lunedì 31 maggio 2010

Islam e cultura, due cose diverse...


L’islam ama definirsi la religione del Libro. La religione della parola scritta e certificata. Molto meno amate le immagini, anzi spesso vietate. Il raccontare è sacro, il dipingere o il suonare è spesso considerato blasfemo. Un punto di partenza tutt’altro che libertario ma che dovrebbe garantire il ruolo della letteratura, lo status degli scrittori. Dice infatti il Corano riferendosi a chi ha accesso alla conoscenza: «È per il calamo ciò che scrivono».

E per qualche secolo è stato davvero così. Almeno a giudicare dal fatto che nel X secolo il poeta Al-mutanabbi poteva permettersi versi che suonano più o meno così: «Sono forse roccia? Perché non mi smuove questo vino,/ e nemmeno questi canti?/ Se desidero del limpido vino rubro lo trovo./ Ma l’amata è perduta». Se scrivesse ora gli stessi versi, a più di mille anni di distanza, rischierebbe di avere bruttissimi guai. Per rendersene conto basta sfogliare il saggio appena pubblicato dall’islamista Valentina Colombo: Vietato in nome di Allah. Libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico (Lindau, pagg. 176, euro 17). Sotto l’ombra della mezzaluna gli ultimi trent’anni sono stati un vero incubo per gli intellettuali. Un incubo di cui l’Occidente riesce a rendersi conto solo quando una fatwa colpisce lo scrittore di grido con passaporto britannico, vedasi Salman Rushdie, o quando a morire sotto i colpi di pugnale degli estremisti è Theo van Gogh.

Eppure quella in atto nei Paesi islamici è una vera e propria politica del terrore. A volte a praticarla sono i governi a colpi di processi farsa, di galera e di censure. Altre ci pensano gli estremisti sgozzando gli «apostati» come agnelli. Una mattanza così diffusa e reiterata che è persino difficile fare un censimento dei perseguitati. I nomi che vedete nel grafico di questa pagina, infatti, sono solo alcuni degli esempi più clamorosi del progressivo incupirsi del controllo culturale. Se nel 1955 perché la traduzione in arabo della Divina Commedia venisse pubblicata in Egitto venne chiesto all’editore di omettere i versi dell’Inferno relativi a Maometto (ovviamente senza nemmeno mettere una nota per il lettore), venticinque anni più tardi era diventato un problema anche solo discutere di linguistica.

Nel 1980 uscì sul mercato L’introduzione alla storia della lingua araba di Louis Awadh. L’autore aveva fatto alcune innocue notazioni filologiche in cui rilevava che alcune parole del testo coranico erano legate alla lingua dell’antico Egitto. Abbastanza perché l’università islamica Al-Azhar intervenisse con tutto il peso della sua autorità per richiedere la messa al bando del volume. Il motivo? L’autore avrebbe oltraggiato la sacralità della lingua araba in quanto lingua di Dio. E se la fonetica diventa irreligiosa, figuratevi cosa può capitare a chi osa qualcosa di più. Soprattutto contando che l’Egitto è un Paese, teoricamente, vicino all’Occidente.

Ecco spiegato come è stato possibile che Mahmud Muhammad Taha, benché ottantaduenne, sia finito impiccato a Khartoum per il suo saggio Il secondo messaggio nell’Islam (correva l’anno 1985). Chiunque provi a mettere in discussione la teocrazia islamica, in Paesi in cui la pressione delle ambasciate occidentali è nulla, rischia subito grosso. E non è detto che per forza si debba ricorrere al boia: se non c’è la possibilità di una condanna a morte ufficiale possono sempre capitare sgradevoli «incidenti». Lo scrittore iraniano Ali Dashti è morto in carcere non si sa esattamente come. In gattabuia era entrato negando i miracoli di Maometto. Del resto doveva aspettarselo: nel 1980, una volta instaurata la teocrazia, Khomeini aveva organizzato il gigantesco rogo di 80mila libri.

E se i nomi degli scrittori citati sin qui vi dicono poco o nulla non stupitevi. I sostenitori dell’islam più ortodosso sanno che è strategico far loro attorno terra bruciata. A casa propria ma possibilmente anche all’estero. Tanto più che non tutti sono degli eroi votati al martirio. A volte per far paura basta meno. Quando non si arriva al dramma ci si imbatte infatti nel grottesco, in episodi surreali. Il teologo egiziano Abu Zayd, fervente musulmano ma favorevole a una certa forma di modernismo, è stato condannato per apostasia. Da allora è stato considerato dai tribunali egiziani come «giuridicamente» morto e quindi è stato chiesto anche l’annullamento d’ufficio del suo matrimonio. Ora vive in Olanda dove insegna a Leida. La vicenda potrebbe scatenare amara ilarità: il fatto che anche adesso gli convenga chiudersi bene la porta alle spalle la sera molto meno. E se lui se ne è andato, a finire nel mirino dei tribunali - in Egitto la sharia è «la fonte principale della legislazione» - sono molti degli intellettuali rimasti: nel 2008 è toccato alla regista Ines al-Dighdi, al poeta Hilmi Salim, al pensatore liberale Sayyid al-Quinmi...

Tutte persone la cui ultima speranza, quando i costi legali o il rischio che qualcuno passi alle vie di fatto diventa troppo alto, resta sempre e solo la fuga o la minaccia pubblica della fuga. Classico l’esempio di quanto ha fatto Ahmad al-Baghdadi, docente di scienze politiche in Kuwait (altro Paese che all’Occidente deve più di qualcosa). È stato condannato a un anno di galera nel 2005 per aver detto che a scuola è meglio se i bambini passano più tempo a studiare musica che a studiare il Corano. Chiedendo asilo politico ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale. Ma più il tempo passa e meno l’Occidente è un rifugio. La presenza islamica sempre più alta porta con sé minacce potenziali, e non solo potenziali, per molti di questi «cervelli» costretti alla fuga. La somala Ayaan Hirsi Ali che collaborò con Theo van Gogh e che ha vissuto a lungo sotto scorta si è spostata negli Stati Uniti per sentirsi veramente libera e sicura. In Europa doveva vivere blindata. Nel suo ultimo libro appena tradotto in italiano, Nomade (Rizzoli), ha spiegato come in Europa un certo clima di violenza sia ormai per tutti, ma soprattutto per lei e per le donne in generale, alla «porta accanto».

L’intellighenzia e i media del Vecchio Continente, sempre pronti a gridare alla censura se qualcuno critica (non vieta) l’esposizione di un crocefisso dipinto con lo sperma, a questi allarmi sono però stranamente sordi. Deve scapparci il morto.

Cordova


Sarebbe bello credere a Fareed Zakaria quando dice che il risveglio del mondo moderato islamico dopo l’11 Settembre alla fine determinerà la caduta di Al Qaeda. Abbiamo letto con curiosità del convegno di Mardin in cui importanti studiosi hanno ‘ripudiato’ la Fatwa del giurista medievale Ibn Taymiyya, strumentalizzata (neanche tanto) da Bin Laden per i suoi sermoni contro l’Occidente. Come pure guardiamo con apprensione al destino di Tahir ul-Qadri, uno dei maggiori interpreti dell’Islam pakistano, finito nel mirino di Tehrik-e-Taliban per aver promulgato un parere giuridico di 600 pagine in cui si condanna il terrorismo come “non islamico”.

Ma poi arriva la notizia che una associazione islamica degli Usa chiede di poter costruire una moschea a due passi da Ground Zero, in segno di simbolica riconciliazione dopo la frattura dell’11 Settembre, secondo loro, come uno schiaffo ai familiari delle vittime delle Torri Gemelle, secondo noi. Ed è un giornalista islamico, lo sciita iracheno Khudayr Taher, dalle pagine del quotidiano Daily Elaph, a metterci in guardia. Il nome scelto per la moschea di Ground Zero sarà “Cordova”. Non si tratta di una coincidenza o di una scelta innocente perché Cordova “racchiude tutti i sogni di espansione e di invasione dei territori che oggi animano il mondo musulmano”. Quel nome rimanda all’Emirato poi Califfato di Cordova che dal 756 al 1031, con alterne vicende, segna il momento di massima espansione dell’Islam in Europa, con l’occupazione della Spagna.

Si dirà che Taher è un provocatore. Uno di quegli intellettuali arabi che, avendo abbracciato senza riserve il liberalismo occidentale, ha perso di vista la realtà del mondo a cui appartiene. E' giunto ad augurarsi una paradossale deportazione di tutti i cittadini islamici dagli Stati Uniti, lui compreso, perché rappresentano un costante pericolo alla sicurezza americana. Non solo ha chiesto alla Casa Bianca di impedire l'apertura della moschea di Ground Zero ma anche di ordinare la chiusura di quelle già esistenti. Per Taher è impensabile che l’Islam, una religione che simboleggia la virtù, la giustizia e i principi della fratellanza umana, sia caduto vittima di quelli che promettono il paradiso ai martiri e l’inferno agli infedeli. “I wahhabiti, i seguaci delle teorie di Khomeini, e tutti i partiti islamisti siano essi sciiti o sunniti”.

Effettivamente ha messo il dito nella piaga. Gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, fino a tempi recenti hanno abbondantemente ignorato il passato dell'Islam. La prima scuola di islamistica americana fu aperta a Beirut negli anni Sessanta, la città più ‘occidentale’ dell’intero mondo arabo. Lo stesso Presidente Obama è caduto più volte in pericolosi tranelli che mostrano come non abbia una conoscenza approfondita di queste vicende. Durante il discorso del Cairo, per esempio, ha paragonato il suo piano per il Medio Oriente al Trattato di Tripoli, che segna invece il momento di maggiore acquiescenza degli Stati Uniti verso i pirati berberi alla fine del XVIII secolo.

