lunedì 31 gennaio 2011

Scenari possibili


I processi di globalizzazione hanno evidentemente ampliato il ruolo dei mercati e ridotto quello dei Governi, conferendo crescente autonomia ed aggressività a varie lobbies internazionali. L’efficacia dell’azione internazionale dei Governi dipende in modo crescente dal ruolo di sostegno o di opposizione di diverse lobbies settoriali le quali, a differenza dei Governi, non hanno l’obbligo di dichiarare pubblicamente interessi e finalitaà e possono pertanto agire anche in modo indiretto e trasversale e, in ultima istanza, poco visibile al pubblico non specializzato. In un Paese, come l’Italia, in cui le tradizioni cattoliche e marxiste hanno sempre maldigerito il vitale concetto di “interesse nazionale”, tendendo a svilire l’intera politica estera a fini interni, la pubblica consapevolezza del ruolo di varie lobbies internazionali è inevitabilmente molto limitata. In tale quadro, l’opposizione al Governo di Silvio Berlusconi sembra divisa in due categorie: una parte, maggioritaria, che in un’ottica provinciale ed autoreferenziale ignora sia l’interesse nazionale che il ruolo delle lobbies, ed un’altra, minoritaria, che ne ha invece piena coscienza, ma che preferisce nascondere al pubblico alleanze ed interazioni con esse. Per ignoranza o per perfidia, l’essenziale è che il popolo italiano si convinca che l’opposizione al Governo di Silvio Berlusconi è esclusivamente originata da fattori interni; ed in tale gioco, eliminato ogni residuo rispetto per la volonta’ del popolo sovrano, il connubio di parte della magistratura e dei mass media da anni non ci risparmia arma alcuna: dalla continua, flagrante ed impunita violazione delle procedure costituzionali e della normativa in merito alla competenza territoriale e funzionale della magistratura alla contestazione di reati infondati, dallo spionaggio personale alla diffamazione mediatica urbe et orbi del Presidente del Consiglio, dell’elettorato italiano ed in ultima istanza dell’intero Paese.

A dimostrazione di come la tutela dell’Esecutivo da processi estranei alla funzione governativa sia assolutamente normale, il Presidente Clinton – per Whitewater – ed il Presidente Chirac – per malversazioni inerenti al periodo da Sindaco di Parigi – sono stati processati dopo aver cessato dalle cariche Presidenziali, e non prima. Solo in Italia parte del Paese ritiene appropriato l’abbattimento giudiziario di Governi democraticamente eletti. Nel variopinto e cacofonico teatrino quotidiano imbastito dall’opposizione italiana, si rischia comunque di perdere di vista un dato essenziale: la caduta del Governo di Silvio Berlusconi risponderebbe anche agli interessi di varie lobbies internazionali. Iniziamo dalla finanza internazionale. Le finalità speculative del gigantesco attacco in corso contro l’Euro non ne eliminano la valenza politica. L’Euro è molto più di una moneta e, quale seconda valuta di riserva mondiale, ha avviato il tramonto dell’incontrastato dominio del dollaro, e con esso del privilegio statunitense di stampare dollari e scaricare inflazione sul resto del mondo senza svalutare. La tenuta dell’Italia - dal Pil superiore a quello di Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo messi insieme - ha limitato enormemente il successo dell’attacco speculativo. L’attuale è peraltro la prima crisi finanziaria o monetaria europea in ben 40 anni della quale l’Italia non è protagonista. Si tratta di un cambiamento storico, riconosciuto anche all’estero, ma apparentemente meno rilevante dei pettegolezzi sulla vita privata di Silvio Berlusconi.

E mentre l’intera Ue resisteva all’attacco di una Wall Street già risorta dalle ceneri del recente scandalo epocale, in Italia c’è voluto addirittura il diretto intervento del Presidente della Repubblica per assicurare che il voto sulla presunta sfiducia al Governo intervenisse dopo l’approvazione della Finanziaria 2011. Diversamente, l’Italia sarebbe stata colpita da attacchi speculativi, che l’opposizione avrebbe sicuramente argomentato quali espressione di sfiducia dei mercati internazionali verso il Governo. D‘altronde, per i vari marxisti, post marxisti e statalisti italiani le crisi nazionali non sono eventi negativi, ma preziose occasioni per ridefinire “i rapporti di classe” e (oppure) espandere l’intervento statale attraverso ulteriori drenaggi fiscali sulla classe media e le Pmi, da redistribuire a istituzioni, associazioni e consorterie amiche. Non per nulla Confindustria, che notoriamente rappresenta le grandi imprese, dal 1994 continua imperterrita a consigliare il voto a sinistra. Nonostante Marchionne abbia recentemente indicato il percorso per uscire da decenni di “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite” e riattivare la competitivita’ internazionale della Fiat e delle altre grandi imprese italiane. Ma tralasciamo per un attimo la miseria disfattista della nostra opposizione di sinistra.

La lobby anti Euro resta all’erta, ed un eventuale caduta nel vortice speculativo dell’Italia causerebbe un profondo dissidio Nord-Sud nell’Ue, dischiudendo gli scenari quotidianamente evocati dalla stampa economica e finanziaria anglosassone, Economist sempre in testa (Euro A ed Euro B; uscita dall’Euro dei Paesi del Sud Europa, etc), ed in ultima istanza coincidenti con la prematura agonia dell’Euro quale seconda valuta di riserva mondiale. Per designare i Paesi mediterranei, era stato perfino coniato il quanto mai offensivo acronimo di PIGS, guarda caso rapidamente passato di moda da quando la I, destinata all’Italia, si e’ dovuta adattare all’Irlanda. Sul fronte energetico, sembra che un Paese come l’Italia, che importa l’86% del suo fabbisogno, non abbia il diritto di avere una sua autonoma politica, anche attraverso l’accordo con la Russia sul gasdotto “South Stream” e varie intese con la Libia (che ci fornisce il 33% del petrolio). Gheddafi, per inciso, attraverso il pattugliamento delle coste libiche ha anche drasticamente contribuito all’abbattimento dell’immigrazione illegale, ed in Libia ci stiamo aggiudicando rilevanti commesse in vari settori. Varie lobbies energetiche e industriali straniere non gradiscono questi chiari successi; i Governi degli USA (per la Russia) e di Israele (per la Libia) sembrano nutrire non dichiarate riserve di natura geopolitica. Risultato: ma quali interessi nazionali!

Le intese sarebbero prova di un deficit democratico e di uno scarso occidentalismo, se non di affarismo personale, di Silvio Berlusconi. Che non esistano Paesi genuinamente democratici dai quali importare petrolio e gas, non conta nulla. Che tutti o quasi facciano affari con Russia e Libia, ancora meno. L’adagio “pecunia non olet” varrebbe per Shell, Exxon e BP, ma non per l’ENI, ovviamente. Passando all’Ue, il Governo di Silvio Berlusconi sta difendendo a spada tratta enormi interessi politici, economici e commerciali nazionali. A cominciare dalla necessita’ di computare anche il debito privato delle economie nazionali – che vede Regno Unito, Irlanda ed altri Paesi in una situazione molto peggiore della nostra – per le future terapie e sanzioni comunitarie. Nel frattempo, gli svariati soloni pseudomoralisti che affollano gli editoriali della nostra stampa continuano ad ignorare allegramente che la Commissione Ue, nell’assenza di qualunque fondamento legale, ha deciso da anni che inglese, francese e tedesco sono le sue “lingue di lavoro”. Guarda caso, nel tortuoso processo per pervenire al brevetto comunitario - la cui mancanza, a fronte della concorrenza di USA, Giappone e Cina, e’ sempre meno sostenibile - Commissione Ue, Francia, Germania e Regno Unito, con il sostegno di vari Paesi del Centro e Nord Europa, insistono affinche’ il nuovo sistema del brevetto comunitario adotti il citato trilinguismo.

Tale precedente dischiuderebbe una vera autostrada alla prossima consacrazione del trilinguismo a regime dell’Ue (in luogo dell’insostenibile sistema di traduzioni ed interpretariato in 25 lingue), con un danno tanto definitivo quanto irreparabile per la posizione dell’Italia. Certo, non sarebbe male vedere i vari Bindi, Franceschini, Veltroni costretti a parlare in inglese (tra “Iurrop” e “Ammurrica”, sai che risate!), ma certi teatrini – peraltro gia’ noti a Bruxelles – dovremmo forse cercare di gustarceli solo tra noi Italiani. Il Governo sembra deciso ad apporre il veto, con il sostegno della Spagna, e si trova ugualmente in prima linea in altre battaglie in difesa del “Made in Italy” e contro la discriminazione giuridica dei nostri prodotti agroalimentari tipici nei mercati internazionali (il nuovo Anti Counterfeiting Trade Agreement), contro potenti e ramificate lobbies agroalimentari e commerciali europee e transatlantiche. Nel settore di Internet, recenti provvedimenti delle nostre Autorita’ hanno rilanciato l’esigenza di una regolamentazione della rete, in direzione di una moderazione del principio di assoluta neutralita’ di Internet Service Providers, motori di ricerca ed associati media acriticamente sostenuto dalle “lobbies telecom” nazionali ed internazionali, e che ha reso Internet anche un vero Far West di irresponsabilità giuridica, diffamazione, violenza e pornografia. Nel settore dei media televisivi, il decreto Romani ha approvato norme anticoncentrazione ed a tutela dei minori, quale l’obbligo di confinare violenza e pornografia alle ore notturne; norme ovviamente interpretate come un danno all’impero internazionale di Sky, in aspra competizione con Rai e Mediaset per il controllo del mercato italiano.

