuale tunisino Abdelwahhab Meddeb a seguito dell’assassinio di Theo van Gogh: “Quanto a me, d’origine islamica, che vivo in Europa, mi riconosco nei valori che hanno portato Theo van Gogh ad agire, a girare, a scrivere; mentre non ho nulla di cui spartire con il suo assassino che indossa una jellaba e porta la barba, né con lui né con la comunità che sogna”. E la maggior parte dei musulmani nel nostro paese la pensa certamente come Meddeb.
mercoledì 14 ottobre 2009
Sulle moschee
L'attentato alla caserma di Milano. Difendersi dalle "Moschee dell'odio" non è razzismo ma prevenzione di Valentina Colombo
Moschea, internet e mancata integrazione. Questi i tre elementi alla base dell’attentato alla caserma Santa Barbara in piazzale Perrucchetti a Milano. Il libico Mohamed Game è sposato con un’italiana e possiede regolare permesso di soggiorno, ultimamente frequentava la moschea di viale Jenner e navigava in siti internet legati all’islam jihadista. Ha perfettamente ragione il sottosegretario Alfredo Mantovano quando afferma che si è trattato di un “fatto grave e preoccupante che non va sottovalutato né enfatizzato. Esistono anche in Italia cellule costituite da una quantità di soggetti, che ci considerano obiettivi sulla base di input che arrivano da moschee compiacenti o attraverso internet. L’attenzione da parte delle forze di polizia e dei servizi è alta perché bisogna prevenire”. Prevenzione è la parola chiave. Ma in che modo possiamo prevenire tutto ciò senza incorrere nell’accusa di razzismo e islamofobia? Potrebbe sembrare strano, quasi un ossimoro, ma basterebbe guardare all’Arabia saudita ovvero alla patria del wahhabismo, della ideologia di cui si è nutrito Bin Laden. Ebbene, nella culla dell’islam dopo gli attentati terroristici del 12 maggio 2003 si è ufficialmente ammesso che le cause dirette del terrorismo devono essere ricercate nelle idee, nelle fatwe e nelle moschee in cui si predica l’odio. L’ambasciatore saudita a Londra ad esempio dichiarò che per riportare la vittoria contro il terrorismo islamico non bisogna limitarsi “a distruggere i terroristi, ma bisogna eliminare tutte quelle circostanze e azioni che favoriscono la comparsa del terrorismo, è nostro dovere quindi mettere a tacere tutte le voci che predicano odio e intolleranza”. Nell’aprile 2006 il re Abdallah di fronte al parlamento saudita ha ribadito: “Dobbiamo porre fine alle fazioni migranti dei terroristi omicidi e a combattere il pensiero che si basa sulla condanna di apostasia con un pensiero sano perché nella terra delle due sante moschee non c’è posto alcuno per l’estremismo”. Si tratta di dichiarazioni ufficiali che non corrispondono alla soluzione immediata del problema. In Arabia saudita i predicatori d’odio continuano ad esistere e gli estremisti islamici fedeli al wahhabismo sono ancora presenti nelle moschee e nella società. Sta di fatto che se le due dichiarazioni appena riportate venissero attribuite a rappresentanti del nostro governo si griderebbe senza ombra di dubbio al razzismo. Nel febbraio 2006 un responsabile delle edizioni del ministero della cultura e della comunicazione saudita ha sottolineato che “c’è un controllo continuo nelle librerie e si attuano ispezioni a sorpresa per evitare la diffusione di qualsiasi scritto che possa nuocere al lettore e spingerlo verso pensieri nocivi per la società e causare un danno maggiore”. Mi domando se in Italia venga attuato un controllo sulle pubblicazioni che circolano nelle moschee. Credo di sì, ma non credo si sia mai cercato di arginare la diffusione di materiale legato inequivocabilmente all’ideologia jihadista o radicale islamica. D’altronde nel nostro paese l’edizione del Corano più diffusa è quella a cura di Hamza Roberto Piccardo (ed. Newton and Compton) dove a commento del versetto 98 della sura IV per spiegare il termine “oppressori” si legge: “Quest’ultimo termine comprende gli orientalisti, le autorità di religioni altre che l’Islam, i giornalisti e tutti coloro che contribuiscono alla disinformazione a proposito dell’islam e dei musulmani. Costoro riceveranno cocente castigo, mentre è possibile che Allah, nelle Sua infinita misericordia, perdoni gli oppressi”. Questo è uno dei tanti commenti aberranti contenuti in questa edizione italiana del testo fondante dell’Islam. Nessuno ha mai pensato di vietarne la circolazione. Non si tratterebbe di limitare la libertà di espressione, non si tratterebbe di islamofobia, ma solo di fare sì che non circolino nel nostro paese testi che incitano all’odio e alla non integrazione. Per quanto concerne le moschee, non è razzismo pretendere che i sermoni siano in italiano, non è razzismo pretendere che siano aperte a tutti, cristiani, ebrei e musulmani. Sottolineo musulmani, perché è risaputo che in alcune moschee italiane alcuni musulmani sono banditi perché considerati dei “cattivi musulmani”. Quindi pretendere il rispetto di alcune regole minime – d’altronde rispettate nel mondo islamico stesso - non solo aiuterebbe ad evitare casi come quello di Mohamed Game, ma aiuterebbe anche molti musulmani residenti nel nostro paese a sentirsi più liberi e protetti. Dovremmo tenere a mente le parole dell’intellettuale tunisino Abdelwahhab Meddeb a seguito dell’assassinio di Theo van Gogh: “Quanto a me, d’origine islamica, che vivo in Europa, mi riconosco nei valori che hanno portato Theo van Gogh ad agire, a girare, a scrivere; mentre non ho nulla di cui spartire con il suo assassino che indossa una jellaba e porta la barba, né con lui né con la comunità che sogna”. E la maggior parte dei musulmani nel nostro paese la pensa certamente come Meddeb.
