mercoledì 31 marzo 2010

Divieto assoluto


Divieto assoluto di burqa. Lo stop anche in Belgio: il primo sì dal parlamento

Bruxelles
- Primo sì all’interdizione totale del burqa in Belgio. A dare il suo parere favorevole al provvedimento è stata la commissione affari interni della Camera. Se il provvedimento sarà approvato in via definitiva il Belgio sarà il primo Paese europeo ad avere una norma che vieta di coprire totalmente o in maggior parte il volto.

Il Belgio anti-burqa. La commissione affari interni della Camera ha votato la proposta di legge all’unanimità. Qualche riserva, che però non ne ha impedito il voto favorevole, è stata espressa solo dai verdi, scettici sulle garanzie giuridiche di un simile provvedimento. Il testo intende modificare il codice penale per imporre un’ammenda (o sette giorni di carcere) "a chi si presenterà in uno spazio pubblico con il volto coperto, del tutto o in parte, che ne impedisca l’identificazione". Ovvero, le donne musulmane non potranno portare nè burqa nè niqab camminando per le strade, nei parchi, in ospedali e scuole, sugli autobus e in tutti i luoghi pubblici. La legge prevede delle eccezioni solo per le manifestazioni come il carnevale, autorizzate dal comune. Soddisfatti i liberali, autori della proposta: "E' un segnale molto forte che inviamo agli islamici", ha detto il liberale francofono Denis Ducarme, "fiero" che il Belgio sia il primo Paese europeo a legiferare su una materia così sensibile. Il provvedimento, per diventare legge, dovrà passare il voto della camera il 22 aprile.

Carissimo Pierluigi

L'iniziativa all'indomani del voto. Tra i firmatari anche Ignazio Marino. Pd, la lettera a Bersani di 49 senatori. "Liturgie stantie, ora cambiare passo". «Incontriamoci subito per trovare la giusta strada da percorrere per servire degnamente il nostro Paese»

MILANO - «Cambiare passo», «muoversi subito».
È questo l'appello a Pierluigi Bersani contenuto in una lettera che 49 senatori democratici hanno inviato al loro segretario. Il Partito democratico si trova di fronte ad un momento della vita dell'Italia «rispetto al quale s'impongono, da parte di tutti noi - si legge nella missiva -, una maggiore generosità nell'impegno, una più partecipata attività politica ed una nuova consapevolezza riguardo l'effettiva portata dell'emergenza democratica in cui viviamo» sottolineano i 49 senatori democratici appartenenti alle diverse aree del partito, all'indomani del voto regionale e in evidente disaccordo rispetto all'analisi del voto fatta da Bersani. «Il lavoro ordinario non basta più. I ritmi ortodossi sono troppo lenti. Le liturgie della casa - incalzano gli autori della lettera - sono stantie. I cartellini da timbrare sono sempre più falsati. L'imborghesimento ci tenta in continuazione ed arriva persino a coinvolgerci in scellerate trasversalità ammantate di riformismo.I nostri valori fondanti rischiano di vacillare sotto i colpi della sfiducia e di un neo relativismo che intossica le nostre coscienze per condurci verso la più colpevole accidia». Nella missiva, promossa da Gian Piero Scanu e firmata da altri 48 senatori, fra i quali c'è anche Ignazio Marino, sfidante di Bersani per la segreteria, viene chiesto al numero uno del Pd un incontro immediato «per riflettere insieme. Per trovare, dopo una leale discussione, la giusta strada da percorrere per servire degnamente il nostro Paese. Non intendiamo farci consumare addosso i prossimi tre anni della legislatura, immersi in un attendismo fideistico che assegna al destino il compito di liberare l'Italia dal sultanato che la devasta».

I FIRMATARI - «Aspettiamo con fiducia - è la conclusione perentoria della lettera - una tua puntuale risposta, convinti che non trascurerai, nè sottovaluterai, il valore ed il significato delle nostre riflessioni e dei nostri propositi. Con molta cordialità». Fra gli altri, hanno firmato Daniele Bosone, Marco Filippi, Paolo Rossi, Alberto Tedesco, Francesco Ferrante, Marilena Adamo, Vittoria Franco, Vincenzo Vita, Achille Serra, Roberto Di Giovanpaolo, Mauro Del Vecchio, Adriano Musi, Silvio Sircana, Felice Casson, Massimo Livi Bacci, Mariapia Garavaglia, Alfonso Andria, Giovanni Procacci, Emanuela Baio, Luigi Lusi, Roberta Pinotti, Luigi De Sena, Leana Pignedoli, Antonio Rusconi, Marina Magistrelli, Andrea Marcucci, Anna Serafini, Ignazio Marino, Paolo Nerozzi, Anna Maria Carloni, Maria Leddi, Anna Rita Fioroni, Alberto Maritati, Tiziano Treu.

martedì 30 marzo 2010

Pd

Questa foto spiega perché il Pd è in estinzione

L’immagine più spietata per spiegare la difficile situazione vissuta in questi anni, e anche in questi giorni, dal Partito democratico è tutta in questa immagine che racconta bene la ridotta del centrosinistra in Italia. Il Pd dovrebbe evitare di difendere il risultato delle ultime regionali per fare un ragionamento più serio: in Italia i democratici sono diventati un fenomeno politico elitario che trova ormai uno spazio molto piccolo soltanto tra le due forchette del centrodestra. Che sono a nord la Lega (a parte la Lombardia) e al centrosud (a parte la Puglia, che del Pd non è, e a parte l’oasi della Basilicata) il Pdl. La geografia del voto dimostra infatti un dato spietato. Il centrosinistra di oggi vive, o meglio, resiste proprio nelle stesse regioni in cui un tempo era il Partito comunista a dominare: Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Marche e Liguria. Quando si dice, e qui lo si è ripetuto spesso, che il Partito democratico di Bersani sta lentamente diventando una sorta di versione 2.0 del vecchio Pds significa proprio questo. Forse, sarebbe il caso di iniziare ad ammetterlo.

Sexy shop halal

Islam, nasce il sexy shop a prova di sharia

Amsterdam - "Settantamila visite nei primi quattro giorni"
di vita sul Web. Questo il risultato record del primo sexy shop online dedicato ai musulmani, come racconta il suo ideatore Abdelaziz Aouragh, 29 anni, cittadino olandese di genitori marocchini. Un’idea rivoluzionaria, quella di creare El Asira, che mira a portare su Internet un’offerta erotica che rispetti i dettami della Sharia, la legge islamica, e che quindi si rivolge esclusivamente a coppie sposate.

Un'alternativa a prova di fede. Un’alternativa, spiega lui, ai siti che "si focalizzano sulla pornografia e su un’idea stravagante dell’erotismo" e che quindi sono proibiti dall’Islam. Basta andare sull’home page di El Asira (che in arabo significa "società"), per notare la sobrietà dominante: i colori sono quelli del nero e del grigio, con una linea centrale che invita le donne a collegarsi usando un accesso a sinistra e gli uomini a usare quello di destra.

Un sito innovativo. Divisi nell’acquisto, le coppie possono quindi scegliere di procedere in olandese, arabo o inglese tra decine di prodotti. Su tutti, ci sono oli per i massaggi, lubrificanti e afrodisiaci sotto forma di pillole. Tutti gli ingredienti, viene precisato, sono halal, ovvero "permessi dall’Islam", spiega Aouragh. Proprio per rispettare la Sharia non viene commercializzato alcun tipo di oggetto pornografico. Inoltre, siccome "abbiamo scelto un approccio di rispetto" come "novità nel mondo islamico", Aouragh sottolinea come sul sito appaiaono solo foto di scatole, pastiglie, tubetti o bottiglie, soprattutto in rosa o in blu.

La sede ad Amsterdam. Nato ad Amsterdam da genitori marocchini, Aouragh è da sempre un musulmano praticante. Come molti altri fedeli dell’Islam, dice, ho sempre visto la sessualità come un tabù fino a quando il suo socio in affari, Stefan Delsink, gli ha proposto di guardare oltre. "Quella della sessualità è davvero un’idea stereotipata sia dentro, sia fuori la comunità musulmana", ammette Aouragh. L’uomo, che è sposato, ha quindi deciso di confrontarsi con i leader religiosi islamici e con alcuni studiosi circa la sua idea di business. "Ho imparato molto circa quello che l’Islam dice a proposito della sessualità, circa quanto sia importante avere una vita sessuale sana", prosegue. Alcuni religiosi musulmani, come l’imam olandese Abdul Jabbar, non vede nulla di male nel sito di Aouragh.

La colpa? Sempre degli altri...

Pd, l'accusa di Bersani: al Nord rovinati da Grillo. Il comico: "Rimuovetelo"

Roma - "Al Nord e soprattutto in Piemonte ci ha 'rovinato' togliendo voti un po' a noi un po' a Di Pietro".
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, arrivando alla Camera per un convegno su Ingrao, valuta così il successo della lista di Beppe Grillo in alcune regioni: "E' un cupio dissolvi". Immediata la replica del comico genovese che avverte: "Questo è ssolo l'inizio. Ora Bersani deve dimettersi da segretario". Un malcontento che anche Martina, la figlia di Walter Veltroni, ha scritto su Facebook: "E' ora che qualcuno si dimetta...".