Perfino in occasione della sfrontata rivolta pubblica di Sky contro il Governo per l’aumento dell’Iva, peraltro richiesto dall’Unione Europea, la nostra opposizione e stampa di sinistra non hanno perso l’occasione per sostenere Sky. La quale non è esattamente d’indirizzo progressista... ma pur di abbattere Silvio Berlusconi va bene tutto, anche l’aperto sostegno alla penetrazione in Italia di un impero televisivo straniero e fortemente connotato sotto il profilo politico-internazionale. Sullo sfondo, lo spettro della riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E’ francamente dubbio se decenni di intelligenti e fruttuosi sforzi del Ministero degli Esteri per impedire l’esclusione dell’ Italia sopravviveranno alla campagna di discredito integrale del nostro Paese lanciata dall’opposizione della sinistra politico-giudiziaria-mediatica. L’elenco potrebbe continuare, ma possiamo fermarci qui. Sono tante, potenti ed ampiamente diversificate le lobbies internazionali che festeggerebbero a caviale e champagne – beate loro, senza intercettazioni – la caduta del Governo di Silvio Berlusconi, con il sostegno di ampie colonne italiane, disposte veramente a tutto. Si dirà: l’azione internazionale di un Paese continua nonostante i cambi di Governo. Il problema è che in Italia non si sta mirando ad un democratico cambio di Governo attraverso il regolare processo elettorale, ma alla sua delegittimazione attraverso l’azione giudiziaria, fino all’imprigionamento o l’esilio forzato di Silvio Berlusconi. Ove tale tentativo riuscisse, la capacità e la proiezione internazionale del nostro Paese sarebbero irrimediabilmente compromesse per decenni.

Siamo cosi’ lontani dall’Italia dei Secoli Bui? Non sembra. Quando Papa Paolo V, furibondo per la politica poco clericale della Repubblica di Venezia, aizzo’gli Stati italiani ed europei ad una lega per una guerra di distruzione della Serenissima, dall’Europa si levo’ un’unica voce: “Santita’, comprendiamo, ma ai Turchi, dopo, chi ci pensa?”. La guerra contro Venezia, fortunatamente, non si fece. Quella contro Silvio Berlusconi invece continua. Come i Turchi di ieri, le lobbies di oggi in Italia restano per molti un problema secondario. Come se fossimo ancora il centro del mondo. Continuando di questo passo, gli effetti della globalizzazione sul nostro Paese rischiano di essere più negativi di quelli della scoperta dell’America. E non per causa delle “condizioni oggettive”. Per colpa nostra.

domenica 30 gennaio 2011

Tunisia


Lo hanno accolto a migliaia, come un eroe, al grido di «Allahu Akbar!» (Dio è il più grande). Rachid Ghannouchi il fondatore del partito islamico tunisino Ennahda (Rinascita), fuorilegge e perseguitato durante il regime di Ben Ali, è tornato oggi in patria dopo 22 anni di esilio. E con lui per la prima volta nella nuova Tunisia è tornato anche visibile il popolo musulmano, che pure ha partecipato alla rivoluzione, ma mantenendo un basso profilo, a conferma dell' unicità di un movimento guidato non da leader riconoscibili o ideologie, ma da una coscienza comune affamata di libertà. Un valore questo cui si è subito associato Ghannouchi, invitando i suoi seguaci a «continuare la rivoluzione, preservarla e tradurla in democrazia, giustizia, eguaglianza», ha detto appena giunto da Londra all'aeroporto di Tunisi in tarda mattinata. Il leader islamico, che nel 1989 fuggì alla persecuzione di Ben Ali, rifugiandosi nella capitale britannica, ha poi fugato tutti i dubbi sulle sue aspirazioni con il rientro in patria: «Torno in Tunisia, ma non ho intenzione di presentarmi alle elezioni, nè legislative nè presidenziali», ha affermato. «E non ci sarà alcun candidato di Ennahda. Dopo vent'anni di assenza il mio partito non è pronto a giocare un ruolo sulla scena politica. La priorità è ricostruirlo». Ma poi non ha escluso una qualche partecipazione al processo di transizione.

Hanno però impressionato molti le scene di giubilo all' arrivo di Ghannouchi, il cordone di gente che lo proteggeva dalla folla urlante, le migliaia di islamici che non si erano ancora visti tutti insieme nemmeno nelle grandi manifestazioni di piazza della 'rivolta del gelsominò. E l'annuncio del suo arrivo non ha lasciato indifferente chi teme che, con la ritrovata libertà, la Tunisia rischi anche una radicalizzazione religiosa. Tanto che all'aeroporto ad accogliere Ghannouchi c'era anche un piccolo gruppo di difensori della laicità, che innalzavano cartelli contro l'integralismo islamico. Un possibiltà remota, secondo il pensatore islamico-moderato Mohammed Talbi: «In Tunisia il partito islamico rappresenta una minoranza, non ha la forza per imporsi al momento, anche perchè è indubbio che il movimento alla base della rivolta è senza religione, è un movimento laico», ha detto all'ANSA.

La strada verso le elezioni è comunque tutta da costruire, così come l'esperienza del pluralismo in Tunisia non ha ancora connotati chiari. E allora il ruolo di Ennahda, partito che ha visto negli anni migliaia dei suoi sostenitori imprigionati e torturati, è ancora tutto da verificare, dopo la promessa del governo post-Ben Ali di legalizzare tutti i partiti. Ma intanto, con il ritorno di Ghannouchi, ha acquisito visibilità: «È vero che il movimento islamico è stato molto discreto nelle sue rivendicazioni durante la rivolta, ma oggi con il rientro di Ghannouchi si è mostrato in maniera più visibile. Un ritorno simbolico con il quale ha acquisito una visibilità fino ad ora inedita», dice Saida Bgarach, rappresentante dell'Associazione delle donne democratiche, che ieri sono scese in piazza a centinaia a Tunisi anche per «mandare un messaggio chiaro agli islamici: non siamo risposte a rinunciare ai nostri diritti acquisiti».

Fughe


Milano - L'Egitto è in fiamme e sul Paese aleggia l'incubo della guerra civile. In tutte le città è scoppiato il caos, centinaia di detenuti armati sono scappati dal carcere del Cairo. L'esercito è nelle strade e ora ha fatto ingresso anche nel tempio del turismo blaneare dello stato: Sharm el Sheik, una sorta di costola dell'Occidente incastrata in Africa. Molti turisti italiani sono bloccati nella città e non riescono a scappare a causa della mancanza di voli.

Violato il coprifuoco. Migliaia di persone, anche questa notte, hanno violato il coprifuoco imposto da Mubarak per protestare contro il governo. Dopo cinque giorni di scontri e cortei le vittime, secondo i quotidiani arabi, sono almeno cento. Molto diverso il bilancio ufficiale fatto trapelare da fonti governative: trenta morti. L'estremo tentativo di Mubarak di sciogliere il governo e nominare un nuovo premier non ha calmato gli animi, come ha dichiarato ieri El Baradei la rivolta continuerà fino a quando il "faraone" non si schioderà dal suo scranno. L'impressione che Mubarak abbia le ore contate è stata suffragata anche dalla fuga dei suoi familiari. La moglie e i figli, compreso Ghamal il primogenito destinato alla successione al "trono", sarebbero scappati a Londra per evitare il peggio. Nella notte almeno 19 "paperoni" egiziani hanno lasciato il Cairo con i loro jet privati per trovare riparo a Dubai, la paura di un rivoluzione sanguinaria e dei saccheggi sta affollando gli aeroporti di tutto il Paese. La rivolta del pane tunisina, in Egitto è diventata una vera e proprio rivoluzione che produce bollettini e scontri da guerra civile. Un Paese più grande, con una povertà più diffusa e una maggiore penetrazione del fondamentalismo islamico nel mondo politico. Sono questi alcuni degli ingredienti che rendono la terra dei faraoni una polveriera sul punto di esplodere. Ieri gli scontri hanno registrato un aumento del livello della violenza e la rivolta politica si è trasformata in violenza gratuita e vandalismo. Squadre di saccheggiatori hanno invaso i quartieri borghesi della capitale per depredare ville e appartamenti.

Saccheggiato il museo del Cairo. Violato anche uno dei simboli della cultura del Paese, il museo egizio del Cairo: sono state rotte le vetrine espositive e rubati o distrutti i preziosissimi reperti. Per le strade il presidio dei tank dell'esercito, che spesso decide di non intervenire con i rivoltosi. L'immagine più significativa di questi giorni è l'abbraccio su un carroarmato tra un giovane soldato e uno dei manifestanti. A livello internazionale la preoccupazione resta forte. Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, al termine del suo incontro con lo staff della Sicurezza Nazionale ha rinnovato il suo appello a fermare le violenze e a favore della moderazione. Il presidente francese Nicolas Sarkozy, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier britannico David Cameron hanno lanciato un appello congiunto a Mubarak perch‚ "eviti ad ogni costo l'uso della violenza contro civili disarmati", e ai manifestanti affinchè "esercitino pacificamente i loro diritti". Il conto alla rovescia continua.

