mercoledì 14 ottobre 2009

Averceli gli occhi...

Indagini, la procura fa retromarcia Un terrorista salvato dalla sanatoria di Enrico Lagattolla

Undici anni fa, Abdel Hady Abdelaziz Mahmud Kol - uno dei due nordafricani fermati ieri notte dalla Digos per l’attentato alla caserma Perrucchetti - pescò il biglietto della lotteria vincente. Lui, e altri 240mila stranieri fino a quel momento irregolari. Un biglietto di Stato. Anno 1998, governo di centrosinistra. Arriva la sanatoria. Quattro anni prima, il nome di Abdel Kol era comparso per la prima volta nei registri dell’ufficio immigrazione della Questura. Data ingresso in Italia, si legge nei documenti ufficiali, 24 gennaio 1994. Motivo del soggiorno, «lavoro subordinato». Professione, «operaio comune». A garantire per lui è un’azienda di San Donato oggi scomparsa. Quattro anni dopo, nel 2002, l’egiziano ottiene la carta di soggiorno. Tradotto, permesso a tempo indeterminato senza più l’obbligo di presentarsi in via Montebello per il rinnovo. Così, Abdel Mahmud Kol scompare. Fino a ieri. Fino a quando una bomba esplode, e quasi uccide il suo sodale Mohamed Game. Finché, in un appartamento, viene trovato un quintale di sostanze potenzialmente esplosive. Anche così si mette in difficoltà uno dei migliori apparati dell’antiterrorismo italiano. Ros, Digos, procura di Milano. Investigatori che hanno indagato su Al Qaida, su Abu Omar, sui voli Cia, sulle cellule internazionali della rete del terrore, sugli imam predicatori d’odio, da dieci anni a questa parte. Poi arriva Mohamed Game. Un signor nessuno. Un «lupo solitario», si dice in un primo momento. Un fanatico che agisce da solo, quasi uno squilibrato. Ma nel giro di poche ore gli inquirenti scoprono che il signor nessuno non è uno, ma due. Anzi tre. Perché oltre a Game l’ingegnere, libico di 35 anni a Milano almeno dal 2000 e dal 2003 con regolare permesso di soggiorno, c’è anche Kol, di cui nessuno sa nulla a parte quel file all’ufficio immigrazione che lo riguarda, e men che meno si conosce la storia di Israfel Mohamed Imbaeya, regolarmente in Italia senza aver mai dato notizia di sé. Un anonimato che mette in crisi, almeno all’inizio, la nostra intelligence. Nel giro di 24 ore, la piccola cellula viene individuata e smantellata. Ma resta la preoccupazione. Perché è un insieme di fattori che rende imprevedibile un fatto come l’attentato alla «Santa Barbara». Un misto di fanatismo, disperazione, indottrinamento e suggestione che sfugge ai criteri investigativi. L’iniziativa personale non è preventivabile. È il fatto di scoprire che ad agire possano essere piccoli nuclei di estremisti, senza alcun legame con la jihad internazionale, senza accesso ai canali di finanziamento monitorati dai nostri 007, o ai traffici di passaporti falsi. Insomma, senza tracce. È il problema, infine, delle fonti aperte, la facilità con cui è possibile avere accesso a un «manuale del bombarolo» navigando nel web. Anche per questo, è difficile calibrare la portata di quel quintale di «esplosivo» - tra nitrato di ammonio e altre sostanze chimiche con cui combinarlo - ritrovato ieri. Il timore degli inquirenti, almeno all’inizio, era tutto lì. C’erano forse altri obiettivi nel mirino del gruppo? Dopo quell’esplosione, dovevano seguirne altre? Milano, storicamente, di obiettivi ne ha avuti più d’uno. Il Duomo, Linate, la metropolitana. Tutti progetti bloccati per tempo dalla procura e dalle forze di polizia. Tutti obiettivi di cellule più o meno strutturate, alcune con legami all’estero, alimentate dal denaro dalla rete qaidista. Ora, procura, Digos e Ros sembrano aver tracciato i confini di quest’ultima indagine. Di fronte a un paradosso: che chi è la vera minaccia, alla fine lo è meno di chi non sembra un pericolo. Perché a colpire, inatteso, è il kamikaze improvvisato.

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