Grillo: "E' solo l'inizio". Quello del movimento "Cinque stelle" è soltanto l’inizio di un percorso. Parola di Beppe Grillo, che dal suo blog commenta il sorprendente risultato della nuova formazione politica: "Mezzo milione di italiani ha votato per il movimento", presente in sole cinque regioni. "Hanno votato - prosegue il comico genovese - molti giovani che erano disinteressati della gestione della cosa pubblica. E' l’inizio di un percorso. Il movimento si è inserito in una partita tra bari, in cui la combine elettorale era preparata a tavolino. Pdl e Pdmenoelle si spartiscono da 15 anni le zone di influenza del Paese e la gestione degli appalti. Il popolo sovrano non ha scelta, o vota uno, o vota l’altro, senza conoscere le logiche spartitorie sottostanti". Secondo Grillo "la prova provata dell’inciucio è nella scelta dei candidati regionali da parte di D’Alema (Bersani è solo il suo portavoce, sempre più afono): scegliere Loiero in Calabria, Megaloman De Luca in Campania, e l’ectoplasma Penati in Lombardia è stato come salire su un ring con il braccio destro legato dietro alla schiena. Delle due l’una: o la direzione pdimenoellina è costituita da 'tafazzi' masochisti, o è stato un voto di scambio a livello regionale. Il Pdmenoelle aveva già perso alla presentazione delle liste. La stessa scelta di Boccia in Puglia era un immenso favore al centrodestra, senza le primarie vinte da Vendola, il Pdmenoelle avrebbe perso anche quella regione". Grillo è duro con Bersani e conclude: "Rimuovetelo al più presto da segretario, delira, come ha delirato sulla Tav, sugli inceneritori, sulla gestione pubblica dell’acqua".

La figlia di Veltroni: "Dimissioni". "Vediamo se qualcuno si dimette, prima che mi venga la gastrite". E' il post che Martina, la figlia di Walter Veltroni, ha affidato, dieci ore fa, alla sua pagina di Facebook. Nessun riferimento alle elezioni regionali ma dall’orario notturno, quando si era appena concluso lo spoglio in Piemonte e Lazio, e dalla richiesta di dimissioni sembra chiaro che la figlia dell’ex segretario del Pd si sfoghi per il risultato elettorale del Pd.

Oggi le comiche

Regionali: Bersani "C'e' inversione di tendenza"

ROMA
- Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, intravede segnali positivi dal risultato delle regionali. "L'inversione di tendenza c'e' - avrebbe detto Bersani analizzando i dati - e lo si vede dalla conquista della maggioranza delle regioni".

Scusate eh? Auauauauauauauau... si, si come dice lui.

lunedì 29 marzo 2010

Reato d'opinione

Reati d’opinione: il pericolo che corre l’Italia di Marcello Veneziani

La libertà d’opinione in Italia sta prendendo una brutta piega. Nell’arco di pochi giorni sono avvenuti quattro episodi malandrini che hanno investito gli organi della magistratura e dell’informazione. Primo episodio. La Cassazione condanna un sindacalista della Cisl per aver detto in un’intervista questo non è un lavoro per donne. Opinione deprecabile, e a mio parere anche stupida, ma pur sempre un’opinione. Secondo episodio: un’altra condanna giunge dalla magistratura ad un tale che ha apostrofato come gay un omosessuale, però il tono con cui lo ha detto sarebbe configurabile non come una battuta infelice ma come un reato. E qui vengo ai due episodi che riguardano invece l’ordine dei giornalisti e che toccano proprio Il Giornale. Vittorio Feltri condannato a sei mesi di sospensione per il caso Boffo, di cui si possono criticare tutte le opinioni espresse dal Giornale e dal suo direttore, ma di cui non si può negare il fatto, la notizia, ovvero che Dino Boffo fu effettivamente condannato per molestie. E condanna, mi pare, si annuncia sul Giornale per aver titolato in prima pagina che «I negri hanno ragione» riferito agli scontri di Rosarno. E dire che per secoli, fino a pochi anni fa, tutti li chiamavano così; negri non è un’offesa, mentre mi sembra ipocrita e sottilmente offensivo chiamarli «di colore»; molti di loro rivendicano con orgoglio la negritudine, che è pure un dignitoso filone letterario; e dar ragione ai negri non comporta affatto denigrarli. E invece... Mi preoccupa questa situazione, che poi fa il paio con i reati d’opinione sul piano della ricerca storica, con le diverse valutazioni riguardanti il Novecento, l’entità delle vittime e le responsabilità storiche dei massacri che diventano reati. Solo di alcuni, beninteso, mica dei gulag o di altri stermini, di altri regimi totalitari o di altre dittature. Mi preoccupa che si allarghi il reato di opinione e ciò avviene non per responsabilità del governo, ma di chi dovrebbe al contrario opporre argini al potere e garantire i diritti, a cominciare appunto dal diritto d’opinione: vale a dire magistrati e giornalisti, nei loro più autorevoli organismi. Posso assicurarvi che non condivido affatto l’opinione maschilista del sindacalista della Cisl, o quella omofoba sui gay; stimo professionalmente Boffo e lo scrissi anche in quei giorni di bufera e non ho neanche un minimo conato di razzismo; anzi, mi sono sempre considerato, per ragioni di carnagione, un negro adottivo, seppure in versione sbiadita. Dunque, non abbraccio quelle opinioni e condivido chi le confuta e vi polemizza anche in modo vivace. Ma non posso accettare che vengano perseguiti in un Paese libero, civile e democratico i reati d’opinione, che venga interdetto uno dei giornalisti più seguiti del nostro Paese o che venga sanzionato uno dei giornali più importanti del medesimo. E mi impressiona vedere che tutto questo avviene mentre tra gli stessi, magistrati e giornalisti, ordini professionali e organismi giudiziari, si denuncia una presunta minaccia alla libertà da parte del Parlamento e del governo. Trovo grottesco che nella santorata dei giorni scorsi, ovvero nella processione in devozione di Sant’Oro, si sia parlato dell’avvento della dittatura in Italia per un’infelice sospensione dei programmi di informazione politica, e si trascuri il fatto assai più preoccupante che si sta allargando nel nostro Paese la sfera dei reati d’opinione. Il politically correct è già una brutta impostura sul piano delle ideologie, dei linguaggi e delle opinioni, perché emargina e mortifica chi non la pensa come il Potere Ideologico Dominante. Ma ora che il politically correct viene imposto a norma di legge e nel nome del politically correct si arriva perfino a punire chi non vi si riconosce nel suo dominio, comincio davvero a preoccuparmi. Che cosa accadrebbe se la filiera si completasse, ovvero se, oltre agli organi della magistratura e della stampa, anche il governo e il Parlamento fossero nelle mani della stessa vulgata? Non sono di quelli che gridano alla dittatura alle porte, anche perché il Paese la respingerebbe come un corpo ostile ed estraneo. Però lasciatemi dire che questa brutta piega preoccupa non poco. Lo dico da cittadino, da giornalista e da persona insofferente verso i codici ideologici del politically correct e la loro osservanza pecorina. Era già odiosa e soffocante quella cappa di conformismo che avvolge la cultura e la società; ma sono guai se ora quella cappa bisogna pure indossarla o respirarla a norma di legge, sennò ti tolgono la libertà. Su, colleghi e concittadini, non lasciate correre, svegliatevi e reagite.

La mite tirannia obamiana

Più regole per tutti. Con la riforma di Obama l'America si avvia verso una "mite tirannia" di Michael A. Ledeen

Più di un anno fa, a meno di un mese dall’Investitura obamiana, scrissi del pericolo del sorgere, in America, della tirannia; citavo lo scenario da incubo tratteggiato da Tocqueville, in cui il popolo americano abbandonava spontaneamente la propria libertà sedotto da una dittatura morbida, in apparenza simile a una democrazia. Ero nel giusto in merito alle intenzioni di Obama, però sbagliavo quanto alla reazione del popolo americano, fattore fondamentale nella battaglia che ci ritroviamo a sostenere. Tocqueville presagiva una lenta morte della libertà. Ciò che paventava era una graduale espansione del potere del governo centrale, che si sarebbe immischiato in ogni settore della nostra vita, e aveva paura che avremmo accolto volentieri tutto questo, illudendoci che saremmo stati in grado di tenere la situazione sotto controllo. Ogni giorno saltano fuori regole restrittive in materie di secondaria importanza, e l’intera società ne risente. Non è abbastanza da portare la gente a ribellarsi, ma ogni volta si deve sopportare una nuova imposizione, e prima o poi arriverà il punto in cui si perderà la capacità di esercitare la propria libera volontà. In questo modo si spezza gradualmente lo spirito, si perde determinazione... La tirannia che Tocqueville previde per noi ha ben poco in comune con le feroci dittature dello scorso secolo, o con quelle contemporanee in Corea del nord, Iran o Arabia saudita. “La natura del dispotismo nell’era della democrazia non sarà né crudele né feroce, ma subdola e invadente”. La visione e persino il linguaggio anticipavano “1984” di Orwell, o “Il mondo nuovo” di Huxley. Tocqueville descriveva la nuova tirannia come “un immenso potere tutelare”, il cui compito era regolare ogni aspetto delle nostre vite. Copre la superficie della società con un’intricata rete di regole complicate, minuziose e uniformi, impenetrabili per le menti più originali e dinamiche, che non riescono ad emergere dalla massa. Tocqueville non credeva che saremmo stati sottomessi con la forza: saremmo stati sedotti. Previde il crollo della democrazia in America come il risultato finale di due evoluzioni parallele, che alla fine ci avrebbero reso docili servitori di un onnipresente potere burocratico: la corruzione del nostro carattere, e la necessità di un vasto “welfare state”. La sua visione da incubo è stata brillantemente e terribilmente esatta. Quel potere è assoluto, minuzioso, regolare, previdente e mite. Se il suo scopo fosse quello di preparare gli uomini all’età adulta, assomiglierebbe alla patria potestà; il problema è che il suo scopo è quello di mantenerci in un’infinita adolescenza: è ben contento che la gente gioisca, a patto che non pensi ad altro che gioire. E’ per quella felicità che il governo lavora con indiscutibile impegno; il fatto è che pretende di essere l’unico agente e l’unico arbitro di quella felicità. Si fa carico della sicurezza dei cittadini, prevede e soddisfa le loro esigenze, si preoccupa dei loro svaghi, governa le loro principali preoccupazioni, dirige le loro aziende, regola la discendenza della proprietà, suddivide le loro eredità: cosa rimane, oltre che risparmiar loro anche la fatica di pensare e il pericolo di vivere? Tocqueville aveva ragione, ed è esattamente quel che è accaduto nel suo vecchio continente. L’Europa è caduta sotto quella precisa sorta di tirannia, e i nostri aspiranti tiranni credono di poter fare lo stesso anche qui. Ma non ci sono riusciti, le cose non sono andate come si erano aspettati. Invece di abbracciare la tirannia, il popolo americano, imprevedibilmente, si è rivoltato. Per usare la metafora di Tocqueville, gli americani si sono comportati come un bambino capriccioso che si rifiuta di fare quel che gli dicono. A quel punto gli aspiranti tiranni hanno deciso di sculacciarci, per farci comportare come si conviene. Sono stati costretti a ricorrere a un colpo di stato, un vero e proprio abuso di potere. Di qui il Demon Pass (in realtà “deem and pass”, procedura parlamentare, contestata dai repubblicani, che la speaker della Camera Nancy Pelosi ha impiegato per approvare la riforma sanitaria – ndr). Di qui le memorabili battute di chi complottava: “Dobbiamo approvarla (la riforma sanitaria, ndt) per scoprire quel che contiene” (Pelosi), “Non ci sono regole. Questo è il Congresso degli Stati Uniti” (Hastings). Non era questo il modo in cui si pensava ciò sarebbe accaduto. Si credeva che ce ne restassimo tranquilli. Invece abbiamo reagito, e l’esito di questa grande battaglia – quella che presagii più di un anno fa – è in forse. Gli aspiranti tiranni potrebbero prevalere; dopo tutto, hanno dalla loro l’enorme potenza dello Stato. Ma noi abbiamo il numero, e una visione superiore. Gli americani possono essere assai duri in battaglie del genere. Chiedetelo a Re Giorgio.