Pedofilia


Il primo caso di un religioso musulmano alle prese con la sconvolgente accusa di pedofilia in Italia è stato registrato nell’ottobre 2008. Coinvolto in un’ indagine della Procura di Udine, poi passata a quella di Trieste, l’imam sarebbe stato uno degli animatori di un circolo di persone che immetteva immagini pedopornografiche on line. Dopo averle girate in locali riservati, le registrazioni venivano trasferite in rete e scambiate con altri utenti. Il tema della pedofilia come pratica diffusa tra le guide religiose del culto islamico, con ampi margini di rischio anche in Italia, si è proposto di nuovo cinque mesi fa. Grazie a un musulmano che ha scelto di aprire una riflessione sulle scuole coraniche che operano nel nostro paese senza alcun tipo di controllo. Abdallah Khezraji, marocchino vicepresidente della consulta regionale per l’immigrazione veneta, ha trovato il coraggio di parlarne, spiegando che è arrivato il momento di esaminare la piaga della pedofilia ovunque, «anche nella comunità islamica, grazie alla copertura di qualche imam». In un’intervista al Corriere del Veneto ha detto: «Non tutti sono così. Diciamo però che è stato forte lo choc nello scoprire che pure alcune figure religiose, che per noi sono sacre, risultano gravemente compromesse con la pedofilia». Un fenomeno condannato soltanto ufficialmente nel mondo musulmano. Secondo Khezraji, «la questione infastidisce e imbarazza talmente da far sì che non se ne parli, al punto che si fa finta che il problema non esista. Invece anche noi islamici dobbiamo aprire gli occhi e ammettere che il mostro può nascondersi pure nella nostra comunità».

Ad avvalorare le sue preoccupazioni, gli abusi compiuti a danno di decine di minori marocchini che erano stati affidati agli imam per lo studio del Corano, e che invece sono finiti nella tana di alcuni pedofili. Nonostante i casi si ripetano, in Europa (e in Italia) se ne parla ancora poco. Il caso di Mohammed Hanif Khan, imam di 42 anni incarcerato per violenze su un ragazzo dodicenne in una moschea di Sheffield, è solo il più recente. Nel processo a suo carico che l’Alta Corte di Nottingham sta svolgendo in questi giorni, ha negato gli stupri, dicendo di aver solo aiutato il minorenne a superare la difficile situazione che viveva in famiglia. Quella che sembra una semplice giustificazione va però contestualizzata, per comprenderne la gravità. Come se l’abuso di un minorenne dentro la moschea non fosse considerato realmente un reato nelle periferie del mondo islamico. Pure nella ricca Dubai, lo scorso anno, un imam proveniente dal deserto è comparso davanti ai giudici per rispondere dell’accusa di violenze nei confronti di un bambino di 8 anni. «E’ ingiusto, non ho commesso alcun crimine», ha detto al tribunale secondo quanto riportato da Gulf News, confermando che in molti paesi da cui provengono gli imam l’abuso è considerato soltanto un brutto costume. Nel Maghreb qualche imam è finito in Tribunale. Non senza difficoltà da parte delle famiglie, che continuano spesso a tollerare certe situazioni. Ad Algeri, invece, ne sono stati processati ben cinque nel giro di un anno, dopo una grande campagna di sensibilizzazione partita dalla stampa. Idem in Egitto. In Marocco, per sottrarre i bambini al potere degli imam, il re ha cambiato perfino la legge sulla scuola. Ed ha chiuso alle moschee fai- da-te.

Ora questo fenomeno che ha interessato il Maghreb per decenni si sta spingendo pericolosamente in Europa. In Spagna, l’anno scorso, è stato arrestato un imam accusato di abusi sessuali nei confronti di cinque bambine, a cui dava lezioni di Corano in una moschea di Murcia. Quarantasette anni, marocchino, si era istallato appena l’anno precedente nel sud-est del paese, presso la moschea di El Algar. Un altro caso in Olanda. In una piccola sala di preghiera un altro predicatore è stato accusato di abusi su una bambina di tre anni e mezzo. Solo nell’agosto 2008 madre e figlia hanno sporto denuncia presso le autorità marocchine. Se a livello sociale c’è ancora chi nella comunità islamica fatica a dare il giusto peso a certi episodi, la giustizia ha invece ben compreso l’importanza di perseguire casi del genere. Quella olandese, ad esempio, ha fatto sapere di essere intenzionata a richiedere l’estradizione dell'imam accusato di violenze. Che nel frattempo si era rifugiato in Marocco.

sabato 29 gennaio 2011

Yeah!


ROMA - Solo 9 giorni. Cinquecento biglietti rimasti. Tre sfide in casa. Due trasferte in Inghilterra e in Scozia. E stavolta un imperativo: «Dobbiamo vincere». L'Italia del rugby si prepara al suo dodicesimo Torneo Sei Nazioni, dove le big europee della palla ovale si sfidano fino all'ultimo secondo. Passione sul campo. Passione sugli spalti. Per un pubblico che, in Italia, continua a crescere di anno in anno.

AL FLAMINIO - E a Roma, nella sala d'onore del Coni, l'allenatore degli azzurri Nick Mallett promette: «Giocheremo al massimo, abbiamo una squadra che può fare un grande Sei Nazioni». Questo è quello che chiede e spera anche Giancarlo Dondi, presidente di Federugby: «Abbiamo bisogno di vittorie, siamo nel massimo della maturità, io sono il vostro primo tifoso», e rivolto a Nick: «Tu sei il primo responsabile, noi dobbiamo dare più degli altri». Invito condiviso anche dal presidente del Coni Gianni Petrucci : «Dobbiamo vincere, io ci credo: caro Mallett, ti siamo vicini, in bocca al lupo».

ITALIA - IRLANDA - E ci credono anche le migliaia di tifosi italiani, che stanno rispondendo all'appello accorrendo numerose al primo appuntamento in programma: 5 febbraio a Roma contro i verdi d'Irlanda, Flaminio quasi sold out, appena 500 biglietti rimasti. «Ringrazio i tifosi italiani che sono sempre con noi», sorride il commissario tecnico che azzarda: «Se vinciamo questa partita, siamo sulla buona strada, possiamo fare un buon Sei Nazioni, ai tifosi chiedo di continuare a seguirci con l`incredibile amore che ci hanno sempre dimostrato». E Petrucci ricorda come «l'Italia del rugby continui a portare in giro per l'Europa migliaia di appassionati italiani: da quando l'Italia è nel Sei Nazioni, la Federugby ha triplicato i suoi iscritti». Perciò il presidente Dondi insiste: «Dobbiamo dare soddisfazione a tutti coloro che ci seguono, ai nostri tifosi, siamo i pochi che ancora riescono a riempire gli stadi».

IL NUOVO STADIO - A proposito di impianti, torna il tema «nuovo stadio del rugby a Roma», visto che proprio il presidente del Coni ha definito il Flaminio «la casa del rugby italiano», offrendo «se ci dovesse essere bisogno», anche «lo stadio Olimpico e i suoi 75mila posti». Per il Comune di Roma, interviene Mollicone, presidente della commissione sport e cultura, che annuncia un incontro tecnico in Campidoglio martedì prossimo per visionare il progetto del nuovo Flaminio, «uno stadio da 48mila posti: quando avremo l'ok, nel 2012 potranno partire i lavori». Ma Dondi interviene e annuncia: «Già ci è stata concessa una proroga fino al 2013, se entro quella data non avremo il nuovo impianto, la Nazionale dovrà lasciare Roma». Mollicone replica: «I ritardi non sono imputabili all'amministrazione capitolina, ma alle soprintendenze che hanno l'ultima parola, restiamo fiduciosi». La promessa di un Flaminio moderno e adatto ad accogliere il grande rugby era stata fatta anche un anno fa.

IL FUTURO DI NICK - E nel grande salone del Coni si parla anche dei prossimi Mondiali di rugby in Nuova Zelanda e del commissario tecnico. Ci sarà ancora Nick Mallett? Dondi chiarisce: «Con Nick abbiamo un contratto di quattro anni, fino ai Mondiali, e non abbiamo ancora parlato con lui di cosa succederà». Certo, prosegue, «abbiamo fatto dei sondaggi, abbiamo avuto una disponibilità da Jacques Brunel (tecnico del Perpignan, ndr) se Mallett non dovesse proseguire: ma decideremo alla fine del 6 Nazioni». Intanto, da giovedì sera, al Park Hotel «La Borghesiana» di Roma, la Nazionale italiana rugby ha cominciato il suo raduno, in vista del 5 febbraio. Ventiquattro gli atleti convocati da Mallett per le prime due giornate del Torneo, con il capitano Sergio Parisse ed il mediano d'apertura Luciano Orquera che si aggregheranno alla squadra venerdì perché ancora impegnati con i rispettivi club di appartenenza nel Top14 francese.

Io sono pronta, i biglietti ce li ho e non vedo l'ora di entrare in quello stadio.

Attaccare magistratura e costituzione... ah, ah, ah


MILANO - «Gli attacchi ai magistrati sono contro la giustizia e la Costituzione». Così l'Anm si esprime nel documento che tutti i suoi rappresentanti stanno leggendo nelle cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario. «Sono contro la giustizia - afferma l'Anm - gli insulti, le offese, le campagne di denigrazione di singoli giudici, le minacce di punizione, gli annunci di '"riforme" dichiaratamente concepite come strumenti di ritorsione verso una magistratura ritenuta colpevole solo perché si ostina ad adempiere al proprio dovere di accertare la commissione dei reati e di applicare la legge imparzialmente e in maniera uguale nei confronti di tutti i cittadini».

E nella stessa direzione vanno «le strumentalizzazioni delle inchieste e delle decisioni giudiziarie e l'assurda interpretazione come complotto politico della semplice applicazione delle regole, dell'attuazione del principio di obbligatorietà… dell'azione penale e del fisiologico funzionamento degli istituti di garanzia propri dei moderni Stati costituzionali di diritto». Cosi come «sono contro la giustizia gli attacchi alla Costituzione e ai principi di autonomia e indipendenza della magistratura», «le iniziative legislative dirette esclusivamente a risolvere singole vicende giudiziarie e che hanno snaturato il processo penale» ed anche «i continui tagli alle risorse, la riduzione degli organici del personale amministrativo, la mancanza di investimenti e di progetti per la modernizzazione del sistema giudiziario, la mortificazione della dignità… professionale dei magistrati». Nel mirino dell'Anm anche «l'inerzia e l'assenza di iniziativa dei responsabili politici di fronte alle proposte concrete e costruttive avanzate dagli operatori del diritto per far fronte alla drammatica crisi di funzionamento della giustizia».