Sarebbe opportuno ricordare cosa fu il Califfato di Cordova. Ancora una volta non per insultare l’Islam o per sminuire la sua gloria e la sua grandezza storica. Sappiamo tutti, grazie al prezioso sforzo degli storici di professione come il professor Bernard Lewis, che durante il dominio arabo sulla Spagna, in un'epoca nella quale i rudi cavalieri Franchi venivano considerati “barbari” dai musulmani, questi ultimi primeggiavano nelle scienze nella filosofia e nelle arti. Portarono in Europa l’uso della forchetta e l’abitudine a depilarsi per le donne, se vogliamo guardare al faceto, oltre naturalmente all’urbanistica e all’agronomia, se invece preferiamo discutere di cose più serie. Ma detto questo il Califfato di Cordova rappresenta pur sempre uno dei momenti dell’imperialismo islamico prima della Reconquista. La decisione di intitolare la moschea a Cordoba è quindi una forma di cosciente revanscismo, una nostalgia di potenza che sembra covare nella comunità arabo-americana dopo l'11/9. Il sogno di un nuovo emirato sta forse turbando i cuori dei musulmani d’America?

domenica 30 maggio 2010

Cgil


La dura legge del Corano si fa strada attraverso il sindacato rosso. È una sala della Cgil bresciana che si prepara ad ospitare, domani pomeriggio, due degli esponenti di punta del Pjd, il partito antigovernativo marocchino della Giustizia e dello Sviluppo. Gli ospiti sono nomi noti nella galassia dell’islam politico, l’ex segretario generale Saadeddine Elothmani e il deputato Abdelaziz Rebbah. Il primo si è visto anche assegnare nel 2006 l’ambito premio “Musulma - no Democratico dell’Anno” dal Center for Islam and Democracy di Washington, negli Stati Uniti. Forse quegli americani avevano dimenticato che, nel programmadel Pjd, si auspica che le donne indossino il velo, si vieti l’alcool e si amputino le mani ai ladri. E anche Rabbah, almeno giudicare dalle interviste che concedeva negli anni scorsi, non sembra ancora aver deciso tra i sermoni del predicatore preferito dai Fratelli musulmani, Yussuf al-Qaradawi, oppure la “moderazione” del loro omonimo partito turco guidato da Recep Tayyp Erdogan, divenuto ormai il più potente alleato dei terroristi palestinesi di Hamas. Di certo, tra i nemici del Pjd c’è Elton John, che mercoledì scorso li ha sfidati, partecipando al Mawazine festival di Rabat, sebbene i fondamentalisti avessero chiesto l’annullamento della sua esibizione. Secondo loro, il concerto del cantante gay rappresentava un’offesa per la morale pubblica e andava vietato. È reduce da un dibattito piuttosto acceso, l’opinione pubblica del Marocco. Poi, fra gli organizzatori che difendevano la loro decisione di invitare Elton John in nome della «tolleranza culturale» e i sostenitori della necessità di punizioni corporali nei confronti degli omosessuali, ha vinto la popstar, seguita da un pubblico record di 40mila persone interessate più alla musica che alla sharia o alle scelte eccentriche dell’artista. Ma il Pjd non rinuncia a chiedere la censura contro altri intellettuali come lo scrittore Mohamed Zafzaf. Negli ultimi anni il suo romanzo Un tentativo di vivere è perfino divenuto unlibro di testo ufficiale nelle scuole marocchine. Ma per i fondamentalisti è letteratura immorale da vietare. Se sulla sponda meridionale del Mediterraneo ci si batte con successo per la libertà d’espressione, in Italia avanza invece il movimento Giustizia e Carità, disciolto in Marocco ma che proprio nel Bresciano gestiva ben sei centri di preghiera autonomi e andava espandendosi nel Veneto. Poi, nel 2009, era iniziata la loro crisi. Secondo l’ultima relazione dei servizi segreti al Parlamento, sono le attenzioni delle forze dell’ordine a provocare numerose defezioni. Ma il nucleo dei fedelissimi rimasti resistono e tentano una reazione, «per rilanciare la loro immagine nel nostro Paese». Finora, si erano appoggiati a un altro ambiguo movimento fondamentalista, i Tabligh. Ma la lotta per l’egemonia, nella variegata comunità degli immigrati islamici, non si ferma. A bordo del cavallo di Troia offerto dalla Cgil, a Brescia arrivano intanto quelli di Giustizia e Sviluppo, organizzazione concorrente fin dalla sigla somigliante. L’occasione è il convegno «per giovani promettenti», organizzato dal Forum marocchino per l’integrazione in Italia. Sul versante opposto, i musulmani moderati, soprattutto quelli marocchini, pur soddisfatti di essere esclusi dalla competizione a chi è più fondamentalista, si dicono invece preoccupati per la propaganda islamista sempre più intensa. Lavorano affinché le secondo generazioni di immigrati crescano lontano dai predicatori d’odio, e allo stesso tempo scelgono la riservatezza. Temono ritorsioni, a danno dei loro familiari rimasti in patria. A Torino però c’è chi, come Mohamed Lamsouni, osa sfidare il fondamentalismo perché «se abbiamo paura di questi barbuti, favoriamo il terrorismo». «Da anni vado denunciando che nella moschea di corso Giulio Cesare si distribuiscono i giornali di Giustizia e Libertà. Io li ho combattuti ma la sinistra italiana li ha appoggiati», dichiara a Libero. A suo giudizio, il Pjd si dice un partito moderato, ma in realtà «è retrogrado perché è favorevole alla poligamia e all’applicazione della legislazione islamica». Saranno anche stati eletti al Parlamento, ma sono gli unici, fra i 33 partiti rappresentati, che «odiano l’Occidente e combattono contro i diritti umani. Vogliono il Califfato, uno Stato islamico, ma i marocchini non sono stati mai sottomessi ai Turchi e non lo accettano». Fra l’altro il Pjd lotta contro il governo marocchino, tradizionalmente di centrosinistra, e contro le riforme del diritto familiare promosse da re MohammedVI, che hanno di fatto impedito la poligamia. Strano che proprio il sindacato di Guglielmo Epifani conceda loro così tanto spazio.

Terrorismo islamico


Abdul Baset Ali al-Megrahi, chi era costui? Ve lo ricordate? Ma sì, lo stragista di Lockerbie, quello che su suggerimento del suo grande capo, il "colonnello" Gheddafi, ebbe la bellissima idea di mettere una bombetta su un aereo Londra- New York, così, per fare festa, e lo fece esplodere con tutti i suoi passeggeri nel cielo della Scozia... Ve ne ho parlato già un paio di volte. No, non sono fissato, non ce l'ho neanche con lui, non più che con tutti gli altri terroristi. E' che adoro i miracoli, specialmente quelli connessi con la politica. Bene, la conclusione della storia è questa: il 20 agosto dell'anno scorso, le autorità britanniche lo rilasciarono, con un atto di generosità del tutto sconnesso dal desiderio della British Petroleum (la famosa BP, quella del Golfo del Messico, eh già) di avere concessioni di ricerca nel mare libico.

Il poverello aveva un cancro alla prostata in fase terminale, e non più di tre mesi di vita. Bene, il miracolo è questo: sono passati sei mesi e una decina di giorni da quella liberazione umanitaria, e il nostro eroe è ancora in vita, in buona forma e a quanto pare attivo. (qui). Non è un miracolo? Un miracolo della politica o del petrolio?

E a proposito di miracoli e di terrorismo, avete letto cosa è accaduto a Lahore, in Pakistan? I poveri musulmani assaltati in due moschee dai terroristi mentre pregavano e ammazzati in quantità industriale? Allora ha proprio ragione Obama secondo il quale il terrorismo non c'entra con l'Islam, che l'Islam è una vittima di cattivi che sono semplicemente cattivi e basta... Peccato che non abbiate letto la clausola in caratteri piccoli, come dice l'amministratore, o l'ultimo paragrafo degli articoli dei giornali, quando pure c'era. Perché quelli ammazzati a Lahore non erano musulmani, o piuttosto si considerano tali, ma tutti gli altri musulmani sciiti e sunniti li rifiutano come eretici e c'è una legge dello Stato pakistano che proibisce loro di definirsi musulmani e di fare riti islamici. Si chiamano Ahamdi. Per vedere come i giornali italiani hanno nascosto, o nel migliore dei casi considerato irrilevante la notizia. Confrontate questa cronaca della Stampa (qui) con questa del Jerusalem Post (qui). Voi direte, magari, che a noi delle sette islamiche non interessa. E invece no, perché non si tratta di una dimostrazione che il terrorismo colpisce anche le moschee, come l'ha presentata la nostra stampa, ma di un altro episodio dell'infinita catena di persecuzioni, distruzioni e omicidi che costituiscono il modo standard con cui l'Islam tratta tutte le altre religioni, si tratti di cristianesimo, di ebraismo e anche dei loro stesso dissidenti, come i Bah'ai o gli Ahmadi. Questo è il terrorismo islamico, caro Obama, quello che cerca di distruggere tutte le altre religioni "a prescindere". A prescindere da Gaza, dall'Afghanistan, dall'"occupazione": tutti pretesti che a Lahore chiaramente mancano. Ma solo perché ci sono. E perché sono diversi da loro.

Islam


Saranno anche fai-da-te, ma non per questo i terroristi sono meno pericolosi. Ecco perché Roberto Maroni, riuniti tutti i colleghi ministri degli Interni del G6, invoca una «strategia di prevenzione» contro la minaccia di persone cresciute nei nostri Paesi e spesso con la cittadinanza, che improvvisamente si trasformano in attentatori. Lo definisce «un fenomeno allarmante» di fronte al quale si fa urgente unacollaborazione ancora più stretta, che preveda «lo scambio di informazioni tra i nostri Paesi e tra questi e gli Stati Uniti», precisando che, a questo riguardo, l’interazione tra la polizia italiana e quella statunitense è «eccellente».

I lupi solitari: Non potrebbe essere diversamente, perché anche chi vuole colpire l’Occidente utilizza metodi e strategie comuni. Si travestono da “lupi solitari”. Poi si scopre che dietro c’è sempre un branco. E non è nemmeno detto che chi vuole colpire con tecniche rozze sia poco addestrato. Può darsi che voglia soltanto eludere i controlli e far passare l’idea di “un gesto isolato”. Sono stati definiti così sia l’attentato kamikaze compiuto da Mohamed Game alla caserma Santa Barbara di Milano lo scorso ottobre sia quello fallito a New York il primo maggio. Ma non si nascondono, i responsabili della sicurezza di Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Polonia, che una serie di “gesti isolati”è pur sempre un’ondata di terrore. Si sono convinti, Europa e Stati Uniti di dover combattere insieme il terrore. Lo dimostra la partecipazione dell’attorney general statunitense, Eric Holder, accanto alla commissaria agli Affari interni dell’Ue, Cecilia Malmström. Holder avverte che i nemici degli Stati Unitisono «determinati» a colpire anche l'Europa ed è per questo che è fondamentale rafforzare la cooperazione tra le intelligence. «Anche se ci separa un oceano», osserva il ministro della Giustizia americano, «coloro che vogliono fare del male agli Stati Uniti sono determinati a farlo anche ai nostri alleati: per questi motivi storici siamo legati e per questo dobbiamo collaborare». Anche l’ammi - nistrazione di Barack Obama, che pure ha abolito il termine troppo bushiano di “guerra al terrore”, si è detto «soddisfatto» della collaborazione con l’Europa nello scambio di informazioni di intelligence. «In questi due giorni di colloqui », ha riferito, «abbiamo avuto un confronto costruttivo e constatato che siamo di fronte a minacce comuni». Per questo, a suo giudizio, «occorre sviluppare politiche comuni e c'è molto da fare in futuro». Holder elogia «l’amico» Roberto Maroni per il «lavoro estremamente interessante che ha fatto sul terrorismo e l’immigrazione». E afferma che nella due giorni di colloqui a Varese sono state «gettate le basi per una più ampia collaborazione in futuro». Dopo la sessione di venerdì dedicata ai temi migratori, la riunione di ieri si è focalizzata, oltre che sul tema del terrorismo, anche sul contrasto al crimine organizzato, con particolare riferimento alla lotta ai patrimoni illeciti.