Arricchimenti culturali

Bergamo, dà fuoco al suocero: preso senegalese

Bergamo
- Dopo una violenta lite familiare a causa della separazione in corso dalla moglie, ha prima cosparso il suocero con un liquido infiammabile e poi ha cercato di dargli fuoco con un accendino. È accaduto a Borgo di Terzo, nella bergamasca, ieri sera attorno alle 21.55. Protagonista è il cittadino senegalese M. M., classe 1977, regolare, disoccupato, già noto per reati contro la famiglia.

La ricostruzione della tragedia. E' ricoverato in pericolo di vita, con ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo, l’uomo di 59 anni che ieri sera è stato aggredito dal genero senegalese di 33 anni nel cortile della sua abitazione di Borgo di Terzo. L’immigrato, al culmine di una lite coi familiari, ha gettato della benzina addosso al suocero e ha dato fuoco, ferendo in maniera più lieve anche la moglie, il figlio di otto mesi, la suocera e la cognata. Prima dell’arrivo dei carabinieri, il senegalese si è inferto alcune coltellate al torace, forse nel tentativo di togliersi la vita, ed è ora piantonato in ospedale in stato di arresto, con l’accusa di tentato omicidio. Anche lui è in prognosi riservata e rischia la vita, con un polmone perforato da uno dei fendenti.

Le cause della lite. Il fatto è successo nella tarda serata di ieri in una villetta di Borgo di Terzo, in via Pezzotta. La discussione è scoppiata a causa della separazione in corso tra l’arrestato e la moglie, un’impiegata italiana di 37 anni. La lite è degenerata al punto che l’immigrato, dopo aver minacciato i familiari con un coltello, ha cercato di compiere una strage. Oltre al suocero sono rimasti ustionati anche il figlio di otto mesi, già dimesso dall’ospedale e giudicato guaribile in otto giorni, la moglie, che è tuttora ricoverata in osservazione, la cognata e di 27 anni e la suocera di 57 anni, entrambe dimesse con una prognosi di 20 giorni per ustioni alle gambe. In casa c’era anche il primo figlio del senegalese, di appena due anni, che è stato medicato al pronto soccorso per una sospetta intossicazione dal fumo causato dalle fiamme, ed è stato dimesso con un paio di giorni di prognosi. I militari hanno sequestrato nell’abitazione anche quattro coltelli. L’arrestato, che ha precedenti penali per reati contro la persona e il patrimonio, è piantonato alle cliniche Gavazzeni di Bergamo.

domenica 28 marzo 2010

Amnesty international

"Da pol Pot a Jenin, la bancarotta morale quotidiana di Amnesty" di Giulio Meotti

Roma. Nei suoi gloriosi cinquant’anni di attività, Amnesty International ha raccolto tante lodi e riconoscimenti, oltre a un premio Nobel per la Pace. Eppure la paladina dell’umanitarismo, che dice di battersi per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è al di sopra di ogni sospetto. Giorni fa persino lo scrittore Salman Rushdie, esponente della stessa cultura liberal a cui Amnesty si richiama, ha accusato l’organizzazione di “bancarotta morale”. Perché Amnesty ha utilizzato come testimonial Moazzam Begg, ex prigioniero di Guantanamo e sostenitore dei talebani e di al Qaida. Un declino non da poco per l’organizzazione che all’inizio si è battuta per eroi della libertà come Vaclav Havel e Andrei Sakharov. Due vittime del Gulag sovietico accostate proprio a Guantanamo, “il Gulag dei nostri tempi” secondo l’infelice definizione di Irene Khan, segretario generale di Amnesty. Come se si potesse paragonare il carcere per terroristi all’inferno sovietico dove sono morti milioni fra sacerdoti, dissidenti, kulaki e gente comune. Una storica ambasciatrice americana all’Onu come Jeanne Kirkpatrick ha definito “ipocrita” Amnesty per i suoi colpevoli silenzi su tragedie politiche del Novecento che non hanno scaldato i cuori umanitaristi, come quelle in Angola e Nicaragua e come il genocidio cambogiano di Pol Pot. E quando in Etiopia e in Sudan migliaia di persone morivano per fame e tortura, Amnesty aveva come principale ossessione l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Non governativa e basata sul volontariato, Amnesty è stata un pilastro dell’opposizione all’Amministrazione Bush, di cui ha osteggiato in numerose sedi la “guerra al terrore”, perché “lungi dal trasformare il mondo in un posto più sicuro lo ha reso più pericoloso”. Senza contare che Amnesty contribuì alla campagna del democratico John Kerry. Non è esattamente questa l’imparzialità che per statuto Amnesty si impone. L’organizzazione ha chiesto all’Amministrazione Obama di “sospendere immediatamente gli aiuti militari a Israele”. Ma non ha trovato il tempo di chiedere, en passant, anche un embargo delle armi verso Hamas: è incapace di distinguere fra Israele e i suoi aggressori, fra una democrazia quantunque imperfetta e un movimento terrorista che inculca nei propri figli l’amore per la morte. Anche il settimanale britannico Economist ha accusato Amnesty di “riservare più pagine agli abusi dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati Uniti di quanti non ne dedichi a Bielorussia e Arabia Saudita”. Nel 2002, quando le forze di difesa israeliane, dopo due anni di attentati suicidi, andarono a stanare i terroristi dentro i Territori palestinesi, l’accusa – poi rivelatasi completamente falsa – che avessero compiuto un “massacro” a Jenin fu alimentata proprio da Amnesty, col risultato di scatenare giornali e tv in tutto il mondo. In Inghilterra l’ufficio di Amnesty ha sposato le tesi più estremiste dell’antisionismo. Amnesty non è soltanto pregiudizio politico. E’ anche ideologia antinatalista. Ha infatti elevato l’aborto a “diritto umano”. Nessuna lobby abortista era mai arrivata a tanto. Amnesty sostiene la diffusione dell’aborto procurato nel mondo, soprattutto nel Terzo mondo. Non a caso è stata ribattezzata “Abortion International”. Sono lontani i tempi in cui il fondatore Peter Benenson faceva conoscere al mondo la storia del tunisino Maurice Audin, ucciso in Algeria dai paracadutisti francesi, o della moglie di Pasternak, Olga Ivinskaya, a cui Mosca rese la vita impossibile. Oggi la candela nel filo spinato di Amnesty, più che l’icona dei diritti umani, è il marchio di una visione selettiva della storia per cui ci sono molti torti, ma alcuni sono più torti di altri.

sabato 27 marzo 2010

La vergine di ferro

La padovana Silvia Valerio, universitaria al primo anno di Lettere, esordisce con un libro che è già un caso: «Vi spiego perché lo desidero». «Io, vergine di ferro voglio offrirmi ad Ahmadinejad». Scrittrice, illibata: adoro quel presidente