La casta della magistratura; per la cronaca, un giudice costituzionale “guadagna” oltre 400.000 euro l’anno (il Presidente circa 500.000), ai quali bisogna aggiungere i soliti “benefit”:

- una segreteria di tre persone più tre assistenti di studio (professori universitari o magistrati);

- un appartamento privato al 5° piano del palazzo della Consulta;

- ferrovie e autostrade gratis;

- rimborsi per aerei e taxi;

- cellulare, computer, fax e telefono anche nell’abitazione privata;

- macchina con due autisti personali, 405 litri di carburante al mese, garage, assicurazione e manutenzione vita natural durante, perché “noblesse oblige” e non si cessa di appartenere a una Casta solo perché si va in pensione;

- liquidazioni calcolate moltiplicando l’ultimo stipendio (quello da presidente, come da link) per gli anni di “lavoro”, compresi quelli precedenti all’incarico.

Terzo polo


Roma - Vincenzo Visco è praticamen­te uscito dalla politica nazionale, ma il suo spirito aleggia sul Pd e, da ieri, fa capolino anche dalle parti del Terzo polo. Buon senso vuole che si scelgano prima i leader, che si definisca la geografia delle coali­zioni e solo alla fine si presentino i programmi, che sono strumenti po­litici scivolosi e a doppio taglio. Pd e centristi hanno invece deciso di bruciare le tappe. Non sono in vista elezioni. Non si sa bene né il chi né il quando del voto, ma loro hanno già preso l’impegno a fare quello che gli italiani non vogliono che la politica faccia: aumentare le tasse. Da decidere solo cosa colpire, ma le alternative sono tre: le rendite fi­nanziarie, gli immobili, ma anche i redditi più alti. Il battesimo del nuovo corso tri­butario del centrosinistra, lo aveva officiato Giuliano Amato nel dicem­bre scorso proponendo una patri­moniale. A molti era apparsa solo una stonatura, la nostalgia per poli­tiche di emergenza dopo che an­che la sinistra sembrava essersi ar­resa al principio- irrinunciabile an­che per l’Ue - che le finanze pubbli­che si risanano tagliando le spese.

Alla kermesse del Lingotto Walter Veltroni, si è posto l’obiettivo nobi­le della riduzione del debito e ha ri­lanciato con un «contributo straor­dinario» da parte dei più ricchi. Una specie di eurotassa triennale ai danni di dieci italiani su cento. Proposta bocciata dal responsabi­le economico del suo partito, Stefa­no Fassina: la patrimoniale «l’ab­biamo scartata perché sarebbe massimamente regressiva data la composizione e la residenza del pa­trimonio italiano». Critiche cadute nel vuoto, visto che il tema è stato ripreso dall’economista Pellegrino Capaldo, che ha proposto una tas­sa sugli aumenti di valore degli im­mobili. Una patrimoniale, insom­ma. Capaldo, che è di area centri­sta, è stato bocciato dal Terzo polo, ma solo per avere sbagliato bersa­glio. Meglio, hanno spiegato all’ap­puntamento di Todi gli esperti di Udc, Fli e Api, colpire i guadagni da investimenti e lasciare in pace il mattone. «Dobbiamo arrivare alla tassazione delle rendite finanzia­rie: vanno tassate maggiormente», ha detto ieri Pier Ferdinando Casi­ni alla convention del Terzo Polo a Todi, incassando - a differenza di Veltroni - il plauso di Fassina. Non è dato sapere se la proposta Pd-Udc sia compensata dall’alleggeri­mento delle imposte sui conti in banca, né i Bot siano inclusi. Di si­curo, c’è solo l’aumento delle tas­se. E la conferma che le mobilitazio­ni di questi mesi contro i tagli impo­sti dal governo hanno centrato l’obiettivo: convincere un pezzo di politica che la strada non è ridurre la spesa, ma fare entrare più dena­ro nel bilancio pubblico, a spese, dei cittadini che già pagano.

Lo zombie in cattedra



Ecco qua: noi italiani siamo «gente allergica alle leggi». Parola di Romano Prodi. Avete capito bene, proprio lui, il nostro ex premier. E se lo dice il Professore che ci ha governato per quattro anni in due tornate diverse (1996-1998 e 2006-2008)... La colpa, ça va sans dire, è tutta di Berlusconi. E qui non c’è nulla di nuovo. Ciò che più conta invece è il vezzo, il costume, l’abitudine, quasi un mantra tipico dell’italiano in trasferta oltreconfine: sparlare del proprio Paese, descriverlo come un girone infernale, la terra del malaffare, la patria del Male. Intervistato da Stern nell’ultima pagina solitamente riservata agli ex personaggi famosi (non proprio una vetrina lusinghiera), il fondatore dell’Ulivo non ha resistito alla tentazione di descrivere l’Italia come il regno della confusione. E «in questa confusione - ha sentenziato - nessuno vuole le elezioni». Subito dopo però si è corretto, cogliendo al volo l’occasione per rincarare la dose di melma da rovesciare sullo Stivale: le elezioni «potrebbero esserci in qualsiasi momento, non per strategia, ma come conseguenza del caos».

Che il nostro Paese non scoppi di salute è fatto evidente non solo in Germania. Tuttavia le considerazioni di natura politica il Professore ha preferito riservarle alla conferenza tenuta ieri all’Istituto universitario europeo di Fiesole. Sempre con il sottinteso che quando c’era lui andava tutto molto meglio, ha detto che «l’Italia non ha una politica mediterranea», che «a Napoli le primarie si possono fare anche bene», che «Berlusconi doveva dimettersi dieci anni fa». A Berlino, invece, nessuna analisi di contenuto politico. Il bersaglio eravamo direttamente noi italiani, probabilmente colpevoli di aver voltato le spalle alla sinistra alle ultime elezioni, quelle sì indette a causa della sua impossibilità a governare. «Berlusconi incarna tutti coloro che parcheggiano in seconda fila», ha flautato Prodi. E «in Italia sono la maggioranza. Questa gente - ha sottolineato con malcelato disprezzo - è allergica alle leggi». Ecco qua il nostro identikit: viviamo nel caos, siamo dei parcheggiatori abituali in seconda fila, una razza allergica alle leggi.

Smarrito il garbo e la pacatezza abituali, anche Prodi ha indossato i panni del provinciale all’estero. Che, oltre che da navigati politici, è il ruolo preferito appena varcata la frontiera anche da affermati intellettuali e da imprenditori ben piazzati nel Belpaese, magari con residenza e cittadinanza di riserva in Svizzera. Coccolati da qualche università, invitati a tenere qualche lectio magistralis, lusingati da qualche giornale radical chic, non esitano a sfogarsi contro la povera Italia e i suoi abitanti. Prima del Professore, l’aveva fatto lo scrittore Antonio Tabucchi di cui sono noti i ripetuti strali lanciati da Parigi contro le istituzioni italiane. Poi è arrivata la lezioncina schizzinosa di De Benedetti in trasferta a Oxford per una conferenza di alto profilo scientifico, ma da dove ha calato i suoi siluri contro l’eterno rivale indovinate chi. Adesso si è aggiunto l’ex premier Romano Prodi. Sarà l’amarezza derivata dalle sue poco gratificanti esperienze governative a fargli descriverci come «gente allergica alle leggi»? Chissà. Tuttavia, non sarebbe bello se il Professore arrivasse alla conclusione che «governare gli italiani non è difficile. È inutile».

venerdì 28 gennaio 2011

La banda bassotti ci riprova...

Matti da patrimoniale di Francesco Forte

Pericolosamente bizzarre le proposte di prendersi e pubblicizzare una parte rilevante della ricchezza privata. Rigurgito di cultura pianificatoria. Risultato: capitali nascosti, investimenti congelati. Con tutto il rispetto, due pazzi pericolosi. Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo sono persone autorevoli, ma solo una mattana o fissazione neostatalista può suggerire proposte come le loro, patrimoniali in tutte le salse. Il vecchio leader socialista Amato propone con la serietà dei matti un’imposta di 30 mila euro per ogni italiano facente parte del 30 per cento più abbiente, da pagarsi in due anni per ridurre il debito pubblico del 30 per cento, dal 118 per cento del pil all’80 per cento circa. Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica della sinistra dc, rilancia e propone una imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, per dimezzare il debito pubblico, portandolo dal 118 al 59 per cento del pil, un punto sotto la soglia ammessa in Europa. Anche lui come Giuliano Amato, apprendista stregone fiscale, fa il suo bravo calcolo sul polsino. Il debito pubblico è pari, grosso modo, al 25 per cento del valore del patrimonio immobiliare italiano. Dunque metà del debito pubblico è il 12,5 per cento del valore degli immobili italiani. Bisogna che lo stato in un modo o nell’altro incameri quel valore, il cui equivalente va “accollato” come debito ai proprietari di immobili.