Il modello italiano: Insieme a Maroni, Holder, e la Malmström, siedono al tavolo il ministro dell’Interno francese, Brice Hortefeux, il collega titolare del dicastero dell’Immigrazione, Eric Besson, l’Home Secretary britannica, Theresa May, il ministro dell’Interno spagnolo, Alfredo Perez Rubalcaba, quello tedesco Thomas De Maiziere, e il polacco, Jerzy Miller. A loro, sul fronte della lotta al crimine organizzato, Maroni propone che il «modello italiano sia implementato in tutti i Paesi europei». Fiction cinematografiche e letteratura di successo a parte, «l’Italia sta diventando un Paese sempre più ostile alla criminalità organizzata» e quell’esperienza unica può essere trasmessa all’estero come un caso di successo. Il ministro ha chiesto alla commissaria «di armonizzare i sistemi giuridici europei». Parlano da sé le cifre dei recenti sequestri dei patrimoni delle cosche. Negli ultimi dueanni la mafia si è vista sottrarre beni per 11 miliardi di euro ed è stata costituita l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati, che li ha devoluti ad associazioni ed enti.

Mondiali a rischio: In coda, lo sport. Ma in cima alle preoccupazioni dei ministri c’è la sicurezza dei prossimi mondiali di calcio in Sudafrica. «Abbiamo scherzosamente - ma non troppo - proposto che, se le squadre europee saranno eliminate subito, gli uomini della sicurezza dei Paesi Ue rimangano a dar man forte agli altri», riferisce Maroni che lo considera «un esperimento interessante per rafforzare la collaborazione fra i sistemi di intelligence che già esiste fra i nostri Paesi». Anche se è più probabile che siano le nazionali dei Paesi canaglia a partire per prime. Spendono troppo in guerra santa e terrorismo per potersi permettere un bel calcio.

Facce come il culo


Sfrattato da casa minaccia di impiccarsi se non gli avessero dato un alloggio, ma quando si fanno avanti le suore offrendogli ospitalità alla casa di accoglienza delle Missionarie di carità rifiuta perché è musulmano. Succede - come si legge sull’edizione bolognese online del Corriere della Sera - a Bologna, dove un marocchino di 46 anni, Abdelrahim Gourich, lunedì scorso ha minacciato di uccidersi dopo lo sfratto dalla sua abitazione di via Calindri, dove viveva con moglie e figlia. I servizi sociali del quartiere San Donato avevano offerto alle due donne una sistemazione provvisoria nell’istituto gestito dalle suore, almeno per qualche mese. La famiglia, però, ha rifiutato per motivi religiosi: «Chi ha avanzato questa proposta non si è neanche posto il problema che noi siamo musulmani - ha spiegato la figlia del marocchino -. Non possiamo accettare una soluzione che ci impedirebbe di osservare i nostri principi religiosi. Questa proposta ci offende». Fra i precetti a cui fa riferimento la 16enne c’è anche il divieto per i musulmani di mangiare maiale. «Le abitudini alimentari dei cattolici sono diverse dalle nostre, accettando la sistemazione alla Casa di accoglienza rischieremmo di mangiare carne suina». I problemi per Gourich sono iniziati circa due anni fa. All’inizio il 46enne riusciva a pagare regolarmente l’affitto della casa di via Calindri. A febbraio del 2008, dopo aver perso il lavoro, non ha più rispettato il contratto d’affitto e ha accumulato con il proprietario di casa un debito di 20.000 euro. L’idea che era venuta alle suore sembrava ottima. Loro avrebbero accolto e aiutato in ogni modo quella famiglia in difficoltà, proprio nello spirito cristiano. Che però non è stato capito.

Islam italiano


Gamal Bouchaib, presidente del Movimento musulmani moderati e membro del Comitato per l’islam italiano del Viminale, sostiene che «situazioni come quella di Firenze fanno fare all’intera comunità islamica un passo avanti e dieci indietro». Lui, che insieme con altri esperti sta lavorando alla creazione di un albo per gli imam e di un registro dei centri di preghiera che esistono sul territorio, a breve discuterà con il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, proprio di questi problemi. Cioè che possa essere un imam privo di adeguata formazione a trascinare le masse.

Ad oggi, dunque, è vero che senza l’autorizzazione del leader alcune immigrate non possono decidere in autonomia? «Quanto sta accadendo è scioccante, ma non mi stupisce che questo signore sia andato nel covo. Dico questo perché non possiamo parlare né di moschea né di imam. Un vero imam non si sarebbe mai prestato ad un’operazione del genere. La moschea è un punto di incontro, non un luogo dove si promuovono politiche sanitarie».

Legittimare un imam per portare più donne in ospedale potrebbe essere una giustificazione plausibile? «Esistono anzitutto delle competenze, che vanno rispettate. Per fare prevenzione ci sono le Asl. Entrare in una moschea, parlare con il direttore di un centro islamico di queste cose, è solo uno dei modi per farlo sentire importante. Condanno il gesto di questo medico, perché si è rivolto a persone che non hanno alcun tipo di referenza».

Quale può essere l’alternativa per portare a casa il risultato? «Parlare direttamente con le donne».

Il medico sostiene il contrario e lo ha ribadito in un seminario di formazione senza che nessuno battesse ciglio. Perché secondo lei? «Si gioca sulla vulnerabilità data dalla non conoscenza delle cose. Interculturale è una parola che implica il dovere della conoscenza, spesso invece ci si fa prendere dal buonismo, il peggior nemico dell’integrazione».

Islam in toscana


Se a Firenze vuoi fare prevenzione tra le donne musulmane, devi passare dalla moschea. È il coordinatore sanitario degli immigrati in Toscana a promuovere questa dinamica; spiegando che, senza il placet dei leader religiosi, non si riesce a portare le donne islamiche negli ospedali. Dunque, anziché avvicinare le donne al sistema sanitario italiano, alla gratuità di alcuni suoi servizi fondamentali, come la prevenzione dalle malattie che colpiscono in modo particolare le anziane, agevolare il confronto con altre donne italiane, in autonomia e senza distinzioni religiose, favorendo l’integrazione, meglio riconoscere legittimità agli imam e accrescere il loro potere di veto. «È molto importante coinvolgere i capi e i leader delle comunità, perché senza di loro non puoi muovere niente», spiega Omar Abdulcadir, che spesso raggiunge la moschea per cercare di avere dalla sua parte i capi religiosi, come lui stesso li definisce. Ma c’è di più: Omar Abdulcadir, che dirige anche il Centro regionale per la prevenzione e cura delle complicanze legate alle mutilazioni genitali femminili, ammette di aver ceduto alla moschea di Firenze una parte dei finanziamenti ottenuti dalla Regione Toscana. Quei soldi sarebbero dovuti servire alla struttura sanitaria per fare prevenzione tra le donne immigrate, indagare la presenza di carcinomi o patologie individuabili soltanto con un esame medico.

Una parte di quel finanziamento è finito invece nelle casse di guide spirituali e associazioni islamiche, a cui il medico somalo Omar Abdulcadir ha «commissionato» una sorta di promozione del servizio di prevenzione: «Io vi do i soldi che ci ha dato la Regione, voi mi fate questo servizio nella moschea», ha sintetizzato in un seminario di formazione a porte chiuse a cui Il Giornale è riuscito a prendere parte. «Certe figure possono influenzare», dice alla platea il medico di origine somala. Dunque ben venga l’autorità degli imam di decidere se e quando una donna musulmana può recarsi in ospedale per una visita di controllo. Stando alla testimonianza di Abdulcadir, questa sembra essere una prassi diffusa in Toscana, tanto che lui stesso suggerisce agli operatori sanitari intervenuti al seminario sulla “Salute Interculturale”, che si è tenuto a Teramo questa settimana, di assumerla come un valido modello per poter svolgere il lavoro di medico che incontra sul suo sentiero una comunità di immigrati: «Attingere a queste fonti è una nostra responsabilità – dice – perché molti problemi possiamo risolverli senza usare il manganello». Abdulcadir è lo stesso medico che nel 2004 propose la possibilità di praticare, previa l’applicazione di pomata anestetica, una puntura di spillo sul clitoride delle ragazze africane che vivono in Toscana per far uscire qualche goccia di sangue.

Ad uno ad uno aveva convinto i «rappresentanti» delle immigrate africane ad accettare la sunna rituale in nome di una «identità culturale» a suo dire «molto importante per vivere in sintonia»; limitando forse il danno provocato dall’infibulazione – in Italia vietata per legge – ma di fatto riconoscendo un’usanza tribale contro cui le istituzioni nazionali si sono battute per anni, continuando a promuovere il superamento di questa pratica anche nei Paesi africani. Vedi l’impegno di Emma Bonino, che del tema si occupa dal ’99 e ha contribuito alla firma del Protocollo di Maputo, il documento che si prefigge l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili entro il 2020. A suo tempo, Bonino definì il tentativo di Abdulcadir un «frutto dell’ignoranza», spiegando che sarebbe «come parlare di pena di morte discutendo se sia meglio la ghigliottina o l’iniezione letale». A distanza di anni, il medico somalo non sembra aver cambiato approccio e il fatto che promuova i gestori dei centri islamici o delle moschee al rango di capi comunità, riconoscendogli il ruolo di leader quando la maggior parte degli immigrati musulmani non è neppure praticante, dovrebbe far riflettere. Soprattutto perché le sue teorie continuano ad essere proposte nei seminari «di formazione» promossi dalle Asl. E non si capisce in che modo un’affermazione quale: «Nelle società poligamiche ci sono meno disturbi a livello di menopausa e sterilità», possa aiutare gli operatori sanitari che partecipano ad incontri sulla mediazione culturale in ambito sanitario a migliorare il proprio lavoro in Italia.

sabato 29 maggio 2010

Rapine autorizzate


Roma - Hanno persino un’organizzazione che assomiglia a un sindacato e si chiama Associazione ex parlamentari. Ma fare lobby non sembra servirgli molto, se è vero che di finestre chiuse e di pensioni calcolate sulla base dei contributi, non ne hanno viste. Gli ex parlamentari vivono ancora nell’età d’oro del sistema retributivo. Certo, ci sono state tre riforme che hanno messo un freno a situazioni limite, ma i privilegi sono intatti. Si capisce scorrendo le liste delle pensioni e dei relativi anni di contribuzione (quella che pubblichiamo sotto fotografa la situazione del 2007 e ne conta 2.238). Ma si capisce anche dai bilanci di Montecitorio e Palazzo Madama.