PADOVA — Dice di esserne attratta «perché non si adegua al regime della via di mezzo, perché non si riempie la bocca di parole come diritti dignità sussidi pace quiete libertà, perché è l’ultimo eretico del nostro tempo, perché nega l’olocausto e pensa di usare l’atomica, perché mette a tacere l’opposizione, perché minaccia l’America, perché non concede alle donne di sentire il vento tra i capelli e si permette sempre di ribattere con quel sorriso di sprezzatura alle smorfie contrite e indignate di uomini d’ogni colore e forza». E, ad abudantiam, perché lo trova sensuale. Lui è naturalmente Mahmud Ahmadinejad, l'ultracoservatore presidente iraniano. Lei, invece, non è Eva Braun. E’ Silvia Valerio, avvenente diciannovenne padovana che ambirebbe a conquistare l’altra metà del cielo nero. Provocazione? Sete di successo? Strategia spinta di marketing, considerato che ha tradotto la sua aspirazione in un libro che è già un caso editoriale oltre che un’unghiata al lettore? «Ma no, se avessi voluto provocare avrei scelto Bin Laden, e invece ame piace lui. Vorrei offirgli il mio fiore ancora puro. Mi piace il suo anticonformismo, anche la sua voce, la mimica trattenuta, l’intonazione ferma e calma, da impassibile appassionato». E giù lodi sperticate, miscelando ammiccamenti civettuoli a una prosa ricca e dissacrante: «No! Un fascista! protesterà adesso la stragrande maggioranza. Un fascista che vuole estendere a tutto il globo il credo islamico. Che ha usato brogli e alleanze per arrivare al potere. L’opinione pubblica, d’altro canto, non fa altro che dare dei fascisti a tutti quelli che non la pensano come lei. Fra un po’, se già non l’hanno fatto, daranno del fascista ad Alessandro Magno, pure lui voleva estendere il modello macedone a tutto l’orbe, ha conquistato in lungo e in largo, ha ammazzato tutti gli oppositori e ha imposto la proskynesis come atto a lui dovuto in quanto figlio di Dio. Più fascista di così. A Tiberio, Caligola, Nerone, l’omicidio di Ottavia non ha paragone con il delitto Matteotti. E vogliamo parlare di Vespasiano, "il principe è svincolato dalla leggi", di quel naziskin di Tito, di Domiziano "dominus et deus". E, proseguendo, di Traiano e di Marco Aurelio e l’eccidio di Lione». Anticristiana, maliziosa, antiborghese, saccente e spiazzante, senz’altro coraggiosa, Silvia Valerio è un po’ figlia di sua sorella, la quale si chiama Anna K Valerio, ha 29 anni, è direttore della collana erotica di Ar e passa alle cronache come la musa di Freda oltre che massima interprete italiana di Nietzsche. Da lei ha imparato molto. Silvia Valerio garantisce anche sull’usura: «Sono una vergine di ferro». E ironizza immaginandosi come una «meravigliosa macchina da tortura» e cercando la fiaba: «Voglio un tappeto magico ma non quello stupido dei film di Disney. L’impresa andrebbe studiata con cura. Desidero un’entrata in scena degna di Cleopatra. L’importante è arrivare a destinazione, capovolgendo l’Itaca di Kavafis che ormai è stata adottata, a distanza e non, da tutte le agenzie turistiche». Una pazza? Boh, lo vuole. E per giustificare la scelta, ricorda le puntuali delusioni dei maschi italiani, dal suo maestro cinquantenne di tango, incontrato dopo aver messo piede in una milonga e liquidato di lì a breve «perché inconsistente», al suo professore di filosofia, «prigioniero di se stesso e incapace di sostenere certi sguardi, anche se talvolta mi faceva respirare l’aria di Tebe». Domande: Ahmadinejad non vuole scrittrici nel suo paese, come farai? «Non farò la scrittrice, in un mondo dove non c’è molto di cui lamentarsi si può anche rinunciare a scrivere». Il velo? «Lo metterò di sicuro, non mi risulta che sia pesante né provochi cefalee, non capisco tutta questa indignazione delle donne. Ci sono problemi ben peggiori del velo». E le gambe? «Saranno solo per lui, come il resto. Signor presidente, gliela offro...». S’offre, con l’apostrofo.

Andrea Pasqualetto

venerdì 26 marzo 2010

Corte di cassazione e italiani

La Cassazione chiamata a pronunciarsi da un cittadino insultato. "Non c'è l'aggravante razziale" che si verifica nel caso inverso. "Italiano di m..." è meno grave dello stesso insulto a un nero

L'espressione "italiano di m...", pur essendo un'ingiuria, non ha l'aggravante dell'odio razziale. Come l'espressione "Negro di m...". E' quanto si deduce da una sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna al pagamento di una multa di 900 euro inflitta dal giudice di pace di Pordenone ad un extracomunitario per ingiuria, percosse e minaccia nei confronti di un italiano. L'imputato, in particolare, si era rivolto alla parte offesa chiamandolo 'italiano di m..', ma il giudice non aveva ritenuto di dover applicare nei suoi confronti l'aggravante della connotazione razzista. Contro tale verdetto si era rivolto alla Cassazione il procuratore generale di Trieste, chiedendo una pena più severa per l'imputato, ma i supremi giudici, hanno ritenuto infondato il suo ricorso specificando che una precedente pronuncia sull'espressione 'sporca negra' integrasse invece "gli estremi di ingiuria aggravata dalle finalità di discriminazione o di odio etnico e razziale, in quanto essa era correlata nell'accezione corrente, adottata nel nostro territorio, proprio ad un pregiudizio di inferiorità razziale". Nel caso in esame, però, spiegano nella sentenza, "non si desume che la frase ingiuriosa 'italiano di m..' fosse stata pronunciata consapevolmente per finalità di discriminazione, di odio nazionale razziale o di conflitto tra persone a causa dell'etnia, non risultando che l'imputato avesse manifestato, nel contesto in cui erano state profferire, odio e sentimenti similari connaturati ad una situazione di inferiorità degli italiani. Anche perchè - osservano i giudici di piazza Cavour - non si può ritenere che il riferimento all'italiano, nel nostro territorio, possa dare luogo ad un pregiudizio corrente di inferiorità".

Un’altra sentenza di m… di Nicolo' Vergata

Sentite questa: per la Cassazione, se un extracomunitario insulta un italiano in Italia, chiamandolo “Italiano di m…”, costituisce solo “ingiuria”, senza l’aggravante dell’odio razziale (di cui alla legge Mancino). Cosi ha deciso il clan degli ermellini sul caso di un extracomunitario che ha insultato un cittadino italiano. Commettendo solo il reato di ingiuria (art.594 c.p. : “chiunque offende l’onore e il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa…” ) in pratica, l’extracomunitario, in virtù della pena alternativa al carcere, verrà condannato ad una semplice multa (sanzione sostitutiva prevista dagli artt.53 e segg. della L.n.689/1981). Multa che, per ovvii motivi, l’extracomunitario non pagherà mai, col permesso di continuare ad insultarci liberamente. Sentite la motivazione: “Usata (l’ingiuria) nel nostro territorio, dove l’italiano è stragrande maggioranza e classe dirigente (?) non può essere correlata ad un pregiudizio sulla inferiorità razziale“. In altre parole: siamo un popolo di merda e dobbiamo vantarcene. Non importa se l’extracomunitario considera la razza bianca con odio. Siamo solo noi i veri razzisti. Ma se l’odio razziale è disprezzo per la inferiorità, l’odio per i bianchi non è pur esso una forma di razzismo per il semplice colore della pelle? Oppure l’odio per la diversità somatica o per la diversità dei costumi non è una forma di razzismo? La Corte non si è chiesta quante razze di razzismo ci possono essere? E se io dico ad un giallo “sei un… di m…non perché sei inferiore ma perché non mi piace il colore della tua pelle e la tua mentalità, pur considerandoti civile e colto”, evito la galera? E se domani qualcuno di essi ci dà dell’ “italiano di m…”, dovremo ringraziarlo per la stima? Per il principio di reciprocità, andiamo a dire “sei un… di merda” a casa loro, dove sono loro la maggioranza e classe dirigente e vediamo chi riesce a ritornare vivo in Italia. Rimane un dubbio: se io sono un italiano non facente parte della classe dirigente o sono un italiano che vive all’estero e mi trovo occasionalmente in Italia, dove vengo insultato, posso mandare l’extracomunitario in galera? Morale, per non far parte di un popolo di merda ci conviene espatriare nei loro Paesi, dove con la m… si costruiscono anche le case. Almeno abbiamo risolto il problema edilizio e non verremo insultati. Tanto, di m… lì ce n’è per tutti.

Turchia

"Il jihad privato di Erdogan per islamizzare la Turchia" di Carlo Panella

Il viaggio che Angela Merkel effettuerà in Turchia la settimana prossima si preannuncia burrascoso, ma di grande interesse. Cade infatti nel pieno delle polemiche che stanno scuotendo tutto il paese sull’asse stesso su cui si basa il settantennale laicismo dello stato rifondato da Kemal Atatürk. Laicismo che ha prodotto l’unico, assolutamente unico caso di nazione abitata da musulmani a democrazia piena e matura. Forte di una indubbia maggioranza parlamentare e della crisi delle opposizioni, Erdogan ha sinora spregiudicatamente usato delle richieste fatte dall’Europa per l’ingresso della Turchia nella Ue per smantellare con riforme costituzionali già attuate una per una le garanzie al laicismo, con l’evidente e rivendicato obbiettivo di islamizzare stato e istituzioni. I generali in manette Gli arresti di decine di generali nelle ultime settimane con pretestuose accuse di golpe, mirano ora a eliminare del tutto il ruolo di garanti della laicità da sempre garantito dai militari e ora Erdogan tenta di “normalizzare” l’altro pilastro del laicismo turco: la magistratura. La prossima settimana infatti, formalizzerà alcune riforme costituzionali che - se realizzate - impediranno alla magistratura di fare quel che sinora ha fatto: impedire la formazione di partiti confessionali e integralisti (sciogliendo nel 1997 lo stesso partito in cui militava Erdogan e addirittura annullando la sua elezione a parlamentare nel 2004); sottoporre le delibere del Supremo Consiglio Militare (garante della laicità dello Stato e sovraordinato in campo militare allo stesso governo) a revoca da parte di tribunali ordinari e infine modificare i criteri di nomina del Consiglio della Magistratura e della Corte di Cassazione che verrebbero a essere formati da una maggioranza di membri di nomina governativa. Il paradosso è che Erdogan - e su questo ha ragione - sostiene che queste riforme sono «volute dall’Europa». Questo perché l’Ue non vuole e non sa comprendere che il meccanismo costituzionale voluto da Atatürk, che assegna ai generali (e ai magistrati) un ruolo di supervisione dei principi laici e democratici, è l’unico, vero segreto della democrazia turca e pretende invece che Ankara applichi i “Parametri di Copenhagen” del 1992 che però furono definiti non per l’ingresso di un paese islamico nell’Ue, bensì per l’ingresso dei paesi dell’ex Patto di Varsavia, a economia e istituzioni “socialiste”. Un brutto pasticcio, sintomo di una totale inadeguatezza politica dell’Ue a dominare i complessi meccanismi delle società musulmane, che oggi favorisce un Erdogan che ha tutte le intenzioni di re-islamizzare la Turchia, modificando così anche la sua collocazione atlantica (la Turchia è membro della Nato), come la sua quarantennale alleanza con Israele. Erdogan non ha a oggi i voti per imporre queste riforme costituzionali in Parlamento, ma può indire un referendum a luglio che le imponga con la forza del consenso elettorale. Il tutto, nel momento stesso in cui l’Europa che favorisce questo processo di involuzione islamista non è poi per nulla disposta a fare entrare al suo interno Ankara. Angela Merkel è stata infatti chiarissima e giorni fa ha dichiarato di non volere un ingresso in Europa della Turchia ma solo un «partneriato privilegiato». Affermazione che ha mandato su tutte le furie Erdogan, che ribadisce la sua volontà di una associazione completa alla Ue, e che comunque continua ad usare della confusione politica europea per rafforzare il carattere islamico della società e dello Stato turchi.