Capaldo non propone una patrimoniale proporzionale al valore degli immobili, ma un tributo sul loro aumento di valore (suppongo al netto del tasso di inflazione) dal momento del loro acquisto per eredità o compravendita o della loro costruzione. Il calcolo di questo aumento di valore e la sua distribuzione tra i proprietari spetterebbe alla politica “intesa nel senso nobile della parola”. Di qui l’aliquota oscillante fra il 5 e il 20 per cento della plusvalenza, che, dice Capaldo, basterebbe ad assicurare il gettito in questione, circa 900 miliardi di euro. Capaldo, a differenza di Amato, si rende conto del problema del reperimento della liquidità, da parte dei contribuenti, per un importo mostruoso rispetto al pil, e quindi propone che il pagamento possa avvenire con rate o con una imposta da pagare alla cessione del bene, per vendita o per successione. Nel frattempo gli immobili verrebbero ipotecati a favore del fisco, sicché una gigantesca ipoteca si stenderebbe sul patrimonio immobiliare italiano, una ipoteca che tenderebbe a crescere nel tempo con il gioco degli interessi composti e del tasso di inflazione. Ogni anno il Leviatano fiscale comunicherebbe ai cittadini e alle imprese che non hanno ancora pagato l’imposta di quanto è aumentata l’ipoteca sui loro immobili. Secondo il professor Capaldo la misura libererebbe risorse per 40 miliardi di euro, pari a metà degli interessi sul debito pubblico, che dovrebbero essere investiti “secondo un disegno razionale e condiviso”. Accanto a questa gigantesca patrimoniale avremmo una gigantesca programmazione concertata, cioè condivisa, che, mi permetto di dire, difficilmente sarebbe razionale.

Tornando al tributo immaginario, anche qui troviamo il mito del pianificatore buono, costituito dalla “classe politica nel senso nobile della parola”. Non vedo come l’aliquota possa scendere sotto il 20 per cento del valore attuale, per dare 900 miliardi di euro, dato che bisognerebbe togliere dall’imponibile gli aumenti di valore dovuti a migliorie, aumentate del tasso di interesse di mercato. E come si fa ad accertare non solo il valore delle migliorie ma degli immobili stessi, quando si annuncia un tributo che deprime il mercato, in conseguenza dell’ondata di vendite di una parte del patrimonio tassato e dell’immenso drenaggio di liquidità dovuto all’imposta? Che fare degli immobili già gravati da ipoteche, da mutui immobiliari e garanzie bancarie? Che accadrebbe agli immobili delle banche, che fanno parte dei loro parametri patrimoniali? Che ne facciamo degli immobili ecclesiastici e di associazioni non profit?

Un po’ sto celiando, stanco di ripetere che la strada è un’altra. Ma è da dire che a furia di proporre diverse formulazioni di imposta patrimoniale, glissando sulle riforme e liberalizzazioni necessarie, e sulla vendita del patrimonio pubblico, il risultato è il seguente: o non se ne farà nulla oppure si abbatterà una tantum il debito pubblico per poi tornare a produrne di bel nuovo e in grande quantità. Il vero problema è che con queste proposte, presentate in quotidiani autorevoli come il Corriere della Sera, i risparmiatori e le imprese si spaventano, nascondono i capitali, li portano all’estero, smettono di investire. Poi ci si lamenta che la ripresa è troppo lenta. Prima vendete il patrimonio pubblico e ricoverate questi matti, poi il mercato ripartirà, perché come diceva Enrico Dell’Acqua (1851-1910), pioniere della crescita e delle esportazioni amato da Luigi Einaudi, “è la somma delle piccole energie che fa le grandi cose”.

Fermare i pazzi

Fermare i pazzi di Davide Giacalone

Fermiamo i pazzi. Un gruppo di esaltati e assatanti s’è impadronito del nostro dibattito pubblico, costringendolo a strisciare nel sordido e impedendogli di guardare quale che sia cosa abbia a che vedere con gli interessi collettivi, con i rischi che corriamo, con le opportunità che non cogliamo. Che senso ha mandare al Parlamento centinaia di pagine d’intercettazioni, segnalandone ai giornali passi ove non si scorge l’ombra di un reato, ma si soffia sul fuoco del discredito, del dileggio, del mettere zizzania? Certo, conosco a memoria l’obiezione dei moralisti senza morale, che sono anche i politicastri senza idee: in nessun Paese del mondo sarebbe possibile vedere al governo chi conduce a quel modo la propria vita privata. Finiscono la frase con l’impressione d’avere detto una grande verità, talmente tale da non potere essere dimostrata. Invece hanno suggellato la propria inutilità: in nessuna democrazia un governante in quel modo colpito e indebolito resta al governo con il consenso degli elettori, perché da nessuna parte c’è un’opposizione di morti viventi, come da noi. Quando vai al mercato non compri la migliore mela del mondo, non acquisti l’iperuranica perfezione del pomo, porti a casa la migliore disponibile. Nel nostro mercato elettorale Silvio Berlusconi è considerato la scelta preferibile perché le altre sono orribili. Pensare di uscirne sperando che si suicidi o che lo ingabbino per sempre è da pazzi (oltre che da soggetti incapaci di vivere nella democrazia e inadatti a comprendere lo stato di diritto). I giornali di ieri titolavano: “Sesso e Soldi”, riferendosi a Bertolaso. Sono mesi e mesi, anni, che non parliamo d’altro, ma non c’è lo straccio di una sentenza, mentre l’opposizione non è riuscita a creare il simulacro di un’alternativa. Sembrano dementi, non si rendono conto che il loro andare appresso al giustizialismo convince gli italiani che l’altro è comunque migliore. O, se preferite, meno peggiore. Fra una mela ammaccata e una marcia e bacata preferiscono la prima. Ovviamente.

La sinistra è stracolma di falliti che campano solo grazie ai soldi della politica. Gente vecchia che si dimena in lotte antiche, che non ha mai lavorato. Nel frattempo si scopre che alle primarie votano i cinesi di Napoli che, per chi non lo sapesse, sono terreno d’azione della criminalità organizzata. Ebbene, noi queste cose le scrivemmo per tempo, dicemmo che la boiata delle primarie sarebbe stata una trappola. Ci sono caduti e, ora, non sanno che rispondere al Saviano di turno, in regolare ritardo. E fosse solo il giovane divo: la sinistra dei morti viventi e dei mantenuti dipende non solo dalle procure, ma anche dai conduttori televisivi, loro strapagati e arciricchi aguzzini. Scontata la replica: perché, a destra è meglio? Sì, perché in quanto a bassezza se la giocano, ma in quanto a spocchia intellettualoide, almeno, ce la risparmiano. Aggiungo: a destra magari non ti leggono, ma a sinistra non sanno fare altro che maledirti e cercare di cancellarti. Sono pericolosi, nella loro fallimentare frustrazione. Vorrei dire una cosa, a proposito di Ilda Boccassini. Ci sono vicende e racconti, su di lei, che da anni girano, fra gente che mostra il medesimo ghigno cretino di quelli che oggi si sollazzano con le intercettazioni da lei raccolte e diffuse. Una via di mezzo fra l’adolescente ormonalmente instabile e lo stupido cronico. Ma questo vale per l’una e l’altra cosa, per quel che si narra e per quel che si sbobina. E vale a comprendere che in una lotta del fango si resta tutti infangati. Nella fanga sparisce il valore di ciascuno, compreso quello di un magistrato che seppe, da sola, alzarsi e rimproverare ai colleghi di avere abbandonato Giovanni Falcone all’isolamento e alla sconfitta, preludio della morte. Allora: fermiamo i pazzi. Questa stagione deve finire. Contare sulla lungimiranza e sulla dignità degli astanti non è saggio, semmai sul loro (animale) spirito di sopravvivenza. Votiamo: i sinistri senza arte né parte torneranno ad avere il seggio per sfamarsi e sentirsi eleganti, i destri più fedeli saranno premiati, qualche “diverso” s’infilerà qui e là, ma sarà poi chiara l’inutilità di puntare subito ad una nuova crisi. Al mondo politico, dopo l’ennesimo lavacro elettorale, dopo il centesimo referendum su Berlusconi, sarà più chiaro il bivio: continuare l’andazzo debosciato e inconcludente della seconda Repubblica, finendo impalati con questa; oppure aprire la storia della terza, riformare le istituzioni e uscire di scena come se si fosse reso un servizio.

Suvvia che non è vero niente...


«Caso Montecarlo, Fini è protetto»: il segretario della Destra Francesco Storace torna ad attaccare il capo di Fli. E di certo non gliele manda a dire, anche questa volta, che vede l’ex camerata diventato presidente della Camera, non lasciare la poltrona nemmeno davanti all’evidenza dello scandalo. «Se nemmeno quanto emerge dalle dichiarazioni di Frattini è sufficiente per farlo dimettere dalla sua carica istituzionale, è evidente che Fini conta su protezioni enormi». Il riferimento è al caso Montecarlo in cui l’ex leader di An è coinvolto da mesi. E a proposito ieri il ministro degli Esteri ha dichiarato che le carte inviate da Santa Lucia, il Paese caraibico dove sono state create le società offshore per la compravendita dell’immobile, risultano autentiche. Sull’arrivo del fascicolo il ministro ha dovuto rispondere a un’interrogazione del senatore pdl Luigi Compagna. E ora sulla vicenda il segretario della Destra annuncia una protesta: «Vorrà dire che la buonanima di Anna Maria Colleoni (la contessa che ha lasciato in eredità la casa ad An, ndr), ci guiderà in una protesta più clamorosa nel nome della buona battaglia. Il 2 febbraio vogliamo giustizia e non insabbiamenti». Mentre «non merita commenti - conclude - l’uscita dal Senato dei nuovi compari di Fini solo perché Frattini diceva finalmente la verità sulla casa di Montecarlo. Rispettano le istituzioni solo quando fa comodo».

giovedì 27 gennaio 2011

Linciaggi mediatici (giusti quelli contro Berlusconi) sbagliati...