Moschea, internet e mancata integrazione. Questi i tre elementi alla base dell’attentato alla caserma Santa Barbara in piazzale Perrucchetti a Milano. Il libico Mohamed Game è sposato con un’italiana e possiede regolare permesso di soggiorno, ultimamente frequentava la moschea di viale Jenner e navigava in siti internet legati all’islam jihadista. Ha perfettamente ragione il sottosegretario Alfredo Mantovano quando afferma che si è trattato di un “fatto grave e preoccupante che non va sottovalutato né enfatizzato. Esistono anche in Italia cellule costituite da una quantità di soggetti, che ci considerano obiettivi sulla base di input che arrivano da moschee compiacenti o attraverso internet. L’attenzione da parte delle forze di polizia e dei servizi è alta perché bisogna prevenire”. Prevenzione è la parola chiave. Ma in che modo possiamo prevenire tutto ciò senza incorrere nell’accusa di razzismo e islamofobia? Potrebbe sembrare strano, quasi un ossimoro, ma basterebbe guardare all’Arabia saudita ovvero alla patria del wahhabismo, della ideologia di cui si è nutrito Bin Laden. Ebbene, nella culla dell’islam dopo gli attentati terroristici del 12 maggio 2003 si è ufficialmente ammesso che le cause dirette del terrorismo devono essere ricercate nelle idee, nelle fatwe e nelle moschee in cui si predica l’odio. L’ambasciatore saudita a Londra ad esempio dichiarò che per riportare la vittoria contro il terrorismo islamico non bisogna limitarsi “a distruggere i terroristi, ma bisogna eliminare tutte quelle circostanze e azioni che favoriscono la comparsa del terrorismo, è nostro dovere quindi mettere a tacere tutte le voci che predicano odio e intolleranza”. Nell’aprile 2006 il re Abdallah di fronte al parlamento saudita ha ribadito: “Dobbiamo porre fine alle fazioni migranti dei terroristi omicidi e a combattere il pensiero che si basa sulla condanna di apostasia con un pensiero sano perché nella terra delle due sante moschee non c’è posto alcuno per l’estremismo”. Si tratta di dichiarazioni ufficiali che non corrispondono alla soluzione immediata del problema. In Arabia saudita i predicatori d’odio continuano ad esistere e gli estremisti islamici fedeli al wahhabismo sono ancora presenti nelle moschee e nella società. Sta di fatto che se le due dichiarazioni appena riportate venissero attribuite a rappresentanti del nostro governo si griderebbe senza ombra di dubbio al razzismo. Nel febbraio 2006 un responsabile delle edizioni del ministero della cultura e della comunicazione saudita ha sottolineato che “c’è un controllo continuo nelle librerie e si attuano ispezioni a sorpresa per evitare la diffusione di qualsiasi scritto che possa nuocere al lettore e spingerlo verso pensieri nocivi per la società e causare un danno maggiore”. Mi domando se in Italia venga attuato un controllo sulle pubblicazioni che circolano nelle moschee. Credo di sì, ma non credo si sia mai cercato di arginare la diffusione di materiale legato inequivocabilmente all’ideologia jihadista o radicale islamica. D’altronde nel nostro paese l’edizione del Corano più diffusa è quella a cura di Hamza Roberto Piccardo (ed. Newton and Compton) dove a commento del versetto 98 della sura IV per spiegare il termine “oppressori” si legge: “Quest’ultimo termine comprende gli orientalisti, le autorità di religioni altre che l’Islam, i giornalisti e tutti coloro che contribuiscono alla disinformazione a proposito dell’islam e dei musulmani. Costoro riceveranno cocente castigo, mentre è possibile che Allah, nelle Sua infinita misericordia, perdoni gli oppressi”. Questo è uno dei tanti commenti aberranti contenuti in questa edizione italiana del testo fondante dell’Islam. Nessuno ha mai pensato di vietarne la circolazione. Non si tratterebbe di limitare la libertà di espressione, non si tratterebbe di islamofobia, ma solo di fare sì che non circolino nel nostro paese testi che incitano all’odio e alla non integrazione. Per quanto concerne le moschee, non è razzismo pretendere che i sermoni siano in italiano, non è razzismo pretendere che siano aperte a tutti, cristiani, ebrei e musulmani. Sottolineo musulmani, perché è risaputo che in alcune moschee italiane alcuni musulmani sono banditi perché considerati dei “cattivi musulmani”. Quindi pretendere il rispetto di alcune regole minime – d’altronde rispettate nel mondo islamico stesso - non solo aiuterebbe ad evitare casi come quello di Mohamed Game, ma aiuterebbe anche molti musulmani residenti nel nostro paese a sentirsi più liberi e protetti. Dovremmo tenere a mente le parole dell’intellettuale tunisino Abdelwahhab Meddeb a seguito dell’assassinio di Theo van Gogh: “Quanto a me, d’origine islamica, che vivo in Europa, mi riconosco nei valori che hanno portato Theo van Gogh ad agire, a girare, a scrivere; mentre non ho nulla di cui spartire con il suo assassino che indossa una jellaba e porta la barba, né con lui né con la comunità che sogna”. E la maggior parte dei musulmani nel nostro paese la pensa certamente come Meddeb.
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