giovedì 25 marzo 2010

I buoni governi

Sanità, due miliardi di deficit nelle Regioni rosse

Roma - "Quella di ieri è stata una giornata terribile per la sanità italiana". A lanciare un allarme preoccupato è stato proprio il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, che a Verona ha mostrato apprensione all'indomani della verifica compiuta sui piani di rientro dal deficit delle Regioni: "Servono due miliardi per appianare i debiti in tre regioni". Nel mirino Campania, Calabria e Lazio.

L'allarme di Fazio. Il ministro della Salute ha spiegato che "sono stati utilizzati i Fondi per le aree sottosviluppate (Fas) per ripianare 2 miliardi di euro nella sanità di tre regioni: Campania, Calabria e Lazio". Un miliardo si riferisce alla Calabria, mezzo miliardo alla Campania e 420 milioni al Lazio. "Il Veneto - ha concluso il ministro Fazio - ha un’ottima sanità, ma bisogna tenere costantemente sotto controllo i segnali d’allarme, perché assieme alla Lombardia e alla Toscana sono le regioni trainanti della sanità nel nostro Paese".

Jean Marie LePen su Sarkò

Le Pen al "Corsera" sulla disfatta di Sarkò

Jean Marie le Pen, leader del Front National e per molti vero vincitore delle regionali francesi, analizza la sconfitta di Sarkozy. Molti lo davano per morto dopo i pessimi risultati ottenuti alle presidenziali del 2007, ma invece Le Pen è risorto ancora una volta. Pur essendo un vetero-fascista, statalista e petanista, bisogna ammettere che probabilmente Le Pen è l'unico politico francese in grado di parlare alla "pancia" del paese. Una volta ci riusciva anche Sarkozy, ora però Sarkò, irretito da frequentazioni mondane e gauchiste sembra aver perso il "tocco magico", a tutto vantaggio del vecchio leone.

PARIGI — «Quando ancora ci parlavamo, un giorno Nicolas Sarkozy mi disse, a tu per tu: "Quello che faccio, lo faccio per la forza della passione. Quando le cose cambiano, cambio anch'io e faccio altro". Ora le cose sono cambiate. È presto per fare previsioni, ma da qui al 2012 non potranno che peggiorare ancora. La situazione della Francia e dell'Europa è grave. Se Sarkozy era sincero, e credo proprio lo fosse, nel 2012 non si ripresenterà». Jean-Marie Le Pen, 81 anni, è appena atterrato all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, di ritorno da Nizza, dov'era candidato alla presidenza della Regione contro socialisti e sarkozisti. Fa notare scherzando che il suo risultato — 22,9% — è sopra il 22,2% che sua figlia Marine, classe 1968, ha strappato al capo opposto della Francia, il Nord-Pas de Calais. Il momento della successione non è ancora venuto. Anche se, quando parla della figlia, il leader dell'estrema destra si inorgoglisce quasi alle lacrime: «Sono così fiero di lei. Al Nord, nella zona più impoverite del Paese, ha fatto campagna nelle taverne e nei bistrot, in mezzo agli ultimi, ai pensionati, ai giovani senza lavoro, che la adorano. Marine è una vera femmina, e un vero uomo politico». Quando verrà il momento di sua figlia, Le Pen? «Non c'è fretta. Queste elezioni hanno confermato che sono praticamente immortale...». Le presidenziali 2007 sembravano aver segnato la scomparsa politica del Fronte nazionale e del suo fondatore. Sarkozy aveva recuperato buona parte dei voti persi a destra da Chirac, sulla linea della fermezza verso l'immigrazione e la delinquenza, financo con un linguaggio sbrigativo gradito alle fasce più conservatrici. «Il punto è che il presidente si è fermato al linguaggio — dice Le Pen —. Ha usato un tono e una postura da uomo d'azione, ma non ha fatto nulla per riportare l'ordine alle frontiere, nelle banlieue, nelle scuole. La sua energia è tutta verbale, la sua frenesia si avvita su se stessa. Ricorda quei soldati omerici che urlano i peggiori insulti e non si battono mai. Si limita a serrare i pugni, protendere il mento, assumere pose alla Mussolini». Detto da lei, Le Pen, dovrebbe essere un complimento. «Io? A parte il fatto che per me Mussolini è un ex socialista, voi in Italia non avete ancora capito chi sono davvero. Il Fronte nazionale ha fatto eleggere arabi, ebrei, neri. Io non sono un razzista. Sono un nazionalista francese». Che ha avuto parole inaccettabili sulle camere a gas. «Ancora con questa storia? Le élite europee sono ossessionate dalla seconda guerra mondiale. Io abito nel futuro. E il futuro appartiene alle destre nazionali e patriottiche, non ai Sarkozy». Quel che Le Pen rimprovera al presidente è di essersi presentato come il campione della «destra senza complessi», per poi lasciarsi irretire dalla sinistra. «Appena si libera un posto, lo dà a un socialista. Nel 2007 aveva avuto una vittoria totale, e si è creato una coabitazione volontaria con i suoi avversari: un masochista. Il massimo è stato il matrimonio con Carla Bruni, che veniva da un ambiente mondano e gauchiste. Oltretutto la loro unione va male, anche se i giornali francesi scrivono il contrario. È una coppia di potere; quando tra poco il potere non ci sarà più, non ci sarà più neppure la coppia». Un tempo, Le Pen non parlava di Sarkozy in questo modo. «È vero, abbiamo avuto un buon rapporto, prima che lui cambiasse. Forse è stata una fortuna: il periodo in cui eravamo vicini è coinciso con il mio minimo storico alle elezioni. Ma non ho mai creduto di essere alla fine. Ho visto Defferre arrivare al 90% a Marsiglia, per poi venire eliminato al primo turno delle presidenziali. Ho visto i gollisti al 3%, due anni prima che de Gaulle tornasse al potere. Oggi assisto al tramonto di Bayrou. La prossima volta tocca a Cohn-Bendit e ai Verdi: non durano. I socialisti cantano vittoria ma dimenticano che un elettore su due non ha votato. Noi nei sondaggi siamo sempre bassi, perché se dici che voti Front National come minimo ti mandano l'ispettore delle tasse. Stavolta erano proprio manipolati: a Parigi ci davano al 4 e siamo al 9, a Tolosa all'8 e siamo al 19. Le banche non ci fanno credito: ci sono eletti che hanno fatto campagna con 30 mila euro. Le élite ci vorrebbero morti; ma il voto di domenica è proprio contro le élite». A destra sarà mai possibile un accordo tra Le Pen e Sarkozy? «Sono loro che rifiutano di discutere con noi. Speravo che l'ostracismo fosse finito; invece continua, e oggi siamo più lontani che mai da questo Sarkozy inutilmente agitato. Anche se resta più simpatico di Chirac: un militante comunista, che vendeva l'Humanité la domenica mattina, divenuto presidente con i voti della destra; un enarca che ha gestito lo Stato francese proprio come un funzionario, per giunta infedele, attento ai propri interessi personali». In Italia è il momento della Lega. «Conosco Borghezio. Bossi non lo conosco e non abbiamo molto in comune. Lui vuole dividere il suo Paese, io la Francia la voglio salvare». Fini? «Ho orrore dei traditori. Pensare che gli salvai la vita, quando nell'87 andai al congresso di Sorrento per sostenerlo contro Rauti. Ora finge di non conoscermi». Berlusconi? «Mi è simpatico. Non nega se stesso, parla un linguaggio franco, non si è piegato alle forche caudine dell'ipocrisia. Ma non è un leader politico. È un miliardario che investe i suoi denari nella politica».