MILANO - «Ilda Boccassini, una degli accusatori del Cavaliere, nel 1982 fu sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua e finì al Csm». Così l'attacco dell'articolo di apertura del Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi giovedì in edicola. Boccassini è una dei tre pm che conduce l'inchiesta sul caso Ruby nella quale il presidente del Consiglio è accusato di concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Il titolo del Giornale, sopra la foto del pubblico ministero è: «Amori privati della Boccassini». L'attuale procuratore aggiunto di Milano portò a un procedimento davanti al Csm al termine del quale il magistrato fu assolto.

LA PROCURA - Il procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, a proposito di questo articolo reagisce con una nota ufficiale: «Ogni attività della magistratura - e dunque anche quella della Procura della Repubblica di Milano - in un ordinamento democratico è soggetta alla valutazione e alla critica della libera stampa; le campagne di denigrazione e l'attacco personale ai magistrati si qualificano da soli, e in un sistema di civile convivenza devono essere un problema per chi ne è autore e non per chi ne è vittima». Poi aggiunge: «In considerazione della delicatezza della vicenda, il Procuratore della Repubblica segue costantemente e compiutamente tutta l'attività di indagine, di cui ha assunto personalmente il coordinamento e conseguentemente piena responsabilità». E conclude: «I due inviti a comparire (per Silvio Berlusconi e Nicole Minetti, ndr) firmati dai magistrati sono stati vistati dal procuratore, pur non essendo richiesto il visto per tale tipo di atti».

L'ANM - Anche l'Associazione nazionale dei magistrati (Anm), il sindacato delle toghe, è intervenuta in difesa della Boccassini in occasione della conferenza stampa per l'avvio dell'anno giudiziario. «Il metodo Mesiano non ci intimidisce e non ci intimidirà - ha detto il presidente Luca Palamara riferendosi agli attacchi già subiti da Raimondo Mesiano, il giudice della sentenza Imi-Cir che condannava la Fininvest a pagare 750 milioni di euro e che fu fatto oggetto di servizi tv in cui le sue abitudini venivano definite «stranezze» -. Da qui mandiamo la nostra solidarietà alla collega Boccassini, qui non si tratta di difendere un magistrato ma l'intera categoria».

MINACCE A PALAMARA - Sulla posta elettronica dell'Anm presso la Corte di Cassazione è arrivata una minaccia indirizzata al presidente Palamara nella quale, tra l'altro, si dice «sta per arrivare la vostra ora». Le frasi di minaccia, a quanto si è appreso, si riferiscono alla posizione espressa nel pomeriggio da Palamara e dall'Anm nella difesa della magistratura e in particolare dei magistrati di Milano e di Ilda Boccassini.

L'IDV - «Il linciaggio mediatico nei confronti della Bocassini continua. I giornali di famiglia proseguono con il metodo Boffo nel tentativo di punire i magistrati e di intimidirli, partendo dal magistrato più esposto. La colpa della Bocassini? È quella di avere i capelli rossi così come la colpa del giudice Mesiano era quella di avere i calzini turchesi». È quanto afferma in una nota il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando. «L'Italia dei Valori - prosegue Orlando - esprime solidarietà e vicinanza umana alla Bocassini, ai suoi colleghi e a tutti i poliziotti costretti a fare da scorta alle escort di Arcore. Chiediamo anche un intervento dell'Ordine dei giornalisti affinché valuti se è deontologicamente corretto il pestaggio mediatico e se tutto ciò è informazione o semplicemente manganellate di regime», conclude Orlando.

La doppia morale della Boccassini di Anna Maria Greco

Roma - Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza».

Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno».

Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato.

A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni».

Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda.

Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco».

Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per se’ umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata».

Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini.

Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.

Un commento di un lettore all'articolo di cui sopra: "Risulta sempre più chiaro il perchè di tante difficoltà nella lotta alla mafia e al terrorismo. Con i figli del giaguaro che popolano la magistratura..."

Al dossieraggio! Al dossieraggio!


Roma - Nemmeno davanti alle carte sulla proprietà dell'appartamento in boulevard Princesse Charlotte, i vertici di Futuro e Libertà ammettono la sconfitta. "Siamo qui per denunciare una operazione di dossieraggio ad orologeria contro Gianfranco Fini - denuncia il capogruppo del Fli, Italo Bocchino - il cui mandante certo è Silvio Berlusconi e il cui manovale è Walter Lavitola, amico di Berlusconi". Sebbene il leader del Fli avesse promesso agli italiani che, in caso venisse provato che Giancarlo Tulliani sia il proprietario dell'appartamento monegasco, si sarebbe dimesso da presidente della Camera, i finiani indicono una conferenza stampa per accusare il Cavaliere e il governo di aver orchestrato un piano per far fuori Fini.

Le accuse di Bocchino. Secondo Bocchino, l’operazione di "dossieraggio ad orologeria contro Gianfranco Fini, il cui mandante è Berlusconi" è stato messo in atto "al solo scopo di distrarre l’opinione pubblica da quanto sta emergendo dalle inchieste di Milano" sul caso Ruby. Per il capogruppo di Futuro e Libertà alla Camera, infatti, si tratta di una vicenda "inquietante di sesso, di soldi e di appartamenti e i commenti delle interessati, a cominciare dalla Minetti, lasciano sgomenti". "Parliamo anche di chili di cocaina - continua l'esponente del Fli - non di grammi, ma di chili, quantità da narcotrafficanti trovato in appartamenti" riconducibili al premier.

Bhe, se l'italia vuole sapere con chi va a letto Berlusconi, c'è un'altra italia che vuole sapere di chi è la villa dove risiede il signor Tulliani e che vuole anche sapere quanto nella storia c'entri anche Fini.

La (dis)onestà finiana


Roma - Un "colpo di mano" del presidente della Camera Gianfranco Fini per favorire Futuro e Libertà. Con un blitz ben orchestrato l'ex An è riuscito a determinare una composizione squilibrata del Copasir con una prevalenza dei membri dell’opposizione su quelli di maggioranza. A denunciarlo sono stati i componenti di maggioranza del Comitato che hanno deciso di non partecipare ai lavori dell’organismo finché l’equilibrio non sarà ristabilito. Intanto il presidente Massimo D'Alema ha deciso di sconvocare l’audizione al Copasir del sottosegretario Gianni Letta che avrebbe dovuto riferire al Copasir in seguito al caso Ruby.

L'accusa a Futuro e Libertà. Un'accusa aperta mossa da Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Giuseppe Esposito e Marco Reguzzoni per mettere con le spalle al muro il leader del Fli. La composizione del Copasir "è di totale illegalità", a causa di un "colpo di mano di Fini per favorire Fli". Proprio per questo, il Pdl e il Carroccio non parteciperanno ai lavori finchè non sarà ristabilita la parità tra i membri della maggioranza e quelli dell’opposizione. Fino a quando perdurerà l’attuale situazione che vede sei membri dell’opposizione e quattro della maggioranza "il presidente D’Alema sospenda l’attività dell’organismo" a cominciare dall’audizione di Gianni Letta prevista per questo pomeriggio. Dopo il passaggio di Fli all’opposizione, ricordano gli esponenti della maggioranza, il finiano Carmelo Briguglio aveva presentato "correttamente" le sue dimissioni dal Copasir, "ma Gianfranco Fini per 43 giorni non ha provveduto alla sua sostituzione con Pietro Laffranco", il deputato pidiellino indicato da Cicchitto.

La mancanza di equilibrio. A ripercorrere la vicenda è il vice capogruppo del Pdl in Senato Gaetano Quagliariello. "Il principio fondamentale della legge istitutiva del Copasir è la parità tra maggioranza e opposizione". Il principio "secondario" è invece la rappresentanza proporzionale dei diversi gruppi "all’interno di maggioranza e opposizione". Al momento del passaggio all’opposizione di Fli, ricorda Quagliariello, "Briguglio correttamente si dimise dal Copasir". Contemporaneamente, si dimise anche il rappresentante dell’Idv, il senatore Caforio. A quel punto, "Fini chiese un nuovo nome al Pdl, Schifani lo chiese all’IDv. Il Pdl ha proposto Laffranco, l’Idv ha riproposto Caforio. Ma Caforio è stato nominato da Schifani, Laffranco non è stato nominato da Fini". Poi, ieri, la revoca delle dimissioni da parte di Briguglio: "Il risultato è che sei membri sono del’opposizione, quattro della maggioranza, determinando una situazione di assoluta illegalità dovuta al mancato accordo tra i gruppi di opposizione". Sembrava infatti che l’Idv dovesse rinunciare al proprio rappresentante, determinando la nomina di un senatore di Fli. Una situazione, afferma Quagliariello, che "di certo non si può addebitare a Schifani".

L'incompatibilità di Fini. Durante un incontro con i vertici del Pdl, anche il presidente del Consiglio avrebbe indicato la vicenda del Copasir come un'ulteriore dimostrazione che Fini sta approfittando della sua carica di presidente della Camera per svolgere il suo vero ruolo di leader politico. Fini, ha spiegato il premier secondo quanto viene riferito, non sta svolgendo il suo ruolo istituzionale e quindi di terzietà, non può più rappresentare le istituzioni. Secondo i vertici del Pdl, riferisce chi ha partecipato all’incontro in via del Plebiscito, Fini non ha permesso la sostituzione di Carmelo Briguglio all’interno del Comitato parlamentare per la sicurezza con un deputato del Pdl. Lo ha fatto, ripete la fonte, da presidente della Camera.

