venerdì 23 ottobre 2009

La traduzione del corano

Taslima: "Ho lasciato l'Islam traducendo il Corano" di Anna Davini

Ad ascoltare la sua voce tranquilla, il tono pacato, è difficile credere che sulle spalle di Taslima Nasreen pesi davvero una condanna a morte. Una fatwa che l'ha prima obbligata a lasciare il suo paese, il Bangladesh, e a trovare asilo in India e, quattro anni fa, l'ha nuovamente bandita, costringendola a fuggire in Occidente. Per i guardiani dell'ortodossia islamica, al pari di Salman Rushdie, Nasreen è colpevole di blasfemia: colpevoli sono i suoi versi e colpevole è la sua convinzione militante che le donne e le parole debbano essere libere. Una vicenda su cui la poetessa bengalese - ospite di Udine. Traduce, manifestazione dedicata alla traduzione poetica che anticipa e affianca le giornate monfalconesi dell'Absolute (Young) Poetry - ritorna ieri sera, in occasione di una lectio magistralis a Palazzo Antonini, introdotta dal sindaco Furio Honsell, dall'assessore Luigi Reitani e dal poeta Lello Voce, che sottolineano il valore civile, oltre che artistico, dell'attività di Nasreen. Di fronte a un pubblico non troppo nutrito, la poetessa discute il tema della lezione, I'm not understood, proprio a partire dalla fatwa contro di lei e dall'interesse che questa suscitò negli editori occidentali. Un interesse - racconta pacata - che non li spinse mai a interpellarla, portandoli a un errore clamoroso: tradurre come primo volume un libro, Shame, che erroneamente ritenevano all'origine della condanna. «Avrebbero potuto pubblicare lavori in cui denunciavo l'oppressione delle donne da parte del regime islamico. I lettori occidentali li avrebbero di sicuro trovati più significativi», spiega. Con questo episodio editoriale non proprio felice, Nasreen introduce la sua riflessione sulla traduzione, dunque: sul suo valore, i suoi limiti, le sue difficoltà. E come saggio pratico dell'importanza del tradurre, racconta che fu proprio la traduzione in bangla dei versetti coranici ad allontanarla dall'Islam: «Dopo aver letto la traduzione di quello che ripetevo meccanicamente, sono diventata atea, perché ho realizzato che l'Islam non è una religione di pace, e discrimina le donne. Era chiaro, in effetti, che quelle parole erano state scritte da un uomo, o da un gruppo di uomini per i loro interessi sociali e politici». La traduzione, dunque, come arma potente nelle mani del lettore (potenzialità che da sempre le istituzioni religiose di tutto il mondo mostrano di conoscere). E non solo perché rappresenta un'indispensabile via d'accesso a letterature lontane, ma anche - spiega la poetessa - perché è l'unico mezzo con cui lingue "minori", non dominanti, come il bangla possono varcare le frontiere spesso impenetrabili della povertà economica e della subalternità politica. E forse addirittura restare in vita. Perché le lingue dei paesi poveri - spiega Nasreen - sono destinate a morire. Una scomparsa che trascinerà con sé - avverte - intere culture: «La lingua non è solo un insieme di parole e di regole grammaticali, è l'espressione stessa della cultura. Incarna gli sforzi che una comunità linguistica intraprende per concettualizzare e interpretare il mondo». E se la comunicazione universale, in cui tutti sono in grado di comprendersi e nulla vada più perduto in quel tradimento necessario che è la traduzione, è un'utopia vagheggiata da tanti, Nasreen la pensa diversamente: «La chiamerei piuttosto distopia. La pluralità di lingue e culture migliora la terra. La comunicazione può sembrare un problema, ma senza diversità rimbomberebbe il suono della monotonia».

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