Medioevo islamico

L’OCI torna a proporci il medioevo di Maurizio De Santis

Ci risiamo (ovviamente). Nei corridoi dell'organizzazione della conferenza islamica (OCI) non ha mai cessato di circolare il vecchio progetto di risoluzione riguardante la diffamazione delle religioni. Già nel giugno dello scorso anno il gruppo africano dell’OCI non aveva mancato di presentare una versione piuttosto spigolosa di questa proposta in seno al Consiglio dei diritti dell'uomo. Ora, visto lo “scappellotto” (di misura, intendiamoci), rimediato in quella circostanza, l’Organizzazione più reazionaria del pianeta starebbe preparando una versione piuttosto “smussata” della stessa proposta silurata lo scorso anno. Il testo dovrebbe essere presentato al voto al termine dell'attuale sessione del Consiglio, probabilmente tra il 25 ed il 26 marzo. E’ interessante ricordare ai lettori che il concetto di “diffamazione delle religioni”, tanto vituperatamente proposto dai più disparati Stati musulmani, non è lontanamente contemplato dal diritto internazionale. Vale la pena rammentare, altresì, che, dovesse prevalere un riconoscimento di questo genere, il Consiglio dei diritti dell’uomo si renderebbe complice dell’avallo di un formidabile strumento per la restrizione delle libertà, nel mondo arabo, su concetti cardine quali la libertà di scelta della propria fede o quella di espressione. In Egitto, un articolo del codice penale permette il perseguimento di ogni critica, satira o polemica confronti della religione. Una norma straordinaria (maturata ai tempi dell’assassinio del presidente Anwar el Sadat nell'ottobre 1981) che, come spesso succede anche nel nostro bistrattato Stivale, si è magicamente trasformata in ordinaria e consente ogni forma di abuso verso qualsiasi persona minimamente sospettata. Sulla carta, chiunque insultasse una delle tre religioni monoteiste (giudaismo, cristianesimo ed islam) sarebbe passibile di galera per un lustro. Ma, nella realtà, questa norma è largamente impiegata da polizia e magistrati per proseguire le minoranze (fossero musulmane sciite, i bahaïs, musulmani che si convertono al cristianesimo, bloggers assortiti, per non parlare degli omosessuali). Molti hanno già dimenticato Karim Amer (in foto), cui hanno rifilato 4 anni di cella perché i solerti servizi di sicurezza hanno ritenuto offensivo il suo blog verso il presidente Mubarak e verso l'islam. La testarda insistenza della conferenza islamica (ed in essa, particolarmente, del Pakistan), continua ad ignorare (quanto volutamente?) che la legge “dovrebbe” proteggere gli individui, non la religione. E questo affinché ogni essere umano possa scegliere la propria religione e praticarla in santa pace. Ma, forse, si intravedono le prime crepe nel muro islamico-reazionario. Crepe determinate da un marcato affievolimento degli Stati “altero-mondisti”, soprattutto dell’America Latina. Paesi che, sino ad un anno fa, tramite la loro astensione, hanno assicurato un appoggio indiretto all’OCI. E che, da ora, sono sempre più orientati ad esprimere un secco no. Ma i mutamenti sono presenti anche all’interno dello pseudo-monolite dell’OCI. Con la defezione di Stati africani come Camerun e Gabon. E’ ora che l’UE cessi di giocare il ruolo dello struzzo e si assuma le proprie responsabilità. Che non sono poche, nella costruzione pianificata di una società multiculturale e multireligiosa che, a tutt’oggi, vive la rinascita di un pericoloso razzismo, figlio di forti contraddizioni giuridiche (vedi la concessione dei tribunali islamici in Gran Bretagna), deroghe improbabili alla laicità (voto di scambio che si sta realizzando in Belgio e Francia), concesse proprio alle comunità musulmane.

Concussione e minacce

Il caso. Rai-Agcom, gli atti a Roma. Berlusconi resta indagato per concussione e minacce. Il fascicolo si basa sugli atti inviati da Trani. L'inchiesta riguarda le presunte pressioni per bloccare "Annozero"

ROMA
- Silvio Berlusconi indagato a Roma. Il nome del presidente del Consiglio è stato iscritto nel registro degli indagati della procura della Capitale nell'ambito dell'inchiesta sulle presunte pressioni che sarebbero state esercitate per sospendere il programma «Annozero». Un «atto dovuto», spiegano a Piazzale Clodio, dopo il trasferimento degli atti da Trani. I magistrati hanno però deciso di mantenere le stesse ipotesi di reato formulate dai colleghi pugliesi: minacce e concussione.

GLI ATTI - L'iscrizione di Berlusconi è stata decisa al termine di una riunione cui hanno preso parte, oltre al procuratore Giovanni Ferrara, anche l'aggiunto Alberto Caperna, neocoordinatore del gruppo che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione, e i pm Caterina Caputo e Roberto Felici. I magistrati, alla luce di una prima lettura delle carte provenienti dalla procura di Trani, hanno ritenuto di mantenere quei reati originariamente attribuiti al presidente del Consiglio, senza derubricarli al meno grave «abuso d'ufficio». Adesso scattano i quindici giorni, previsti dalla legge, entro cui i pm della capitale, omessa ogni indagine, dovranno sollecitare al Tribunale dei ministri una richiesta di archiviazione o di attività istruttoria. Circa un migliaio le carte che gli inquirenti dovranno consultare, a cominciare dal contenuto delle intercettazioni telefoniche.

mercoledì 24 marzo 2010

Dietro ai bambini

Bimbi a pane e acqua, il sindaco: sono le regole

Vicenza
- Pane, amor e rette: del primo c’è abbondanza, del secondo per alcuni solo qualche briciola, delle terze non vi è traccia. Scoppia in questo strano triangolo il caso della scuola elementare Manzoni e della materna Piaget di Montecchio Maggiore dove ieri a otto bambini, sei stranieri e due italiani, le cui famiglie non hanno pagato il servizio mensa, invece della pastasciutta sono stati serviti panini imbottiti.

Scoppia la bufera. I bambini a pane e acqua, come li hanno chiamati - ma l’acqua è la stessa bevanda servita con la pasta - sono così finiti in prima pagina in una bufera che, secondo il sindaco leghista di Montecchio Maggiore Milena Cecchetto, che guida una giunta Carroccio-Pdl, sa molto di battaglia elettorale e di burocrazia esasperata, ma non certo di sgarbo ai minori. La questione è in fondo semplice: la controversia va avanti da mesi, da quando la nuova giunta scopre che ammontano a 150mila euro le rette arretrate, in qualche caso fin dal 2002, di qualche decina di famiglie italiane e straniere per la mensa scolastica. "Non avevano mai neppure iscritto i loro figli al servizio di refezione", puntualizza l’assessore all’istruzione e ai Servizi Sociali, Barbara Venturi.

La scadenza del versamento. Il Comune allora fa affiggere manifesti in varie lingue all’interno delle scuole con la scadenza per il versamento: entro il 15 marzo. L’ultimatum viene comunicato anche con una raccomandata a mano consegnata dai vigili urbani. Risultato: la stramaggioranza dei 261 insolventi che ancora restavano a febbraio pagano, tranne alcune famiglie. L’amministrazione così chiude le cucine per quel piccolo gruppo di pargoli i cui genitori non hanno versato il dovuto senza avvisare nè chiedere sostegno. Da qui la tensione: "Trovo dispregiativo dare solo un pezzo di pane - commenta la preside Anna Maria Lucantoni -. Se lo avessimo immaginato avremmo fatto una raccolta di fondi". "Non è giusto non pagare le rette - ribatte Venturi - per rispetto di chi ha problemi economici e le versa".

La solidarietà. I bambini quasi a digiuno una prima diretta solidarietà l’hanno ottenuta degli stessi compagni di classe che hanno diviso il pasto con loro: pasta alla zucca, hamburger, insalata e frutta. E se l’ex sindaco ora all’opposizione Maurizio Scalabrin definisce "semplicemente volgare" la gestione comunale della vicenda, l’attuale primo cittadino Cecchetto replica che "le regole sono regole per tutti e vanno rispettate. Il mondo non deve essere dei furbi. A queste famiglie non abbiamo chiesto di pagare il debito, ma semplicemente di riconsegnare compilato il modulo di iscrizione alla mensa, soprattutto per un problema organizzativo".

La replica del sindaco. Il primo cittadino precisa che le famiglie erano state avvisate in anticipo della "riduzione del pasto" in caso di mancata consegna del modulo e che ne erano al corrente anche la preside e le maestre della scuola. "Bastava che ci rispondessero sì o no, il recupero del saldo è un passo successivo. Se i genitori di questi bambini non fanno i 'furbi' ma sono davvero indigenti il Comune se ne farà carico - assicura Cecchetto - A Montecchio aiutiamo già 80 famiglie in difficoltà pagando per loro la retta, per un totale di 32 mila euro all’anno". L’amministrazione comunale e la scuola mantengono il riserbo sui nomi delle famiglie coinvolte ma non possono evitare la tempesta di reazioni che la vicenda scatena in Italia tanto da costringere anche il sindaco di Vicenza, qualche decina di chilometri più a est, e chiamato in causa solo per continguità provinciale, a emanare in fretta e furia un comunicato stampa per avvertire che il protagonista è ben altro Comune. Montecchio in serata ha invece ricevuto, certo inatteso, un ’assist dall’assessore di centrosinistra all’Istruzione del Comune di Padova Claudio Piron secondo il quale "bisogna distinguere il diritto alla formazione dai servizi a domanda individuale".

L'italia xenofoba e razzista

Offerte di aiuto da tutta italia. Troppo poveri per seppellire la loro bimba. «Costretti a lasciarla in ospedale»

CASSINO (Frosinone) - «Non possiamo pagare il funerale»,
hanno detto. Le hanno dato un ultimo bacio e l'hanno lasciata lì, in una fredda camera mortuaria, affidata ai medici che forse avrebbero potuto occuparsi di quel corpicino senza vita. Perché loro proprio non sapevano come fare a trovare i soldi per seppellire la loro piccola. È una storia di povertà e solitudine quella di giovani due ragazzi romeni che all'ospedale Civile di Cassino (Frosinone) sono diventati genitori di una bimba nata morta. Loro che aspettavano con gioia l'arrivo della piccola, anche se per loro avrebbe significato una vita ancora più difficile.

LA MORTE - Venti anni lui, 18 lei, arrivano al pronto soccorso dell'ospedale il 21 marzo. La ragazza sofferente per le doglie, lui con lei, preoccupato ma raggiante per l'arrivo della loro prima bambina, attesa per nove mesi. Mai avrebbero immaginato un epilogo così triste. Durante il parto i medici si accorgono che il feto è in sofferenza, non c'è più battito, la gioia si trasforma in paura. E poi tremenda certezza: la bimba arriva nel mondo il primo giorno di primavera, ma è senza vita. Il referto dice: «Feto premorto».