Le accuse della Lega Nord. Per il leghista Reguzzoni è evidente "il colpo di mano di Fini per favorire Futuro e Libertà", così come per Cicchitto è evidente "lo sgarbo del Presidente della Camera nei confronti del Pdl", tanto più che in virtù della scissione di Fli "noi abbiamo fatto dimettere un nostro rappresentante al Consiglio d’Europa e uno in Vigilanza Rai, per essere poi presi in giro al Copasir". Una posizione, quella di Fini, "tesa a garantire la forza contrattuale di Fli all’interno dell’opposizione". La conseguenza è che i componenti di Pdl e Lega "non metteranno più piede" al Copasir "finché non sarà ristabilita la legalità della sua composizione". Nel frattempo, è l’appello al presidente dell’organismo di controllo sui servizi segreti, "Massimo D’Alema dovrebbe astenersi dal convocare il Copasir e svolgere attività".

D'Alema: "Gioco di ritorsioni". Immediata la reazione di D’Alema che ha parlato di una "decisione immotivata", un "gioco di ritorsioni" fatto di atti "non responsabili" e "assurdi". "Per senso di responsabilità - ha spiegato il presidente del Copasir - abbiamo deciso di rinviare l’audizione di Letta. Considero la decisione della maggioranza una decisione immotivata, anche perchè in queste settimane abbiamo lavorato normalmente e non è mai successo che la maggioranza fosse stata messa in difficoltà o che venissero meno il rispetto del criterio di pariteticità". D’Alema ha ricordato di aver sollecitato i presidenti di Camera e di Senato a trovare un accordo per sbloccare questo conflitto istituzionale. Per D’Alema, "è la prova che la maggioranza non solo non è più in grado di governare il Paese, ma è anche di ostacolo al funzionamento delle istituzioni e di un organismo delicato come il Copasir". Per questo, la decisione è "assurda" anche se, ha detto ancora D’Alema, "il lavoro di questo comitato non sta così tanto a cuore alla maggioranza".

Proprio qualche giorno fa, il signor Fini sul corriere esordiva più o meno così: "Per andare al governo c'è chi vende l'anima e anche altro". Ma c'è anche chi vende il partito svendendo se stesso e tradendo il proprio elettorato, fino a bloccare i lavori in parlamento, pur di tenersi una poltrona che ormai non gli appartiene più e di andare contro al governo col quale è stato eletto. Caro, caro Gianfranco, mi rivolgo a te direttamente. Vattene dal parlamento e soprattutto, vatti a rifugiare a montecarlo... o alle maldive, magari.

mercoledì 26 gennaio 2011

Sfiducia a Bondi...

... totalmente inutile, vero signor Di Pietro, Casini, Fini e Bersani? Un giorno sprecato che poteva essere usato tranquillamente in altro modo. Peccato che nessuno vi tolga i soldi della busta paga di un giorno improduttivo come questo. Vergognatevi del vostro parassitismo devastante!


MILANO - L'Aula della Camera ha respinto le mozioni di sfiducia nei confronti del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi: 314 no, mentre i sì sono stati 292 e 2 gli astenuti. I presenti al voto erano 608, i votanti 606, la maggioranza richiesta 304. La maggioranza ha espresso lo stesso numero di voti registrato il 14 dicembre sul voto di fiducia al governo. L'appuntamento era iniziato alle 16 e il programma prevedeva che i deputati di maggioranza e opposizione votassero la mozione di sfiducia contro il ministro dei Beni culturali, presentata dall'opposizione dopo i crolli a Pompei. La bocciatura appariva abbastanza prevedibile, vista anche l'assenza di diversi deputati del Centrosinistra, impegnati a Strasburgo al Consiglio d'Europa. Il ministro, nel suo intervento in Aula, aveva respinto al mittente le accuse e aveva contrattaccato: «La cultura è stata uccisa dalla sinistra».

DIFESA - Prima del dibattito il Pdl aveva fatto quadrato attorno al titolare della Cultura e anche il leader della Lega, Umberto Bossi, guardava con ottimismo al voto. Il Senatùr si era infatti detto convinto che Bondi sarebbe rimasto ministro, anche se aveva ribadito che «non bisognava ridursi così. Hanno lasciato andare tutto in malora perché pensavano che tanto poi il Nord gli avrebbe mandato i soldi. È stato un modo per spillarci soldi - attacca Bossi riferendosi alle condizioni di degrado dei siti archeologici pompeiani costati a Bondi la mozione di sfiducia - perché non è possibile che in tanti anni nessuno si sia accorto che crollava tutto». La maggioranza, d'altra parte, ha continua a premere in queste ore perché venga ridiscusso il ruolo del presidente della Camera Gianfranco Fini. Bossi non usa mezzi termini a riguardo. «Mi pare che si debba dimettere» sottolinea il numero del Carroccio, secondo il quale un passo indietro del leader di Montecitorio sarebbe una «opportuna»

SFIORATA RISSA - Durante la votazione si è anche sfiorata la rissa nell'aula della Camera tra i finiani Fabio Granata e Nino Lo Presti sulla mozione di sfiducia al ministro Bondi. I deputati segretari avevano chiamato Fabio Granata a votare che però si stava attardando a rispondere alla chiama. Giampaolo Dozzo lo esorta ad andare a votare. Granata gli risponde male. A un certo punto, però, scoppia un alterco tra lui e Lo Presti, sedato poco dopo. Ma non finisce qui: mentre i due vengono divisi dai commessi, Lo Presti ha un altro alterco con il deputato leghista Stefano Allasia che si prende uno schiaffo. Il vicepresidente Maurizio Lupi ha fatto appello alla calma, ma non ha sospeso la seduta, contrariamente a quanto reclamavano dai banchi del Pd. Poco dopo, Lo Presti ed Allasia si sono «chiariti»: il deputato finiano è andato a chiacchierare con il leghista ai banchi del Carroccio. Il sereno, pare, non dovrebbe essere invece tornato tra Granata e Lo Presti: prima di lasciare l'Emiciclo, Lo Presti ha gridato al suo compagno di partito e corregionale (sono entrambi siciliani) «ti aspetto all'uscita».

TERZO POLO - Prima di entrare in aula il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini aveva chiarito che il Terzo Polo avrebbe votato la sfiducia, perché «non condivide l'operato» del ministro. Comunque, aggiunge il leader centrista, «lo sanno anche i bambini dell'asilo che Bondi avrà la maggioranza». Dello stesso avviso Francesco Rutelli, leader di Api.

SIT-IN - Intanto i 100 autori e in generale il movimento "Tutti a casa", che raggruppa varie associazioni e lavoratori dell'audiovisivo, hanno organizzato un un sit-in in Piazza Montecitorio nel pomeriggio. Successivamente è prevista la consegna di una lettera ai capigruppo dell'opposizione per sollecitare i parlamentari a votare la sfiducia a Bondi.

Guido Bertolaso, sesso e corruzione


PERUGIA - Secondo i Pm l'ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso ha ottenuto soldi e sesso in cambio della concessione degli appalti per il G8 alle ditte del costruttore romano Anemone. L'appartamento in via Giulia, a Roma, pagato da Diego Anemone «dal gennaio 2003 all'aprile 2007», 50mila euro in contanti «consegnati brevi manu da Anemone il 23 settembre 2008», la «disponibilità» al Salaria Village «di una donna di nome Monica allo scopo di fornire prestazioni di tipo sessuale»: sono «i favori e le utilità».

VERSO IL RINVIO A GIUDIZIO - Sono questi in sintesi gli elementi raccolti dalla procura di Perugia a carico di Bertolaso. I capi di imputazione sono contenuti nell'avviso di conclusione indagini con cui i magistrati perugini si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio di Bertolaso per corruzione.

L'istupidimento di Alfano


Ministro Alfano, lasci perdere il reato di negazionismo. Farebbe un dan­no alla libertà, alla verità e alla dignità di tutti coloro che patirono massacri, ebrei in testa. Ho sentito che ha istituito un gruppo per studiare un testo di legge. Si fermi, la legge sarebbe iniqua, avreb­be effetti peggiori del male che vuol col­pire e chiederanno di estenderla ad altri negazionismi. Un tunnel senza fine. Le opinioni che negano la realtà stori­ca sono svariate, a volte avariate e diver­samente spregevoli; ma le opinioni non si puniscono col carcere. Primo, perché le parole si condannano con le parole, gli atti con gli atti. Secondo, perché pe­nalizzare le opinioni significa intimidi­re la ricerca storica che per sua natura è portata alla revisione dei fatti e dei giudi­zi. Terzo, perché creerebbe intorno agli ebrei un cordone sanitario di intoccabi­li­tà che è pericoloso perché rischia di ca­povolgersi nel suo rovescio. L’alone di immunità potrebbe scatenare desideri di infrangere il tabù, di violare l’inviola­bile e creare fanatismi di ritorno e anti­patie. Quarto, perché crea il principio dell’ereditarietà delle colpe e delle tra­gedie, con dolorose contabilità, e il rea­to di complicità ideologica, due mostri giuridici dagli effetti devastanti ed esten­sibili. Quinto, perché sarebbe ingiusto punire chi nega la Shoah e non punire chi nega altri massacri, precedenti o più recenti, di armeni e di kulaki, di russi e di cinesi, di vandeani e di indios, di giap­ponesi e di istriani, di colonizzati e di cri­stiani, e potrei a lungo continuare. Non propongo di punire anche gli altri nega­zionismi, per carità, perché se affidia­mo pure il giudizio storico ai tribunali e se mettiamo storici e docenti sotto tu­tela del magistrato, oltre a uccidere la ricerca storica, avveleniamo l a vita ci­vile e scolastica. E devitalizziamo la giusta indignazione, l’impulso a repli­care con argomenti d i verità alle men­zogne. Niente discussioni, basta l a de­nuncia; a l posto nostro c i pensa il giu­dice. Capisco l e ragioni d i questa pro­posta e perfino l e convenienze, m a la­sci stare. La storia fa troppe vittime nel suo corso per farne ancora, a bab­bomorto, 66 anni dopo.

