sabato 9 maggio 2009

Gran Bretagna alla deriva

Integrazione o apartheid? L’Islamically Correct fa più danno che altro di Andrea B. Nardi

In Inghilterra alcuni bambini vengono condannati dai tribunali per comportamenti non conformi all’islamicamente corretto; in Italia nasce la prima piscina per sole donne musulmane; sulle spiagge della Costa Azzurra donne islamiche prendono il sole interamente velate. Siamo sicuri che sia questa la strada giusta per l’integrazione? E poi, che significa integrazione, integrati con chi, fra chi, in che modo? Non sarebbe meglio sostituire questo orribile termine coi vecchi concetti occidentali di libertà, tolleranza, uguaglianza, e mettiamoci pure legalità? Gli stessi concetti da cui sono nati i diritti umani e sociali, identici senza distinzione per gli uomini e per le donne; concetti tramite cui in Occidente si è combattuta e ancora si sta combattendo ogni sorta di segregazione. I seguenti sono solo alcuni episodi emblematici di una tendenza europea che vorrebbe essere socialmente democratica e aggregante ma si dimostra invece ghettizzante e lacerante. Hal G. P. Colebatch è uno scrittore australiano, avvocato, professore di diritto, e commentatore politico, e la sua denuncia è molto forte: «La Gran Bretagna sembra diventare il primo Stato neo-totalitario. Non ci sono campi di concentramento o gulag, ma ci sono polizie del pensiero dotate di poteri senza precedenti per intimare modi di pensare uniformati e individuare l’eresia, e i dissidenti possono vedersi imporre pesanti pene». Il motivo del suo allarme risiede, fra l’altro, in un progetto di legge del governo inglese che convertirebbe in azione penale (sic!) scherzi o barzellette politicamente (leggi: islamicamente) scorrette, con pene fino a sette anni di prigione. «Non è stato accolto nemmeno un emendamento della Camera dei Lord per proteggere la libertà d’espressione. Negli ultimi dieci anni ho accumulato numerosi esempi di pene draconiane, compreso l’arresto e l’incriminazione criminale di bambini per crimini del pensiero e offese contro il politicamente corretto», continua Colebatch. Come per esempio il caso di Codie Stott, una quattordicenne che si è vista denunciata per razzismo dall’insegnante, arrestata dalla polizia, trattenuta in una cella per tre ore e mezza priva dei suoi abiti, fotografata e schedata con le impronte digitali, interrogata per crimini razziali d’ordine pubblico, il tutto per aver chiesto di poter seguire una ricerca scientifica con un altro gruppo di studio poiché in quello che l’insegnante le aveva assegnato c’erano solo ragazze che parlavano unicamente l’urdu. Ora la scuola, insoddisfatta per la mancata incriminazione da parte della magistratura, medita altre misure contro l’allieva, senza però preoccuparsi troppo delle alunne pakistane che non si curano d’imparare l’inglese. Oppure c’è il caso di un bambino di dieci anni arrestato e portato davanti a un giudice per aver apostrofato un coetaneo con gli appellativi di “Paki” e “Bin Laden”, mentre l’altro lo scherniva con insulti più... tradizionali. Al momento dell’udienza, l’affare era già costato 25 mila sterline ai contribuenti. L’imputato è stato così scosso che ha lasciato la scuola. «Ci sono stati, negli ultimi mesi, innumerevoli casi di persone che sono state licenziate dalle scuole, ospedali e altre istituzioni per questioni di religione. In molti casi non si trattava di opinioni gridate fanaticamente dai tetti, ma di scambi in conversazioni private che sono stati denunciati alle autorità. Presi così, isolatamente, ciascuno di questi incidenti può essere interpretato come un’aberrazione, ma presi nell’insieme – ho citato soltanto un piccolo campione, altri sono riportati quasi ogni giorno, continua Colebatch – danno un’immagine piuttosto chiara della situazione». Spostiamoci in Italia. Yahya Pallavicini, imam della moschea al-Wahid di Milano e vicepresidente del Coreis, ha bocciato senza mezzi termini l’iniziativa dei gestori di una piscina di Bergamo, di proprietà della Diocesi, che hanno riservato ogni giovedì la loro struttura alle donne musulmane: «Francamente mi lascia perplesso questo eccesso di sensibilità che rischia di produrre artifici sociali: con la volontà demagogica di accontentare tutti senza capire le reali motivazioni di alcuni interlocutori, come questo gruppo di donne musulmane, si stravolge il carattere della nostra cultura e si scade in un relativismo che non favorisce l’integrazione ma rischia di legittimare dei ghetti». Parole non certo di uno xenofobo. Non si può non provare solidarietà per queste donne che finalmente possono nuotare, magari in costume, cosa a loro altrimenti vietata dall’islam fondamentalista, tuttavia non viene il dubbio che sbaglino i gestori della piscina e che sbaglino anche le musulmane ad accettare di andare a segregarsi nella piscina ghetto, alimentando in tal modo l’idea di dover essere discriminate? È solo un’ipotesi, ma non sarebbe forse più lungimirante se la Diocesi istituisse dei corsi per donne musulmane, tenuti da altre donne musulmane, in cui si cominciasse a insegnare che non c’è nulla di male a nuotare in una piscina frequentata da entrambi i sessi? Infine, in Costa Azzurra. Nelle spiagge fra Monte-Carlo e Nizza capita sempre più spesso di vedere giovani coppie di islamici coi maschi allegramente in costumi adamitici alla moda, e le mogli interamente ricoperte dalla testa alle caviglie di veli beige scuri o color marrone (non-colori), e così costrette a entrare in acqua quando non ne possono più dal caldo, e ad asciugarsi al sole sempre totalmente vestite. C’è da scommetterci che gli sguardi increduli dei presenti finiranno presto per abituarsi anche a questa assurdità, che peraltro qualcuno si affretterà a giustificare in rispetto alla cultura islamista (non islamica, si badi). Poi però si legge un articolo di Sumaya Abdel Qader su Women in the city, in cui varie donne musulmane, residenti in Italia, rivendicano giustamente il diritto di avere «parità di diritti e di opportunità con gli uomini, sia a livello sociale sia famigliare», come dice Ornella Bilder, impegnata in un progetto dedicato alle donne immigrate; la scrittrice Asmae Dachan, dal suo canto, sottolinea come «le donne musulmane cerchino la parità in ogni campo della loro vita (stesso salario, pari opportunità, ottenere posizioni elevate nella società), e che questa consapevolezza debba essere protetta da qualsiasi tipo di abuso di potere, sfruttamento e violenza». Ouejdane Mejri, presidente dell’Associazione Tunisina in Italia, ritiene che «si debbano distruggere gli stereotipi e demolire i pregiudizi», e la via è l’integrazione, come afferma anche Souheir Khatkouda, presidente dell’Associazione delle Donne Musulmane in Italia (ADMI): «Lo scopo della nostra associazione è di migliorare la comunicazione interna coi gruppi locali per inserirci nella realtà islamica e invitare le donne a unirsi a noi, per poi incoraggiare la loro relazione con la società italiana». Tutti propositi ammirevoli e progressisti, improntati alla salvaguardia prima di tutto dei diritti umani e sociali, con lo sguardo rivolto non alla chiusura sociale reazionaria bensì alla conoscenza e tolleranza reciproca. La domanda allora è: siamo sicuri che l’Europa, guidata dall’Inghilterra paladina della sharia, coi suoi isterismi giudiziari, legalitari e moralizzatori a senso unico, stia andando nella direzione giusta, o non stia invece creando e giustificando un nuovo apartheid?

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