IN ATTESA DI SEPOLTURA - Ma la triste storia non finisce così. I giovani genitori piangono. Quando i medici dell'ospedale consegnano loro il corpo della piccola, spiegano tra le lacrime in uno stentato italiano che non possono tenerlo, che non sanno come fare, ma loro proprio non possono pagare il funerale, né portare la bimba in alcun posto, magari nella loro terra d'origine, in Romania, «non abbiamo soldi». E le danno l'addio. La salma della piccola resta nell'obitorio dell'ospedale di Cassino. La giovane mamma invece esce, via con il marito, ospite di alcuni amici. «Ma io li ho chiamati al telefono per dirgli che possono venire qui dalla piccolina quando vogliono - dice il funzionario della camera mortuaria -, loro non l'hanno abbandonata, ci hanno solo detto che non potevano permettersi una sepoltura facendo la dichiarazione di indigenza».

SOLIDARIETA' - Ma subito, appena si diffonde la notizia, scatta la solidarietà. Telefonate all'ospedale da tutta Italia e anche al Corriere della Sera e decine di messaggi al sito del Corriere: in molti si offrono di pagare le spese della sepoltura della bimba. E il sindaco di Cassino Bruno Vincenzo Scittarelli annuncia: sarà il Comune a occuparsi della piccola salma insieme con la Croce Rossa locale. «È tutto risolto - spiega -, appena ho saputo quello che era successo ho subito dato la disponibilità del Comune a pagare tutte le spese e la piccola verrà sepolta qui, nel cimitero di Cassino». Ma, aggiunge Scittarelli, «di casi come questi ce ne sono molti purtroppo, non è il primo. Però appena si può intervenire lo facciamo». Nella cittadina ciociara la comunità romena è piuttosto nutrita, spiega il sindaco.

L'ADDIO - La sepoltura dovrebbe tenersi domani in mattinata. E Aurora Angrisani, commissaria della sezione femminile della Croce Rossa di Cassino, si è presa a cuore il caso di questa giovane coppia di genitori. E per la piccola ha comprato una tutina, perché «non aveva neanche quella, poverina». E racconta: «I due ragazzi sono molto impauriti, non hanno niente e sono sotto choc, hanno bisogno di aiuto ma non vogliono riflettori, si aggiungerebbe tragedia alla tragedia».

PER AIUTARE LA COPPIA - E viste le numerosissime offerte di aiuto, la Croce Rossa ha istituito una sottoscrizione per aiutare la coppia. Si può fare un versamento al conto corrente postale nr. 50554781 intestato a Croce Rossa Italiana Comitato locale Cassino, causale «Aiuto famiglia bimba morta il 21 marzo presso Ospedale Civile di Cassino (Frosinone)». Per informazioni si può contattare anche il Comitato Locale della Croce Rossa di Cassino, Via Luca Giordano, 5 03043 Cassino (Frosinone), tel.0776/310180, cl.cassino@cri.it, e su Facebook.

Claudia Voltattorni

Ipocrisie sinistre...

Il capolavoro di ipocrisia della sinistra a un passo dalle elezioni di Francesco Forte

Il doppiopesismo è sempre stato una prerogativa delle sinistre di derivazione comunista o simpatizzanti del comunismo, come le catto-comuniste. Ora esso pervade tutta la sinistra ex post comunista ed ex post cattocomunista come una malattia senile ed è penetrato nell’intimo dell’Italia dei valori e anche dei radicali, che sembra abbiano perso il loro spirito critico. Un grottesco esempio di doppiopesismo è costituito dalla ostinazione con cui la sinistra, ma anche i grandi giornali si sono dedicati a spiegare che data la capienza di Piazza San Giovanni a Roma, i manifestanti per il Pdl non potevano essere più di 250 mila e non potevano raggiungere il milione o tanto meno superarlo, come aveva affermato Denis Verdini. Per anni la Cgil e altri movimenti di sinistra hanno dichiarato che i loro raduni a piazza San Giovanni erano stati un grande successo perché c’erano un milione di persone. Solo adesso si scopre l’aritmetica delle 3 persone per metro quadro che porta a limitare il numero a 250 mila. Il Ministro Maroni si è dedicato sostenere che le forze dell’ordine non si sbagliano mai in questa contabilità e chi la mette in dubbio sbaglia gravemente. Ma temo che si sbagli lui. Infatti, se si assume che in un metro quadro ci stanno 4 persone, cosa possibile, la cifra aumenta di un terzo a 330 mila e non credo che i delegati della Questura siano capaci di contare le persone una per una. D’altra parte il termine “Piazza San Giovanni” è ambiguo come indicazione di un luogo di raduno perché, ovviamente, i partecipanti di una manifestazione possono anche sostare nei luoghi immediatamente adiacenti e una parte di loro potrebbe essere alle finestre e alle porte delle case. Inoltre, una parte potrebbe andarsene dopo un po’ per essere poi sostituita da altri. Insomma, il numero oscilla, anche se sempre su cifre diverse dal milione. E sarebbe stato meglio che invece che fissare la cifra a 250 mila, si fosse ammesso che c’erano moltissime persone e che la cifra oscillava da 250 mila in su, fermo restando che essa riguarda lo specifico raduno di piazza San Giovanni e per il resto delle manifestazioni non si è in grado di confermare né di smentire. Il punto è che quando un raduno di massa è di sinistra si tratta di una “folla oceanica”, quando è di “borghesi” del centro destra, ciò non può essere. Salvo che si tratti della Lega Nord, in quanto “popolana”. Il cliché è che “i benpensanti sono pavidi e pigri, fisicamente inadatti alle manifestazioni di piazza. E sarebbe bene che si prendesse atto che non è così. Come aveva previsto Leo Longanesi “spesso ci hanno salvato le vecchie zie” emblema della gente che non è capace di andare nei raduni e di sfilare nei cortei, con gli striscioni e gli slogan. Ma questo non è l’esempio di doppio pessimo degli ultimissimi giorni maggiormente degno di nota. Ce ne sono altri due assai più rilevanti. Un primo capolavoro di ipocrisia è quello della giunta di centro sinistra della Regione Lazio. Alla lista Sgarbi aderente al Pdl, che è stata riammessa tardivamente alle elezioni regionali, la regione Lazio non ha concesso il rinvio delle elezioni per consentirle un periodo di propaganda elettorale non inferiore a quello stabilito dalla legge elettorale regionale. La giunta regionale del Lazio ha ritenuto che, al riguardo, si debba applicare il decreto statale che ha stabilito, con interpretazione autentica, nuovi principi generali per la presentazione delle liste alle elezioni meno esigenti di quelli di cui alla corrente interpretazione ha ridotto i tempi minori per la propaganda elettorale onde evitare che questa interpretazione autentica generasse un rinvio delle elezioni. Ma la stessa Regione Lazio aveva ricorso contro il decreto del governo, sostenendone l'incostituzionalità, perché in contrasto con la legge regionale che aveva regolato questa materia, sulla base dei nuovi poteri legislativi concessi alle Regioni dalle modiche federaliste alla Costituzione. Dichiarando che il decreto governativo è inapplicabile, si è escluso il Pdl dalla competizione elettorale, ora dichiarando che esso è ampliabile, si preclude ad una lista collegata a quella del Pdl di poter disporre di un periodo di propaganda elettorale pari a quello degli altri partiti. La sinistra ha fatto una massiccia manifestazione per la legalità, contro Berlusconi e il Pdl sostenendo che “le regole vanno rispettate” e che il decreto del governo che pretendeva di cambiarle per sanare una loro violazione, da parte del partito di maggioranza era immorale oltreché illegittimo. Adesso questo decreto va applicato: ma non era immorale e incostituzionale? C’è un terzo, più grave caso di doppiopesismo. Quello del processo di Bari contro vari esponenti del Pd e in particolare a carico dell’ex vice presidente della Regione Puglia. Sandro Frisullo, molto vicino al Presidente Nichi Vendola e a Massimo D’Alema. Entrambi non hanno esitato a spiegare che in questo caso la questione morale non si pone, perché loro hanno preso le distanze da Frisullo appena si è elevato un sospetto processale su di lui. Ciò che viene addebitato a Frisullo, per altro, non è un fatto occasionale, di cui è difficile accorgersi, ma un'attività continuativa. Con un rapporto stretto con l’imprenditore sanitario Giampaolo Tarantini, personaggio locale molto noto, che ha avuto un rilevante flusso di forniture farmaceutiche e ospedaliere in Asl della Puglia in particolare quella di Lecce, il cui direttore amministrativo, Vincenzo Valente, è stato arrestato, mentre sono stati mandati agli arresti domiciliari il primario del reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Lecce, Antonio Montinaro, e Roberto Andrioli, dirigente dell’area patrimonio di tale Asl. Ciò sulla base delle dichiarazioni del Tarantini ma anche di numerose intercettazioni telefoniche, come quella in cui Tarantini dice a Frisullo “voglio fare il business su Lecce”. Affari che sono andati in porto negli anni 2007 e 2008. Frisullo ha ricevuto favori di natura sessuale da parte di belle “escort” al servizio di Tarantini, l’uso di autovettura e autista, buoni benzina gratuiti, capi di abbigliamento gratuiti e servizi di pulizia settimanale nella propria abitazione. Inoltre secondo l’accusa avrebbe ricevuto anche denaro, con una retribuzione di 12 mila euro al mese più altri centomila a forfait, ma la percezione di denaro non è provata, a differenza delle altre. Ci sono anche forniture alla Asl di Bari guidata all’epoca da Lea Cosentino, oggi agli arresti domiciliari per falso e peculato. Tutti in attesa di processo e presunti innocenti, dunque. Ma qui troviamo varie ipocrisie e incongruenze doppiopesiste. “Penso che la politica debba sempre assumere un atteggiamento di assoluto rispetto nei confronti di chi ha il compito delicato e cruciale di accertare e perseguire i reati. Bisogna sempre rispettare il lavoro della magistratura, a Bari come a Trani”, ha detto il presidente della giunta regionale pugliese Vendola, ricandidato alla Regione. Lui non ha mai dubitato di Frisullo ma al minimo indizio di un processo contro di lui lo ha scaricato. Ha chiesto le sue dimissioni e le ha ottenute immediatamente. Ovviamente, dimettersi in questi casi è essenziale, si vuole sperare di non essere detenuti in carcere, in quanto le dimissioni permettono di dire che l’imputato non può più inquinare le prove. Ma, per quanto riguarda Vendola, i casi sono due: o Vendola aveva già dei sospetti e, pertanto, ha voluto subito le dimissioni senza fare domande e indagini per capire che cosa fosse realmente successo e, data la sequela di arresti, se ci fosse qualche cosa d’altro di marcio, oppure Vendola è un amministratore incapace e arrogante. Infatti non ha minimamente tentato di spiegare perché fossero potute accadere quelle irregolarità e quali misure aveva pensato di prendere. Si è comportato come se la faccenda non fosse avvenuta nella Regione da lui amministrata, proprio nella sanità, che era il suo cavallo di battaglia e il suo vanto. Ha solo detto che la giustizia deve fare il suo corso. Ma lui non pensa di avere avuto delle responsabilità, quanto meno, nella scelta di collaboratori che appaiono assai poco corretti? E che dire della giustificazione per cui Frisullo non avrebbe mai avuto compensi in denaro? Come si fa ad affermare che i regali non contano, in quanto espressione di amicizia e cameratismo? Anche D’Alema ha separato le sue responsabilità da Frisullo, affermando di averne chiesto le dimissioni “per tempo”. Ma come? Si tratta di una persona che ha militato nel Pci e poi nei successivi partiti in cui è passato D’Alema, stando sempre al suo fianco. Gli eventi per cui è sotto processo hanno avuto luogo negli anni passati e solo questa estate, quando è emerso un processo a suo carico, Frisullo è stato dimissionato. D’Alema non ha minimamente spiegato perché si sia fidato di Frisullo per tanto tempo. E, guarda caso, mentre ciò avviene, accade anche che Michele Marazzano, segretario regionale del Pd pugliese candidato alle regionali, è stato incriminato per le faccende sanitarie. Lui si è dimesso adesso, sostenendo di essere innocente ma di voler evitare contaminazioni a carico del suo partito in Puglia. Non sembra che sia mai passato per la testa di poter essere processato prima delle elezioni. Lui non sapeva nulla perché è innocente. E nulla sapevano Vendola e D'Alema. Pertanto il Pd pugliese si sente del tutto estraneo a questa vicenda. A suo tempo invece, si è sostenuto che Craxi non poteva non sapere. I processi per corruzione a carico degli alti esponenti del Pd della Puglia non riguardano il partito, quelli a carico di dirigenti del Psi, di cui numerosi sono finiti con l’assoluzione, sono serviti per sostenere, come verità storica, che il Partito socialista italiano era un partito intrinsecamente corrotto. Ora si chiede che Frisullo venga scarcerato perché ha il diabete e in carcere non è in grado di curarsi adeguatamente. Mi auguro che sia mandato agli arresti domiciliari o sia posto in libertà in attesa di giudizio, se le sue condizioni di salute lo consigliano. Il carcere non deve tramutarsi in sentenza di danno alla salute e alla vita. Ma a Craxi, gravemente ammalato di diabete, fu negato di avere un intervento chirurgico in Italia, in un ospedale adeguatamente attrezzato. Non ricordo che coloro che ora chiedono che Frisullo possa curarsi dal diabete adeguatamente abbiano allora chiesto che Bettino Craxi potesse essere operato in Italia per evitarne la morte.