Nel 2008 la Camera ha speso 138 milioni e 200mila euro per gli «assegni vitalizi» a fronte di entrate contributive, pagate con le trattenute sugli stipendi dei parlamentari, di 10 milioni e 485mila euro. Uno sbilancio che metterebbe ko qualunque gestione previdenziale e, se proiettato all’economia di un paese, farebbe sembrare i conti greci virtuosi come quelli del Lussemburgo. Situazione simile al Senato, dove tra ritenute e cifre versate volontariamente per i riscatti, le entrate previdenziali sono di 5 milioni e 140mila, mentre per gli assegni vitalizi e per le reversibilità si spendono in tutto 81 milioni di euro. In tutto gli ex parlamentari valgono una posta di bilancio da 219 milioni di euro. Un giusto riconoscimento per chi ha dedicato la vita a una nobile attività, si dirà. Ma non si capisce perché la rendita da ex parlamentare, si cumuli con altri redditi da pensione (da un paio di anni non è possibile sommare l’assegno con compensi per cariche pubbliche) e non si debba semplicemente considerare il mandato come un periodo contributivo da cumulare con gli altri.

Che si tratti di un privilegio è dimostrato dal fatto che, a partire dagli anni Novanta, la normativa è stata cambiata tre volte. Prima, in caso di elezioni anticipate, era possibile pagare volontariamente i contributi per gli anni restanti al compimento di una legislatura e incassare la rendita già a 50 anni

Oggi i deputati versano un migliaio di euro al mese e incassano a 65 anni o a 60 se hanno svolto più legislature. L'importo dell'assegno varia da un minimo di circa 3.000 euro lordi a 9.000. E non si può più riscattare una legislatura a metà. Ma ne hanno fatto le spese solo i pochissimi neoeletti della scorsa legislatura non confermati. Rimane a pesare sul bilancio l’esercito di quelli che hanno maturato il diritto con le vecchie regole. Casi che hanno fatto storia, come Toni Negri, ex leader di Autonomia operaia, che i radicali misero in lista per sottrarlo al carcere. L’Aula la vide pochissimo. Si diede latitante, ma non ha mai rinunciato al vitalizio «minimo». Altri quattro radicali (Angelo Pezzana, Piero Graveri, Luca Boneschi e René Andreani), riuscirono a conquistare la rendita con un giorno a palazzo e il resto coperto con contributi volontari. Ma c’è anche Paolo Prodi, fratello di Romano che subentrò a Carlo Palermo, fece 5 mesi da deputato. Oggi, anche lui, è titolare di una pensione da ex rappresentante del popolo.

Religione


A Berlino la religione deve restare fuori dalle aule scolastiche. Lo ha stabilito un giudice dell'alta corte della capitale tedesca, dopo che un ragazzino di 16 anni di religione islamica aveva chiesto di poter pregare durante la scuola. Il caso risale al 2007, quando il giovane islamico, del quartire periferico di Berlino, Wedding, aveva chiesto a un tribunale il vedersi riconoscere il diritto di poter rivolgere le sue preghiere alla Mecca durante la scuola. Un permesso che all'epoca, il preside (e pure un tribunale di primo grado) avevano accordato.

In seguito a un contro ricorso, però, il verdetto è stato ribaltato. Per il giudice, il diritto di un singolo studente a professare la propria religione non può prevalere sul diritto del gruppo. "In una scuola pubblica, con studenti di diverse religioni, è necessaria la neutralità per garantire condizioni di apprendimento corrette per tutti".

Il precedente verdetto, nel 2008, aveva concesso al giovane di pregare durante l'orario scolastico in un'aula adibita alla preghiera. E' stata l'autorità per l'educazione della città di Berlino (una sorta di assessorato alla pubblica istruzione) a fare ricorso per evitare di introdurre la religione nelle scuole. Ora il giovane, se vorrà, avrà ancora una possibilità per farsi valere: ricorrere all'equivalente della nostra corte di Cassazione.

Eurabia


Gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, in cui gli islamisti uccisero 52 persone, ferendone altre 700, hanno spinto le autorità britanniche a lavorare con i musulmani per evitare violenze future. Ma invece di rivolgersi ai musulmani contrari all'islamismo, che rifiutano l'obiettivo trionfalista di applicare la legge islamica in Europa, esse hanno preferito rivolgersi agli islamisti non-violenti, sperando che questi riuscissero a persuadere i loro correligionari a esprimere il loro odio verso l'Occidente, rispettando la legge. Questo sforzo ha conferito un ruolo importante a Tariq Ramadan (classe 1962), un eminente intellettuale islamista. Ad esempio, la polizia metropolitana di Londra ha finanziato in parte una conferenza che vedeva Ramadan come relatore e il premier Tony Blair lo ha ufficialmente invitato a prendere parte a "un gruppo di lavoro contro l'estremismo".

Mettere in campo un islamista poteva sembrare un'idea intelligente e originale, ma non è stata né l'una e né l'altra. Da decenni i governi occidentali si alleano invano con gli islamisti. Anzi, per meglio dire, si sono alleati con la stessa famiglia di Ramadan. Dwight Eisenhower che riceve una delegazione di musulmani. Said Ramadan, in piedi a destra, tiene dei giornali tra le mani.

Nel 1953, Dwight D. Eisenhower ha ricevuto un gruppo di musulmani provenienti dall'estero di cui faceva parte Said Ramadan (1926-95), leader di quella che si potrebbe considerare l'organizzazione islamista più influente del XX secolo – il movimento ferocemente anti-occidentale dei Fratelli musulmani – nonché padre di Tariq. L'incontro fra Eisenhower e Ramadan ha avuto luogo nell'ambito dei prolungati tentativi da parte del governo americano di radunare i musulmani contro il comunismo sovietico, in parte mettendo Said Ramadan sul libro paga della Cia. Talcott Seelve, un diplomatico americano che lo ha incontrato all'epoca spiega: "Consideravamo l'islam un contrappeso al comunismo".

Poi c'è stato Hasan al-Banna (1906-49), nonno di Tariq, fondatore dei Fratelli musulmani e beneficiario di finanziamenti da parte dei nazisti. Alla fine degli anni Quaranta i diplomatici americani al Cairo avevano "regolari incontri" con lui, lo trovavano "del tutto empatico" e consideravano la sua organizzazione una forza "moderata" e perfino "positiva". A quanto pare, gli inglesi hanno offerto del denaro ad al-Banna. In altre parole, i governi occidentali hanno un passato che ignora la ributtante ideologia degli islamisti, e lavorando con questi ultimi, li hanno perfino rafforzati.

In una magnifica opera di indagine storica e investigativa, Ian Johnson, un giornalista vincitore di un Premio Pulitzer ai tempi in cui lavorava per il Wall Street Journal, rivela nuovi colpi di scena e svolte di questo dramma nel suo volume fresco di stampa dal titolo A Mosque in Munich: Nazis, the CIA, and the Rise of the Muslim Brotherhood in the West (Houghton Mifflin Harcourt, $27). Johnson inizia col passare in rassegna i sistematici tentativi da parte dei nazisti di reclutare i musulmani sovietici in mezzo ai loro prigionieri di guerra. Parecchi musulmani detestavano Stalin, 150-300.000 di essi hanno combattuto per le potenze dell'Asse nella Seconda guerra mondiale. In altre parole, senza tener conto del loro infruttuoso tentativo di propaganda rivolto agli arabi, i nazisti in realtà hanno messo in campo una vera e propria forza composta principalmente da musulmani turchi sotto la leadership di un fanatico nazista qual era Gerhard von Mende.

L'autore segue l'operato di Mende, dopo la sconfitta tedesca del 1945, mentre lo studioso continuava la sua attività anti-comunista con gli ex-musulmani sovietici, in seno al contesto della Guerra fredda. Ma questa rete di ex-soldati non si è dimostrata capace di conseguire l'obiettivo di destare l'ostilità musulmana contro l'Unione Sovietica. Il loro intellettuale di spicco, ad esempio, era l'imam di una divisione delle SS che contribuì a sopprimere la rivolta di Varsavia del 1944. Gli islamisti si sono prontamente dimostrati assai più capaci in questa sfida politica e religiosa. Johnson spiega che essi "indossano giacca e cravatta, sono in possesso di diplomi di laurea e possono formulare le loro richieste nei modi che un politico riesce a comprendere".

Il fulcro di questo affascinante studio sta nel tracciare l'evoluzione, per lo più a Monaco, da vecchi soldati a nuovi islamisti. È una classica storia di intrighi avvenuti negli Cinquanta, completa di nazisti riabilitati, di organizzazioni di copertura della Cia e di duellanti ambizioni sovietico-americane. Johnson mostra come gli americani, senza qualcuno che lo pianificasse, abbiano usurpato la rete di Mende per consegnarla a Said Ramadan. E l'autore arguisce che questo sollecito aiuto americano dato ai Fratelli musulmani ha offerto all'organizzazione i mezzi per stabilire una base islamista giusto in tempo per accogliere negli anni Settanta il flusso migratorio musulmano in Europa.

Pertanto, la dominazione islamista dei musulmani europei è stata agevolata da due attori occulti: i nazisti e gli americani. Le sue origini, che risalgono all'Operazione Barbarossa, rivelano l'abietto albero genealogico della forza islamista odierna. Hitler e i suoi criminali non potevano prevederlo, ma hanno contribuito a preparare la strada per l'Eurabia. Il sostegno americano agli islamisti induce Johnson a mettere in guardia contro la futilità di allearsi con i Fratelli musulmani e altri gruppi della sua stessa risma – come Tony Blair ancora una volta ha tentato recentemente di fare. Ma per quanto sia allettante, ciò danneggia immutabilmente l'Occidente. La lezione è semplice: essere a conoscenza della storia e non aiutare gli islamisti.

Piero Grasso


Congratulazioni e complimenti al Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso. Congratulazioni perché il suo incarico è stato rinnovato per quattro anni dal Consiglio superiore della magistratura. Un voto all’unanimità, il che significa che il dottor Grasso ha raccolto anche il consenso dei membri laici espressi dal centro-destra come dalla sinistra. Congratulazioni, dunque, senza domandarci se quei voti se li sia proprio meritati. Ma anche complimenti per il suo equilibrio politico, per la sua buona memoria, per la sua capacità di essere riconoscente nei confronti di chi, in un bel giorno d’autunno di cinque anni fa, l’11 ottobre del 2005, consentì la sua prima nomina a un ruolo così importante, prestigioso, e ambìto da tanti.

Nel giorno della sua seconda nomina, il procuratore Grasso si è trovato davanti alle associazioni delle vittime di un sanguinoso attentato del 1993, quello dei Georgofili a Firenze. Ha anche risposto alle domande degli studenti, e si sa che davanti ai giovani è opportuno essere sinceri, i ragazzi non perdonano se sentono puzza di imbroglio. Lui l’ha sparata grossa. Lui che dovrebbe avere la capacità, come la ebbe Giovanni Falcone, di far incriminare per calunnia il “pentito” che mente, ha invece sposato in toto la tesi di Gaspare Spatuzza, uno dei maggiori imbroglioni di tutta la storia dei collaboratori di giustizia. Le stragi del ’93, ha sostenuto senza apparente imbarazzo, sono servite ad aprire la strada a “nuove entità politiche”, dopo che erano spariti i partiti della prima repubblica.