Punti di vista

Fra la tonaca e la toga di Davide Giacalone

L’idea di un governo con il centro destra e senza Silvio Berlusconi è una speranza cui si uniscono in molti, fra politici, giornalisti e palazzi romani, anche se non sanno descriverne né i contorni né la legittimità. Mi stupisce quanta brava gente non comprenda il punto che consente a Berlusconi, nonostante tutto, di mantenere un vantaggio elettorale: la resistenza agli attacchi giudiziari. Il calore polemico offusca la mente e molti non si rendono conto di quanto alto sia il discredito della nostra giustizia. Pochi numeri, di una ricerca effettuata da Ferrari Nasi & Associati, la dicono lunga: il 54% degli italiani hanno poca o nessuna fiducia nella magistratura, collocandosi sopra la media europea; per il 56 i magistrati agiscono a fini politici; per l’86 un magistrato che sbaglia deve pagare, contrariamente a quel che avviene oggi; e per il 68% i magistrati dovrebbero essere controllati da un organismo indipendente, non composto da loro colleghi. E non si dica che gli italiani sono troppo severi, perché sono assai più generosi dei giudici che siedono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ci considerano direttamente incivili.

Gli italiani si sono fatti idee personali su quale possa essere il grado di responsabilità di Berlusconi, per ciascuna delle mille cose che gli sono imputate. E’ escluso che lo considerino un santo, ma gli riconoscono il miracolo di non avere ceduto. Una fetta consistente degli elettori ha continuato e continuerà a votarlo proprio per questo, perché sente che un nuovo colpo giustizialista, nuove condanne senza processi, incarnerebbe l’incubo della Repubblica giudiziaria. Del resto, diciassette atti d’inchieste penali offrono pezze d’appoggio per considerarle una persecuzione, anche prima che la commissione parlamentare considerasse tali le intercettazioni disposte dalla procura di Milano. C’è di più: finché accusano Berlusconi d’essere il mandante delle stragi mafiose c’è chi reagisce con disinteressata incredulità e chi ricorda che la presunta contropartita la pagarono Ciampi e Conso, ma quando le accuse si spostano sul terreno delle personali debolezze, della sessualità compulsiva, allora in molti riconoscono il mondo che li circonda, e se non ci trovano nulla in comune con la propria vita avvertono, comunque, che si tratta di una vita, e allora l’inquietudine cresce. Chi si salva, se il peccato diventa reato? Allora, deducono in molti, meglio tenersi Berlusconi, che resiste e attira i fulmini.

Detto in altre parole, visto che certuni sono duri di comprendonio: la forza elettorale di Berlusconi è in buona parte dovuta alla cieca rabbia dei suoi avversari, al moralismo senza etica e all’uso strumentale della giustizia, che convincono gli italiani di quanto sarebbe pericoloso subirne le attenzioni. Sollecitare Berlusconi a fare un “passo indietro”, dunque, significa non avere capito la persona (e passi), ma neanche l’Italia. Quel pentolone melmoso che sobbolle da quando la democrazia fu violentata per via giudiziaria (da quando un’intera classe politica fece il passo indietro, e fu decapitata). E’ vero, il popolo applaudì. Ma fu svelto a capire il seguito e interrompere la scena, consegnandosi nelle mani del più schietto prodotto del manipulitismo: Berlusconi. Sono gli intellettualoidi idioti a non capirlo, in compagnia degli speculatori manettari.

Pertanto, ove mai si trovi il tempo e la lucidità per pensare all’Italia e a chi ci abita, la si smetta con questa solfa deprimente, che in nome di un’avversione antropologica contro l’italiano più italiano pretende che l’intera collettività rinneghi la laicizzazione e la libertà nel disporre di sé. E’ vero, Berlusconi manca di rispetto per la gravitas della pubblica funzione. Ora che l’ho ripetuto posso pure sentirmi sollevato, ma per niente gratificato dall’avere detto una cosa significativa. La via d’uscita non consiste nel convocare al capezzale il parroco e il giudice, ma nel chiamare la politica ai suoi doveri. Il governo ha un programma, se ne controlli l’attuazione, senza lasciare alla logorrea ministeriale l’elencazione delle “cose fatte”. Serve misurare i cambiamenti reali, mica i bolli apposti. E serve richiamare le opposizioni alla realtà: piantatela di misurarvi fra di voi calcolando la rispettiva distanza da Berlusconi, sembrate matti. Quando vi farà lo scherzo d’abbandonarvi non saprete più che cavolo esistete a fare. Piantatela con le primarie senza regole, che riuscite anche a violare: tanto a Napoli vincono i bassoliniani, come prima vincevano i gavianei e prima ancora i laurini. E’ inutile che vi attacchiate a Bagnasco, perché gli elettori guarderanno l’alternativa ed eviteranno di finire stritolati fra la tonaca e la toga. Finché voi sarete quel che siete Berlusconi sarà forte, a dispetto di tutto. Gli chiedono un passo indietro e dovrebbero esigerne dieci in avanti, mentre un Paese fermo continua a tenerselo, per non ritrovarsi esposto sulla prima linea della maniacalità inquisitoria.

Pronto un ddl per sanzionare i pm


Le conversazioni private di Daniela Santanchè sono state intercettate dai Ros nell'ambito dell'inchiesta sul G8 alla Maddalena nella quale, a vario titolo, sono coinvolti il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini e l'imprenditore Riccardo Fusi. Vuol dire che il sottosegretario all'Attuazione del programma è indagato? Nient’affatto. Ma sono state diffuse informazioni private di una persona non coinvolta nell'indagine e che quindi sarebbero dovute rimanere segrete. Dunque, la gogna mediatica continua. Così, anche sull’onda del maremoto scatenato dal "Ruby gate” (altro caso incentrato molto sulle intercettazioni telefoniche finite puntualmente sui media) si riapre un dibattito che nei mesi scorsi ha agitato la scena politica e mediatica: quello sulle libertà fondamentali dei cittadini.

A focalizzare l'attenzione sull'uso delle intercettazioni è il vicepresidente dei senatori del Pdl Gaetano Quagliariello, secondo il quale il trattamento riservato alla Santanchè supera ogni limite: “Abbiamo sempre condannato le gogne mediatico-giudiziarie perché accreditano ricostruzioni parziali e troppo spesso anticipano in sede impropria i giudizi”. Per il senatore pidiellino oggi è ancora più evidente la necessità di una disciplina rigorosa sull'utilizzo dello strumento investigativo. Una posizione che colpisce dritto nel segno, subito dopo la notizia della proposta di legge per “responsabilizzare i pm e i giudici che autorizzano gli ascolti” a firma del deputato Pdl Luigi Vitali. Un ddl depositato nel novembre scorso che prevede risarcimenti fino a 100mila euro per i cittadini che vengono sottoposti ad intercettazioni e poi prosciolti dall'inchiesta. Una norma della quale, secondo lo stesso deputato di maggioranza, “si sente il bisogno” dopo gli “abusi” sulle intercettazioni con i quali ci si “trova a fare i conti”.

La proposta firmata da Vitali e da altri 29 colleghi di maggioranza prevede l'introduzione dell'articolo 315-bis del codice di procedura penale, “concernente la riparazione per ingiusta intercettazione di comunicazioni telefoniche o di conversazioni”. Nello specifico, verrebbe profilata l’ipotesi di illecito disciplinare secondo la quale pm e giudici non competenti non possono autorizzare intercettazioni. Nel testo c’è anche una norma che renderebbe le nuove disposizioni retroattive: il risarcimento è previsto, infatti, anche per chi è stato coinvolto in indagini fino a 5 anni prima della sua entrata in vigore. L'obiettivo del provvedimento è duplice: da una parte si vogliono responsabilizzare i pm e i giudici che autorizzano gli ascolti, dall’altra risarcire i cittadini che sono oggetto di intercettazioni che poi non danno alcun esito di carattere giudiziario. Già, perché nella maggioranza non si è convinti soltanto che l’uso sregolato di questo strumento investigativo sia una limitazione della privacy del cittadino, bensì anche un grave danno economico per il Paese. Per comprenderlo basta dare uno sguardo ai numeri. Tenete bene a mente una cifra: 272 milioni. E’ quanto hanno speso gli italiani nel 2010 per le intercettazioni telefoniche e ambientali necessarie alle indagini promosse dalle Procure nel nostro Paese. Un incremento del 17,6% rispetto al 2008. Soldi spesi bene? Difficile dare una risposta univoca a questa domanda, considerando che ogni anno in Italia vengono captate decine di migliaia di conversazioni private. Una questione, però, è chiarissima: i pm richiedono le intercettazioni, gli italiani le pagano (272 milioni, dicevamo) e se non sono servite alle indagini, pazienza: caso archiviato.

“Mi sembra un principio di civiltà giuridica – dichiara Vitali in un’intervista al Giornale – le intercettazioni sono uno strumento indispensabile ma servono a confermare l'ipotesi di reato, non a trovare la notizia di reato. Non possono essere la regola ma l'eccezione”. E se ci sono abusi, sostiene il deputato, devono essere individuati i responsabili e risarciti gli imputati prosciolti così come quelli le cui conversazioni sono finite sui giornali pur essendo estranei alle indagini svolte. Ora che il ddl Alfano sulle intercettazioni è finito su un binario morto a causa dello strappo dei futuristi di Fini e le indagini (così come la tutela dei cittadini) corrono il rischio di essere delegittimate proprio dall'uso improprio di strumenti a supporto dell'attività investigativa, c'è da chiedersi se anche il ddl Vitali finirà in un pantano oppure se questa volta si avvierà per davvero una riforma complessiva in grado di rimettere nel giusto binario il rapporto tra giustizia e politica.