C’era bisogno che nominasse Forza Italia perché capissero tutti coloro che dovevano capire? Così, non tenendo in nessun conto il fatto che già in precedenza, grazie all’aiuto di altri “pentiti”, sia a Firenze che a Caltanissetta erano state aperte e poi archiviate inchieste sulle presunte origine “mafiose” del partito fondato da Silvio Berlusconi, il primo procuratore d’Italia sui reati di mafia ha dato il suo imprimatur a un collaboratore di giustizia che non ha ancora avuto la benché minima benedizione di una sentenza che abbia confermato le sue tesi.

Due paiono le considerazioni da fare sul comportamento del procuratore Grasso. La prima è di tipo storico-giudiziario. Contro Berlusconi e Marcello Dell’Utri si sono mossi nell’arco di 16 anni magistrati, “pentiti”, servizi di ogni risma. Nessuno ricorda più l’”Operazione Oceano”, finalizzata proprio, attraverso la tesi dell’origine mafiosa di Forza Italia, ad arrivare allo scioglimento del partito e alla fine politica di Berlusconi. Pochi ricordano il fatto che diversi “pentiti” si sono alternati sulla scena con le loro insinuazioni tutte uguali, ma così uguali da parere (parere?) imbeccate da altri. Sono tutte crollate, non solo perché false, ma anche perché malamente costruite. Lo stesso Gaspare Spatuzza, che ha demolito con le sue parole un altro “pentito”, Vincenzo Scarantino, sull’omicidio del magistrato Borsellino, ha distrutto, con 75 pagine di verbale, 15 anni di attività antimafia siciliana, mettendo in grande imbarazzo la procura della repubblica di Caltanissetta che nel frattempo aveva fatto arrestare e condannare persone che potrebbero risultare innocenti. Ammesso che Spatuzza risulti attendibile, il che è problematico.

Ma le parole del procuratore Grasso potrebbero avere anche conseguenze politiche. Solo chi ha il cervello ottenebrato può non sapere che incarichi come quello di procuratore Nazionale Antimafia hanno sempre un risvolto politico. E il dottor Grasso sa bene dell’aiuto che gli diede nel 2005 il governo Berlusconi dell’epoca in modo che la sua candidatura prevalesse su quella del procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli. Piero Grasso si era mostrato molto moderato all’epoca. Mai dalla sua bocca erano uscite parole come quelle di oggi, parole non fondate su fatti ( in quel caso bene avrebbe fatto a pronunciarle ) ma su vociferazioni di mafiosi assassini interessati e imbroglioni. Oggi deve aver pensato che la ruota gira, ogni tanto. Dimenticando che la ruota, quando decide di girare, può girare per tutti. Anche per i magistrati che godono di nomine politiche. Per oggi, all’unanimità.

Gossip...

... si mormora che la Croce rossa corra in aiuto dei talebani. Qui la notizia...

venerdì 28 maggio 2010

Italia


L’oste presenta il conto. Salato. Indossa gli abiti di Romano Prodi, Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Dopo i fasti di notti bianche, inaugurazioni, odi, sonetti e tripudio generale ecco apparire di fronte allo sguardo incredulo del cittadino romano la verità: la sinistra è quasi sparita dalla carta geografica, ma la sua eredità nella Capitale e nel Paese è devastante. La sinistra mangia, la destra paga.

La crisi della Grecia, gli attacchi speculativi sull’euro e il debito sovrano hanno solo accelerato l’inevitabile epilogo dell’andazzo generale. Ora la pacchia progressista è finita, i dieci miliardi di debito del Comune di Roma sono un macigno, il debito della Sanità nel Lazio (in termini assoluti più grande del dissesto della Grecia) è un moloch e qualcuno lo deve pagare. Chi? "Lo Stato!" risponderà il più lesto dei lettori. Sì, certo, ma lo Stato siamo noi. Scriverlo non cambia di una virgola lo scenario, ma è bene che si sappia da chi è stato ereditato questo fardello.

A livello nazionale e locale il centrosinistra ha portato avanti scelte politiche che oggi si rivelano dannose. Bombe a orologeria che una a una stanno detonando. La riforma del Titolo V della Costituzione - votata in chiusura di legislatura, in maniera unilaterale - ha scassato il rapporto tra territorio e Stato, tra Regioni e governo nazionale. Non solo ha confuso le competenze o devoluto agli enti locali settori che invece dovevano restare dominio assoluto del governo centrale (vedi alla voce energia), ma ha contribuito in maniera determinante a creare le condizioni per far crescere il debito della Sanità, il vero bubbone della finanza pubblica.

E non solo. Come ha spiegato Giulio Tremonti, dopo quella riforma, dal 2001 le prestazioni per le pensioni di invalidità sono cresciute da 6 a 16 miliardi di euro. La moltiplicazione di zoppi da sprint, non vedenti da gran premio, immobilizzati in vacanza ai tropici è stata spettacolare. Il peggio del peggio. Il federalismo della sinistra è stato una iattura. E questo dovrebbe essere un memento per lo stesso centrodestra che s’appresta a varare un’altra riforma che punta a delegare i poteri ai territori spogliando sempre più il governo centrale di alcune sue competenze.

Quando Silvio Berlusconi dice che «la responsabilità per l’attuale situazione dei conti pubblici è dei governi della prima Repubblica e della sinistra che ha fatto una riforma costituzionale del titolo V dissennata che ha fatto esplodere i costi della sanità» dice una cosa esatta. Speriamo solo che la lezione serva a tutti per capire che l’esaltazione in sé dell’autonomia e del federalismo non sono una garanzia. Anzi, visti i fatti sono un avvertimento per il futuro. Vedremo presto cosa accadrà. Intanto i cittadini romani si ritrovano proiettati in una realtà che all’improvviso non è più quella dipinta dai suoi precedenti amministratori. Un debito ciclopico ora emerge in tutta la sua gravità.

Fino a ieri i cittadini non ne hanno mai avuto una reale percezione. Per qualche decennio si è andati avanti come se niente fosse. Allegramente. Irresponsabilmente. La sinistra ha giocato con il fasto, lasciando il nefasto al sindaco della destra, quel Gianni Alemanno che oggi si ritrova a gestire un portafoglio gonfio di debiti da onorare, fornitori sul piede di guerra, un carrozzone pubblico ipertrofico da tagliare, un sistema di clientele consolidato e ramificato difficile da spezzare. Al sindaco della Capitale non ho mai risparmiato critiche severe. So che se ne lamenta, mi stupirebbe il contrario. Ma debbo anche dire con altrettanta franchezza e onestà che Alemanno in Comune ha trovato le macerie. Una surreale situazione in cui l’orchestrina rutellian-veltroniana suonava da anni, mentre il Titanic del Campidoglio affondava tra i gorghi della spesa senza senso. Roma non è una città facile da amministrare. Per nessuno. Ma se c’è un posto dove le ricette della sinistra italiana hanno mostrato la corda sono qui, nella Capitale.

Ogni volta che qualcuno osava sollevare qualche obiezione, si sentiva il coro degli intelligentoni rispondere: «Non capite niente, siete ignoranti, noi sì che siamo colti e chic». Tanto svegli da esser mandati a casa in un sol botto da un candidato della destra che tutti davano per sconfitto. Ecco, improvvisamente il velo è sceso, la verità ha fatto irruzione nel racconto di una Roma che esisteva solo nell’immaginario veltroniano. Quando ero vicedirettore a «Panorama», subito dopo il voto che aveva premiato Alemanno, pubblicai un sondaggio sul gradimento dei servizi comunali da parte dei romani. Era disastroso. La maggioranza dei cittadini era insoddisfatta. Quel sondaggio, commissionato dall’amministrazione di sinistra uscente, non era mai stato reso noto. Chiuso a chiave. Nemmeno Rutelli ne era a conoscenza. Se l’avesse letto, non si sarebbe mai candidato. Ma i compagnucci gli avevano tirato una «sòla». La stessa che hanno tirato ai cittadini di Roma.

Ora tocca ad Alemanno rimboccarsi le maniche, ottenere quanti più soldi possibile per far funzionare la baracca del Campidoglio e mettere mano con vigore al riordino di tutto il sistema capitolino. È il momento di prendere il toro per le corna. I cittadini accetteranno i sacrifici solo se si parlerà con la lingua della verità e si agirà con durezza. Coraggio sindaco, privatizzi, tagli, investa, denunci l’ipocrisia di chi non vuol starci, metta ogni giorno in mutande una sinistra in crisi e senza idee, mandi a quel paese chi nel Pdl fa la fronda e chi non ha capito che l’età dell’oro è finita e quella delle notti bianche era un’illusione svanita.

Abracadabra


Scusate, voi che cosa pensate della magia? Siete perplessi, addirittura contrari per motivi scientifici o religiosi? Io no, sono assolutamente, entusiasticamente favorevole. Per esempio, vi trovate davanti a una montagna dove è nascosto un bel tesoro, vi mettete davanti alle rocce e a voce alta e gridate "abracadabra". Se c'è il tesoro si apre una bella comoda grotta e prelevate il contante; se non c'è, e non vi arrestano per rumori molesti, provate alla valle successiva. Volete mettere col Bancomat? Molto più igienico e romantico. Andiamo avanti. Avete presente i tappeti volanti? Non hanno il club mille miglia, ma sono decisamente più puntuali dell'Alitalia e non risentono neppure del vulcano: avete mai sentito di un reclamo per il ritardo del tappeto volante di mezzogiorno arrivato alle sette di sera? Impossibile. Se per caso volete invece sposare un principe, vi mettete a baciare rospi pronunciando l'incantesimo giusto (purtroppo non posso scriveverlo qui per la proibizione della Associazione Protezioni Animali) e prima o poi il nobiluomo emergerà. Gentilissimo e già innamorato. Eccetera. E' tutta questione di usare le parole giuste, di essere gentili coi geni nella bottiglia, di non fare gaffes. E di credere, credere mucho.

Nella mia fede magica sono stato molto confortato dalle azioni dell'amministrazione Obama. Loro sì che sono veri credenti: nella magia, sto dicendo. Magari anche nel Corano, ma questo è un altro discorso. Vediamo. Come vi ho raccontato altre volte, con un tratto di penna il nostro Barak Hussein O. aveva già cancellato un paio di mesi fa il terrorismo islamico: proibito nominarlo, scomparso. Grande incantesimo. Adesso è uscita notizia che anche la guerra al terrore è abolita con un semplice gesto verbale . Non bisogna parlarne più per editto presidenziale. Se non la evocate, si dissolverà nell'aria e non ci sarà più bisogno di combatterla (pensate quante sconfitte in meno, quando sangue risparmiato, quanti amici guadagnati): qui. Quanto al terrorismo, per decisione presidenziale, non solo non è più islamico, non c'è proprio più. Un gesto da mago Houdini, un triplo salto mortale carpiato in un incantesimo solo.Il terrorismo è finito, dato che il nome terrorismo è scomparso. Quel che è rimasto nella nuova "dottrina O." è solo un trascurabile "estremismo violento" che fin dal nome appare molto più facilmente debellabile, basta parlargli e non sarà più così estremo, e accontentandolo un po' diventerà molto meno violento. Le religioni e le culture, beninteso, non c'entrano, è solo una questione di cattivo carattere. Se ci lavoreremo un po', resterà solo un estremismo non molto estremo e neppure proprio violento, diciamo accaldato. Il lupo pascolerà accanto al vitello, anche se l'erba gli dà il mal di stomaco e saremo tutti felici. Basta abolire un paio di nomi. Basta una magia da ragazzi. Abracadabra, non ne parliamo e il terrorsimo non c'è più. Anche gli struzzi praticano questo tipo di magia, almeno nei proverbi: infilano la testa sotto la sabbia e il leopardo che li insegue non c'è più e dunque non può mangiarli. Forse.

E a proposito, nella "dottrina" o manuale magico emanato dall'amministrazione O., c'è anche un elenco dei futuri amici del nostro mago, come su facebook: vuoi diventare mio amico? Eccoli: la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica e l'Indonesia. Che buffa lista, no? Un po' come quei ragazzini che vogliono gli amici grandi e grossi, il mingherlino Hussein O. si è scelto i paesi più vasti e popolati. Del Terzo Mondo, ovviamente, perché i suoi ideali vanno in quella direzione. Il fatto è che la Cina si fa i suoi fatti suoi, non è affatto amica di chi riceve il Dalai Lama e se le aziende americane non censurano la rete come vogliono loro, li mandano al diavolo. Il Brasile ha appena dimostrato chi trova più sexy fra America e Iran; il Sudafrica è avviato sulla strada del partito unico. Quanto all'Indonesia è così democratica che se la polizia della Shaaria – nobile istituzione di diritto islamico – se vede una donna coi jeans l'arresta immediatamente (qui).

Anche il leader dell'Occidente crede nella magia, come del resto il presidente sudafricano, che ha sempre rifiutato la banale spiegazione virale dell'Aids. Tant'è vero che non gli importa niente (al presidente americano, non solo a quello sudafricano) se un mese sì è l'altro pure si scoprono complotti e attentati islamici in America: la strage in una caserma, la bomba a Times Square, quello che si è fatto saltare l'inguine imbottito di esplosivo... Non importa, sono "estremisti violenti", insomma dei lunatici, che appartengano all'Islam, predichino da militanti o magari siano stati allenati in Kuwait non conta. Una pacca sulle spalle, magari un po' di Prozac e gli passa. Altro che sicurezza nazionale. Questa sì che è magia

E se proprio siete preoccupati per l'Islam, che c'è di meglio se non aprire un centro islamico che si affaccia su Ground Zero, come hanno deciso di fare a New York? Se hai uno spirito che ti perseguita, dedicagli un altare vicino ai luoghi delle sue imprese più sanguinarie e forse si rabbonirà. Speriamo solo che non gli venga l'idea di istituire una casa di riposo per ex nazisti in pensione di fronte all'ingresso di Auschwitz. Quella sì che sarebbe magia nera.

Ma nel nostro piccolo alla magia ci crediamo anche noi italiani. Pensate che ieri si è saputo che il nostro paese ha contemporaneamente condannato per terrorismo e concesso l'asilo politico alla stessa persona, l'ex imam del centro islamico milanese di viale Jenner, Abu Imad (qui) . Noi pensiamo che chi condanna il povero pretone islamico lo sta ingiustamente perseguitando e dall'altro lo condanniamo noi – forse per indurlo a cercare asilo politico altrove. O se volete, lo condanniamo perché è un terrorista, ma diciamo che se altri lo condannano per lo stesso motivo lo stanno perseguitando. Schizofrenia? No è magia, una forma straordinaria di pensiero magico. L'albero è un comune ciliegio che dà frutta e legno e prima o poi marcisce e cade; ma è anche un dio, potente e immortale, e io gli sacrifico davanti le mie capre... A è B ma B non è A: magia.

Vecchi custodi dell' illuminismo e della scienza, siete finiti. Ormai quel che funziona è solo il pensiero magico. Venite con me, organizziamo una gita a New York o a Gerusalemme e ripetiamo davanti a ogni luogo di un attentato il mantra seguente: "Abracadarbra, abracadabra, il terrorismo islamico non esiste, ci sono solo gli estremisti violenti. All we need is love. Abracadabra, abracadabra." Chissà che non si apra una bella caverna del tesoro.

L'assurdità del caso


Milano - Per lo Stato italiano Abu Imad è un terrorista, un predicatore della jihad contro l'Occidente, un reclutatore di combattenti e di attentatori suicidi, un pericolo pubblico tale da venire rinchiuso in un carcere speciale. Ma per lo Stato italiano è anche un dissidente inseguito da uno Stato totalitario per motivi religiosi, un innocuo immigrato che merita di ricevere dall’Italia lo status inviolabile di rifugiato politico. Come le due versioni possano convivere, come la stessa persona condannata come terrorista possa ricevere asilo politico, è uno di quei misteri tutti italiani dove non si capisce come si incrocino pasticcio burocratico, ottusità amministrativa, garantismo spensierato.

Al centro del pasticcio, lui: Arman Ahmed El Hissini Helmy alias Abu Imad, imam della moschea milanese di viale Jenner fino a pochi mesi fa, quando finisce in carcere a espiare una pena di tre anni e otto mesi per terrorismo. La sentenza dice che sotto la guida di Abu Imad (che aveva preso il posto di un suo collega andato a combattere e a morire in Bosnia) la moschea milanese è divenuta centro di raccolta per i fanatici dell'Islam radicale, che qui si sono organizzate raccolte di fondi e di uomini per i campi d'addestramento e le missioni suicide. Dal suo ufficio al primo piano di viale Jenner, il barbuto e ieratico Abu Imad controllava tutto. Solo negli ultimi anni, riconosce la sentenza, le sue posizioni si erano - almeno in apparenza - fatte più morbide, più inclini al dialogo.

Ma per lo Stato italiano Abu Imad è un pericolo ancora oggi: lo dice il provvedimento del Dap, la direzione delle carceri, che lo ha spostato da San Vittore alla prigione di alta sicurezza di Benevento, uno dei due istituti (l'altro è a Macomer) abilitati alla custodia dei terroristi. Lì, Abu Imad, dovrà restare fino alla fine della sua pena. E dopo? Ed è qui che salta fuori la inverosimile novità. Abu Imad non verrà espulso - e questo già si sapeva - perché la sua condanna non prevede questa pena aggiuntiva, proprio in considerazione del suo recente, presunto ammorbidimento. Ma non verrà neanche consegnato all'Egitto, che da anni chiede la sua consegna per i progetti di attentato ai danni del presidente Hosni Mubarak. Questa consegna non avverrà perché pochi giorni prima che la Cassazione rendesse definitiva la sua condanna, il ministero degli Interni ha accolto la sua richiesta di asilo politico.

Oggi il governo correrà ai ripari, la commissione centrale riesaminerà il caso, il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano denuncia che «questo è quello che accade quando, di fronte al pericolo terrorismo, una parte delle istituzioni fanno il loro dovere e altre se ne vanno per i fatti propri». Ma la verità resta, innegabile e imbarazzante. Il terrorista Abu Imad ha ottenuto lo stato di rifugiato grazie a due sentenze della magistratura amministrativa che, ribaltando la decisione dell'autorità di governo, lo ha ritenuto un perseguitato meritevole di protezione.

La prima sentenza è del Tar della Lombardia, 6 giugno 2001. Abu Imad, entrato in Italia nel 1993 col trucco di un visto turistico, nel 1995 si è visto rifiutare lo status di rifugiato, fa ricorso: «Premesso di essere stato più volte arrestato, sempre assolto e scarcerato dai tribunali del suo paese, assume di avere subito persecuzioni e torture da parte delle forze di polizia e dei servizi di sicurezza in quanto classificato dal regime egiziano come membro di un gruppo islamico duramente combattuto dal regime». I giudici si commuovono, prendono tutto per buono, scrivono che «l'appartenenza a un movimento religioso che si connoti per una radicale intransigenza ideologica non può di per sé sola costituire ragione di persecuzione politica né legittimare trattamenti persecutori o metodi di tortura», e accolgono il ricorso. Si dirà: alle Torri gemelle mancavano ancora tre mesi, la sensibilità verso il rischio islamico era ancora tenue. Ma cinque anni dopo, in pieno allarme terrorismo, a occuparsi della faccenda è il Consiglio di Stato: che dà ragione un’altra volta al predicatore di viale Jenner, nel frattempo inquisito per terrorismo. Al Viminale fanno melina ancora per quattro anni, poi devono eseguire l’ordine. Il terrorista Abu Imad si vede recapitare in carcere il decreto che lo nomina rifugiato politico. Quando l’ha visto, il suo avvocato non ci credeva neanche lui.

Revoca


MILANO - La commissione centrale del Viminale ha revocato la concessione del diritto di asilo all'ex imam di viale Jenner a Milano Abu Imad. Lo ha annunciato il ministro dell'Interno Roberto Maroni, presentando il G6 dei ministri dell'Interno iniziato venerdì mattina a Varese. «C'è stata una condanna definitiva per Abu Imad - ha spiegato il ministro -, e quindi la commissione regionale ha rinviato la questione a quella nazionale, che questa mattina ha revocato il diritto d'asilo. Quando questa persona finirà di scontare la sua pena sarà espulsa dal nostro territorio nazionale», ha concluso Maroni.

LA STORIA - L'intricata vicenda ha origine nel 1995, quando l'imam ha presentato istanza d'asilo: essa era stata respinta dalla Commissione sullo status del rifugiato dal Ministero dell'Interno. Ma l'egiziano aveva fatto ricorso al Tar della Lombardia che nel 2001 ha annullato la decisione del ministero. Il Viminale, a sua volta, ha fatto appello al Consiglio di Stato, il quale, nel 2005, ha confermato però la decisione del Tar. Nel marzo 2010, quindi, la Commissione asilo ha dovuto dare esecuzione ad una sentenza definitiva della giustizia amministrativa e - puntualizza il Viminale - solo perché tenuto ad applicare una sentenza ha riconosciuto ad Abu Imad lo status di rifugiato. Ma lo scorso 29 aprile è arrivata la condanna definitiva della Cassazione per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale. Alla luce di questa novità la Commissione nazionale ha riesaminato la vicenda e revocato lo status di rifugiato all'ex imam.

LA CELLULA SALAFITA - Per anni l'egiziano è stato considerato dagli inquirenti milanesi il promotore e il leader di una cellula salafita legata al Gspc, attiva in Lombardia e in particolare a Milano già prima dell'11 settembre 2001, cellula che, stando alle indagini, aveva un programma «inquadrato in un progetto di jihad e che avrebbe pianificato azioni suicide in Italia e all'estero e dato supporto logistico a militanti da avviare nei campi d'addestramento in Afghanistan e in Iraq». Si trattava di un'associazione, per dirla con le parole dei giudici che valutarono la causa in primo e secondo grado, «operante in diretto collegamento con una rete di analoghi ed affini gruppi attivi in altri Stati europei ed extraeuropei» con un «complessivo programma inquadrato in un progetto di Jihad». Per i giudici milanesi era, in altre parole, «una vera e propria struttura militare con legami internazionali» radicata tra Milano, Gallarate, Brescia e Cremona.

I PENTITI - Le indagini che hanno portato alla condanna definitiva l'ex imam erano state avviate dai pm Elio Ramondini e Massimo Meroni, che si erano avvalsi in particolare della testimonianza di due «pentiti», Riadh Jelassi e Chokri Zouaoui. Quest'ultimo aveva raccontato di una cellula dormiente che progettava un attentato al Duomo di Cremona e al Duomo e alla metropolitana di Milano. Jelassi invece, che aveva parlato fin dal 2003 di progetti terroristici risalenti agli anni precedenti in varie parti d'Italia, aveva lanciato pesanti accuse nei confronti di Abu Imad: l'imam, aveva messo a verbale il pentito, faceva «il lavaggio del cervello ai fratelli che cercavano consolazione» e aveva sottolineato il suo ruolo di indottrinatore di «un pensiero estremista». Abu Imad, coinvolto anche nel primo processo milanese a un gruppo di islamici, quello chiamato Sfinge, allora finì solamente indagato e non in carcere poiché la magistratura ritenne avesse dato segnali di un suo allontanamento da «posizioni di radicalismo estremo» e, come scrisse il gip Guido Salvini, di «condivisione di scelte più moderate all'interno del rispetto delle regole di legalità del Paese che lo ospita».

LA COLLABORAZIONE - Proprio il suo atteggiamento, così diverso da quel comportamento da «fanatico» descritto dai pentiti, unito probabilmente a una collaborazione rispetto alle indagini in corso a Milano, avevano determinato i magistrati, già in primo grado, a non chiedere, per lui, quell'espulsione dall'Italia a pena espiata che in molti altri casi, nonostante le polemiche e le accuse dei difensori, è suonata come una condanna aggiuntiva, la più temuta dagli imputati islamici. Richiesta accolta tanto in primo grado quanto in appello, quando i giudici scrissero che l'ex imam non andava espulso «dal territorio dello Stato a pena espiata» in quanto è provato il suo «avvenuto distacco dall'estremismo militante». Ora invece Maroni ha ribadito: «Quando questa persona finirà di scontare la sua pena sarà espulsa dal nostro territorio nazionale».

giovedì 27 maggio 2010

Islam

Per chi vorrebbe saperne un pò di più. Questo è un elenco (un lungo elenco) di attentati in nome di allah. E questa, restando in argomento, è una mappa dell'islam europeo. E non sono falsità o propaganda antiislamica. Sono realtà.

Indegnamente amnesty


ROMA - L'Italia ha ricevuto circa 90 raccomandazioni per la violazione dei diritti degli immigrati, dei rifugiati e dei richiedenti asilo. E a gennaio il Gruppo di lavoro della Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha criticato il nostro Paese per i centri di identificazione ed espulsioni. Lo ricorda Amnesty international, che ha presentato il rapporto annuale sulla «Situazione dei diritti umani nel mondo», dal quale «viene fuori è un Paese pieno di lacune».

L'IMMIGRAZIONE - L'introduzione del reato di immigrazione clandestina, si legge nel rapporto, «potrebbe dissuadere gli immigrati irregolari dal denunciare i reati subiti e ostacolare il loro accesso a istruzione, cure mediche e altri servizi pubblici per il timore di denunce». Inoltre «gli sforzi da parte delle autorità per controllare l'immigrazione hanno messo a repentaglio i diritti di migranti e richiedenti asilo». «A noi - nota la responsabile dello studio per la parte italiana, Giusy D'Alonzo - non sembra che l'insicurezza nella vita degli immigrati abbia portato maggiore sicurezza per gli italiani», mentre il risultato più evidente è che i richiedenti asilo sono calati dai 31 mila nel 2008 ai 17 mila del 2009. Ma la violazione dei diritti degli stranieri non è limitata all'Italia, Amnesty parla di «esplosione di xenofobia e razzismo» in tutta Europa. Il nostro Paese, però, stando al rapporto, «ha continuato ad espellere persone verso luoghi in cui erano a rischio di violazioni di diritti umani» - ovvero la Libia - «senza valutare le loro necessità di asilo e protezione internazionale. I governi italiano e maltese in disaccordo sui rispettivi obblighi di condurre operazioni di salvataggio in mare, hanno lasciato i migranti per giorni senza acqua e cibo, ponendo a grave rischio le loro vite».

LA REPLICA DI FRATTINI - I rilievi di Amnesty sulle espulsioni non sono però piaciuti al ministro degli Esteri, Franco Frattini, che definisce il documento come «indegno per il lavoro dei nostri uomini, delle nostre donne e delle forze di polizia che ogni giorno salvano persone». Intervenendo da Caracas, il ministro ha spiegato che «Amnesty ha fatto sempre la sua parte». Tuttavia, «noi come dati e come fatti siamo molto chiari: l'Italia è certamente il Paese europeo che ha salvato più persone in mare. Quindi respingo al mittente questo rapporto perchè la realtà è tutto il contrario di ciò che dice Amnesty».

TORTURA E CASO CUCCHI - L'associazione per i diritti umani punta il dito anche sulla mancanza di norme specifiche contro il reato di tortura, senza il quale sono potenzialmente sempre presenti i rischi di casi come quello del giovane Cucchi. «Sono pervenute frequenti denunce di tortura e altri maltrattamenti commessi da agenti delle forze di polizia, nonchè segnalazioni di decessi avvenuti in carcere in circostanze controverse», dice Amnesty. L'Italia, infatti, ricorda l'ong, «a distanza di 20 anni non ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura», di conseguenza i maltrattamenti commessi da pubblici ufficiali in servizio vengono perseguiti come reati minori. Tra i casi citati anche quello di Emmanuel Bonsu, il ragazzo di origine ghanese, pestato e insultato a Parma e i maltrattamenti inflitti nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001. Amnesty chiede per questo «l'adozione di meccanismi di prevenzione della tortura e dei maltrattamenti», come previsto dal Protocollo della Convenzione, «un'istituzione indipendente di monitoraggio sui luoghi di detenzione» e «un organismo di denuncia degli abusi della polizia».

Asilo politico al terrorista


MILANO, 27 MAG - E' stato concesso l'asilo politico ad Abu Imad, l'ex imam della moschea milanese di viale Jenner, attualmente in carcere per una condanna definitiva in quanto membro di un'associazione terroristica islamica. Il risconoscimento era stato richiesto da Imad quasi dieci anni fa: non appena l'imam era arrivato in Italia dall'Egitto aveva iniziato la pratica. La notifica gli è stata data in cella, nel carcere di Benevento.

Abu Imad è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione, nelle scorse settimane, a tre anni e otto mesi per associazione per delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo, perché ritenuto promotore e leader di una cellula salafita che aveva progetti di attentati in Italia e all'Estero. Secondo l'accusa, Abu Imad avrebbe praticato un'opera di indottrinamento anche all'interno della moschea di viale Jenner.

Il provvedimento della commissione territoriale che si occupa degli asili politici gli è stato notificato la scorsa settimana in carcere a Benevento, dove l'uomo è attualmente detenuto. Il difensore dell'ex imam, Carmelo Scambia, ha commentato la decisione specificando di essere "non poco sorpreso e meravigliato considerando la condanna per quel tipo di reato, la campagna giornalistica e politica da anni in corso contro la moschea di viale Jenner".

"Ho letto velocemente il provvedimento - ha aggiunto Scambia - che però ho preferito lasciare al mio assistito con l'accordo che mi avrebbe mandato una fotocopia. Abu Imad dovrà scontare 8 mesi prima di poter accedere eventualmente alla messa in prova nei servizi sociali. Per adesso io non posso fare niente, devo solo aspettare".

Seguaci dell'ex imam si mobilitano sul web: I fedelissimi di Abu Imad celebrano online la figura di guida religiosa dell'ex imam milanese. Nei giorni scorsi è stato pubblicato su YouTube un video dal titolo "Abu Imad l'imam leone". Si tratta di un filmato della durata di quasi due minuti nel quale vengono montate in sequenza una serie di foto dell'ex imam egiziano accanto a quelle di vari detenuti islamici. Il video si chiude con un canto islamico che recita "tu sei il nostro eroe". Su Facebook e su diversi blog curati da esponenti della comunità islamica milanese, invece, sta circolando un testo di solidarietà in favore di Abu Imad.

Terrorismo: Commisione analizza revoca asilo di Abu Imad


ROMA - La Commissione nazionale per il diritto all'asilo valutera' domani mattina la revoca dello status di rifugiato per Abu Imad, ex imam dell'Istituto culturale islamico di viale Jenner di Milano. L'egiziano, condannato lo scorso 29 aprile, e' in carcere per associazione per delinquere finalizzata al terrorismo internazionale.

mercoledì 26 maggio 2010

Magistratura


Roma - Nella manovra ci sono "misure inaccettabili" e l’Associazione nazionale magistrati proclama lo stato di agitazione. Il sindacato delle toghe, commentando il documento approvato dal Consiglio dei ministri, parla di "interventi punitivi che minano l’indipendenza" e si riserva di proporre "immediate iniziative di protesta" contro quelle che giudica misure inaccettabili "per i magistrati e per il funzionamento del sistema giudiziario".

Buste paga. Le retribuzioni dei magistrati "vengono colpite tre volte: con il blocco dei meccanismi di progressione economica, con il blocco dell’adeguamento alla dinamica dei contratti pubblici e, addirittura, con un prelievo forzoso sugli stipendi - denuncia l’Anm -. Sono interventi incostituzionali e palesemente punitivi nei confronti dei magistrati". La progressione economica dei magistrati "non è un automatismo - spiegano le toghe - ma è vincolata a periodiche valutazioni di professionalità e l’adeguamento triennale rappresenta soltanto una modalità di allineamento, per giunta ex post, della retribuzione dei magistrati alla media degli aumenti già conseguiti dal personale pubblico contrattualizzato, peraltro con l’esclusione dal calcolo di significative voci retributive dei dirigenti pubblici (che sono quelle, sia detto per inciso, che hanno maggiormente determinato l’aumento della spesa del settore negli ultimi anni)".

Costituzionalità. Sul punto, fa presente l’Anm, "la Corte Costituzionale ha ribadito che tale meccanismo rappresenta l’attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico, evitando, tra l’altro, che siano costretti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri". Un intervento di questa natura "incide, quindi, profondamente sullo status giuridico dei magistrati e sulla loro autonomia e indipendenza". Come pure "è del tutto evidente, l’incostituzionalità della disposizione con la quale si opera una decurtazione secca del trattamento economico, per la palese violazione dei principi di eguaglianza e di progressività del sistema fiscale che deriva dall’introduzione di un’imposta fissa a carico esclusivamente dei dipendenti pubblici". Ma non è tutto:

"Clima di aggressione". "Queste misure, peraltro, si inseriscono in un clima di costante aggressione da parte di esponenti politici e istituzionali nei confronti della magistratura, accompagnata da una campagna mediatica di delegittimazione dei magistrati, dipinti come fannulloni strapagati e politicizzati, e da interventi legislativi dichiaratamente finalizzati a impedire lo svolgimento delle indagini e dei processi". E ancora non basta: "In una situazione di drammatica crisi di funzionamento della giustizia, la manovra colpisce pesantemente il sistema giudiziario. Il personale amministrativo, da anni in attesa di una necessaria riqualificazione, viene ancora mortificato e svilito, con il blocco dei contratti, la proroga del divieto di nuove assunzioni e un’ulteriore riduzione del 10% degli stanziamenti per il funzionamento degli uffici". Di qui la mobilitazione: "I magistrati hanno il dovere di denunciare i rischi per l’indipendenza della magistratura e per la funzionalità del servizio giudiziario derivanti da una manovra iniqua, sperequata e incostituzionale".

Magistratura indipendente contro i tagli. "Fughe di massa" dagli uffici giudiziari dei magistrati più esperti, con la conseguenza di rendere ancora più consistenti i vuoti di organico nei tribunali e nelle procure: potrebbe essere questo uno degli effetti della manovra economica del governo, e proprio la prospettiva più allarmante,secondo Antonietta Fiorillo, leader di Magistratura Indipendente, la corrente più moderata delle toghe. "Se saranno confermate le notizie di questi giorni, si prospetta la riduzione della liquidazione quasi alla metà - spiega Fiorillo - E sono tanti i colleghi che hanno raggiunto i 65 anni che stanno pensando di andare in pensione proprio di fronte a questa prospettiva. Si tratta dei colleghi più esperti , una buona parte dei quali in servizio nelle procure generali, che hanno ancora voglia e forza di rendere un servizio ai cittadini; la loro uscita finirebbe con il decapitare o comunque creare un vuoto difficilmente colmabile negli uffici giudiziari. Ed è proprio quello che più mi preoccupa".

Il Guardasigilli: "Servono sacrifici". "Non conosco le posizioni dei magistrati, ma voglio sottolineare che questa manovra richiede un sacrificio al paese nel momento in cui bisogna fronteggiare una crisi che non è italiana ma è mondiale": così il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, risponde ai cronisti che lo interrogano sullo stato di agitazione proclamato dall’Anm a fronte del blocco delle retribuzioni previsto dalla manovra finanziaria.

Legge finanziaria


“Questa non è una finanziaria qualsiasi. Dobbiamo gestirla tutti insieme”. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha messo le carte in tavola presentando ieri in mattinata la manovra economica 2011-2012 da 24 miliardi ai rappresentanti di enti locali e Regioni, riuniti a Palazzo Chigi. Ha ammesso che non sarà una passeggiata e che ognuno dovrà fare la propria parte per risanare i conti del Paese ed evitare il “rischio Grecia”, come ha sottolineato Gianni Letta. Il confronto è proseguito poi con le parti sociali, imprese e sindacati, e solo nel tardo pomeriggio è arrivato il varo del testo da parte del Consiglio dei ministri. Sì condizionato da Confindustria (“se la manovra va nella direzione del taglio della spesa pubblica e se comincia anche a dare risposte sulla produttività, allora si tratta di un intervento positivo per il paese”, avrebbe commentato a caldo la numero uno degli imprenditori Emma Marcegaglia), segnali positivi - in attesa di un giudizio più compiuto, che sarà possibile quando si disporrà del testo definitivo - da Cisl e Uil, che mettono l’accento sull’importanza delle novità in tema di lotta all’evasione fiscale. Le parti sociali - con l’eccezione della Cgil, pronta però a riconoscere che “alcuni punti si possono apprezzare”, dunque non in procinto di salire sulle barricate - non bocciano la manovra che è stata illustrata loro dal governo. Tra le prime misure (che in serata hanno avuto anche l’approvazione della Ue) che il titolare il via XX Settembre illustra c’è quella sui dipendenti pubblici che non avranno “un euro in più in busta paga”. Avranno tutti il congelamento triennale generale delle retribuzioni.

Proposta che lascia particolarmente inquieto soprattutto il leader della Cgil, Guglielmo Epifani (“sarà colpito il dipendente che guadagna 1500 euro, non chi ha un reddito di un milione”). Non solo: nei tagli incappano anche gli stessi dipendenti di Palazzo Chigi, dove si svolgono gli incontri, che si radunano in cortile e rivolgono al ministro un ironico “bravo! bravo!” con tanto di applauso. Dure sulla manovra le prese di posizione di Pierluigi Bersani (“La favola è finita”) e del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani: “È una manovra insostenibile per le ricadute che avrà e per i servizi ai cittadini che le Regioni devono erogare”. Il segretario del Pd non fa sconti al governo: “Ci hanno raccontato che i conti erano in equilibrio, invece non è vero niente. La Grecia non c’entra nulla: è un problema nostro. E non vedo riforme - ha detto da Pechino, dove partecipa al forum Europa-Cina -. Questa è una manovra depressiva, è solo un giro di specchi. Non si affronta nulla di strutturale, tagli indiscriminati e nessuna crescita”. Meno soldi per le auto blu, ma anche per le mostre e i convegni e poi divieto di spendere soldi per le sponsorizzazioni: la manovra messa a punto dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti punta a ridurre la spesa nella pubblica amministrazione a partire, è il leit motiv, dagli ’sprechi’. La sforbiciata colpirà anche le risorse destinate ai dicasteri e gli stessi stipendi dei colleghi di governo. “I tagli alla pubblica amministrazione - dice infatti il titolare del Tesoro - ci saranno cominciando dai ministri”. Le uniche voci che si ’salvano’ dalla sforbiciata (-10%) prevista dal decreto legge predisposto da via XX Settembre sono infatti il fondo ordinario delle università e quelli per l’informatica, la ricerca e il 5Xmille. Tutti gli altri dicasteri dovranno inaugurare una stagione di risparmi seppure con una certa dose di autonomia nel decidere dove effettuare i tagli.

(Dis)onestamente Cgil


Piacenza - C’è qualcosa di peggio che portar via le caramelle a un bambino? Certo che c’è. Ed è rubare nelle misere tasche dei pensionati. Eppure è proprio quello che succede e che pare peraltro stia succedendo già da un po’ di tempo a Piacenza. Un alleggerimento omeopatico condotto nell’ombra, con precisione scientifica nel metodo ed esponenziale progressione numerica per il numero delle vittime coinvolte. Colpevole di tale bassezza non è però, cone si potrebbe pensare, una banda di malviventi senza scrupoli, infilatisi con destrezza nei software dell’Inps. Né qualche bieco e avido capitalista di genere caricaturale (ma ne esisteranno ancora?), in tuba e marsina nera, alla Bertolt Brecht. Ad aver alleggerito i già peraltro esangui assegni mensili di almeno 150 vecchietti piacentini (ma pare che con i casi sospetti attualmente al vaglio degli inquirenti la lista sia già lievitata a quota 800) è nientemeno che la Cgil, il sindacato rosso. Passato così dall’antico e generoso slogan «proletari di tutto il mondo unitevi» al ben più innovativo e redditizio «furbetti del sindacato organizzatevi». Il trucco? Iscrivere i nonnetti allo Spi, il raggruppamento Cgil dei pensionati, trattenendone un prelievo mensile direttamente alla fonte. Ma ovviamente, a loro insaputa.

A rivelare a livello nazionale quello che si fa fatica a definire semplicemente come uno «scandalo» - di fronte a un fatto così, lo Zingarelli rivela quasi la sua impotenza - è nel suo numero odierno il quotidiano economico finanziario Italia Oggi, diretto da Pierluigi Magnaschi. Che anziché ricorrere al dizionario, ha giustamente scelto di andare a trovare i termini giusti nel nostro Codice penale. Ovvero: «falso e truffa». Termini che del resto corrispondono paro paro alle ipotesi di reato che sono attualmente in corso di accertamento da parte della Procura della Repubblica di Piacenza nella persona del gip Gianandrea Bussi. Un nome relativamente nuovo in questa pratica, il suo, in conseguenza di un episodio connesso con le indagini in corso. Episodio che se non si dovesse tener rispettosamente conto della gravità dei fatti e dei comportamenti finiti sotto osservazione, potrebbe quasi indurre a sorridere.

Tra i tanti pensionati che i vertici piacentini dello Spi (o meglio, quella parte di loro che ha effettivamente malversato) avevano iscritto a loro insaputa nelle file della organizzazione facente parte della Cgil, era infatti finita anche la madre del giudice per le indagini preliminari Giuseppe Bersani, il magistrato al quale era stato affidato in un primo tempo l’incartamento. La denuncia della signora, che ha scoperto di essere stata iscritta ai pensionati Cgil addirittura dal 1998 - «Quella firma sul modulo di iscrizione non è mia», ha detto indignata ai carabinieri - ha provocato di conseguenza le immediate dimissioni del figlio dall’incarico per evidente incompatibilità.

A Piacenza raccontano che al primo circolare della voce della malefatta - circolata inizialmente sotto i portici cittadini e rimbalzata poi con evidenza e con «tutti i particolari in Cronaca» sulla stampa locale - la Cgil abbia tentato un salvataggio in corner. Peraltro penoso. Una giustificazione talmente abborracciata che al suo confronto il proverbiale arrampicarsi sugli specchi sarebbe risultato un esercizio facile facile. «Trattandosi di pochi casi di iscrizione forzosa, ovvero con in calce una firma falsa - si erano infatti difesi più o meno in questi termini i vertici dello Spi - si può parlare di errori materiali». Quindi, a loro autoassolutorio avviso, facilmente perdonabili così come quando rimediabili. Nemmeno a parlarne. Mal gliene è incolto, infatti. Perché a mano a mano che i carabinieri hanno iniziato a rivolgere le loro occhiute attenzioni in quelle carte quanto mai false, la lista delle vittime di questi padanissimi Dracula sindacali è salita di colpo a un centinaio di unità. Costringendo il sindacato «madre», la Cgil, a decapitare in tutta fretta i vertici piacentini dello Spi. Se non altro nel tentativo di salvare quel che restava della faccia. La sua, almeno.

Di conseguenza, al fine di evitare che la figuraccia locale potesse dilagare come un contagio anche a livello nazionale, la segreteria centrale di Roma ha spedito a Piacenza un proprio commissario con l’incarico di fare luce. Nonchè, si spera a questo punto, soprattutto piazza pulita.