Sull'Obamacare...

L’Obamacare, o dello statalismo demagogico di Oscar Giannino

Sarò brutale. L’entusiasmo dei media più ancora che della sinistra italiana per l’Obamacare mostra due cose. Non conoscono la riforma, o fanno finta di non conoscerla. Brindano solo alla politica padrona. Che quasi nessuno da noi abbia letto le 2.800 pagine dell’Obamacare, è evidente. Altrimenti perché esultano, di una riforma che esclude gli immigrati clandestini da ogni copertura? In Italia darebbero dei fascio-razzisti a chiunque pensasse la stessa cosa. Che cosa c’è di “sinistra”, in una riforma il cui fine è salvare il buco – sei volte il Pil americano, si stima – delle assicurazioni private americane, che però restano private ma con tariffe e prestazioni decise dalla politica e ripiani del debito a carico di imprese e contribuenti? In Italia verrebbe accusato di essere un lacchè degli assicuratori, chiunque proponesse una cosa simile. E se Tremonti avesse proposto in parlamento una riforma sanitaria il cui costo dichiarato netto è di 800 miliardi – 960 netti in un decennio meno i 150 che per Obama verranno risparmiato in Medicare – ma alla cui copertura si inizierà a pensare solo dal 2018 – così Obama potrà ricandidarsi nel 2012 e lasciare magari dopo ancora a un altro democratico, prima che i contribuenti se ne rendano conto – che cosa avrebbero detto, i direttori di giornali che tanto esultano per Obama? Che cosa avrebbero fatto scrivere, se l’ufficio analisi di bilancio del Parlamento avesse messo nero su bianco che le stime di copertura da parte del Tremonti-Obama sono del tutto inattendibili, visto che nel primo decennio potrebbero aggiungersi in realtà non meno di 600 miliardi agli 800 preventivati dal governo? Eppure è questa, la riforma Obama. 1400 miliardi di costo sono il 10% del Pil americano, e si aggiungono al 17% della sanità che resta privata nella forma ma sotto il tallone di prezzi politici e tasse per imprese e cittadini. E’ questo il motivo dell’entusiasmo. I media hanno capito solo che Obama statalizza un altro sesto dell’America dopo il quinto che Obama aveva già nazionalizzato tra auto e banche. E questo basta a stappare champagne. Vedremo gli americani, se la penseranno allo stesso modo. Tralascio poi che cosa avverrebbe in Italia, se i pubblici ministeri avessero intercettato i serrati confronti telefonici degli ultimi giorni prima del voto risicato alla Camera dei Rappresentanti. Come farebbero, Nancy Pelosi e Obama in persona, ad evitare immediati avvisi di garanzia per corruzione, visto che il voto viene “comprato” in cambio di concessioni per ogni circoscrizione elettorale del parlamentare il cui voto serve a tutti i costi? La retorica è parte indissolubile della politica. Ma raramente si assistite a tanta retorica diffusa in Italia e in tutta Europa per l’Obamacare. Viene avvicinata all’approvazione del Civil Rights Act antisegregazionista del 1964, addirittura alla Costituzione scritta dai Padri Fondatori, nell’abile enfasi di cui il presidente Obama e i capi del Partito Democratico hanno saputo circondare il voto a strettissimo margine con cui la legge è passata, malgrado la defezione di una quarantina di congressmen democratici. Ma che cosa prevede davvero, la riforma? In realtà la sanità americana la conoscono in pochi, qui in Italia e Europa. Se immaginate una svolta epocale perché gli States si danno una sanità universale gestita dal pubblico e solo integrata dal privato, come da noi e in generale in Europa, e anche in Gran Bretagna dal 1946, sbagliate di grosso. Altrettanto sbagliate se pensate che in America, se bisognosi di cure d’urgenza, possano sbattervi fuori da un ospedale invece che curarvi, come vi raccontano molti ignoranti politici europei. Non è affatto così. La riforma americana non cambia la Costituzione – che non prevede la sanità come dovere dello Stato. Continua a postulare che a farsi carico della propria salute siano gli individui, e che debbano essere i privati a farsi carico di equilibrare finanziamento del sistema e costo delle prestazioni. Ma la riforma compromette entrambi i cardini. Rinuncia al presupposto che gli individui siano buoni giudici di se stessi, e aggiunge che il mercato non è in grado di risolvere il problema delle coperture ai costi. Per questo, si affermano due nuovi princìpi. Il primo è che tutti sono obbligati a un’assicurazione sanitaria. Il secondo è che i premi assicurativi incassati dalle compagnie che restano private e i prezzi delle prestazioni del servizio sanitario vengono decisi dalla politica, e sussidiati dallo Stato cioè dalle tasse. L’obiettivo è di recuperare oltre 20 milioni di cittadini degli oltre 30 attualmente non coperti da assicurazione, “obbligandoli” a sottoscrivere una polizza e minacciando loro multe fino al 2% del reddito. Gli anziani e i giovani di famiglie povere sono già coperti, da Medicaid e Medicare, i due programmi pubblici voluti da Johnson nel 1964, allora però votati in maniera bipartisan perché non nazionalizzavano la sanità, ma la offrivano solo ai soggetti deboli. Ciò che in Europa non si comprende è che buona parte dei 30 milioni di americani oggi non coperti sono cittadini delle classi tra i 20 e i 40 anni che ricadono tra oltre il 40% di americani che – beati loro – non versano un cent di tasse federali, e che con questa riforma saranno invece “obbligati” a spendere di più loro malgrado. Chi sono i grandi beneficiari del provvedimento? Le compagnie di assicurazione, i cui titoli negli ultimi mesi sono infatti saliti del 30%. L’intera riforma affida alla politica i numeri e la garanzia su un settore che pesa per il 17% del Pil americano, un sesto dell’intera economia nazionale. Le compagnie private erano minacciate da una sostanziale bancarotta di fatto, per via che le sole promesse di spesa attuali – preriforma – di Medicare erano avviate a 86 trilioni di dollari, cioè sei volte il pil americano. Perciò le assicurazioni hanno trattato con Obama ogni singola pagina delle 2.800 della riforma. E’ vero, d’ora in poi non potranno più procedere ad aumenti dei premi superiori a un tot annuo e non potranno più rifiutare la copertura a chi contrae patologie gravi. Ma in cambio si vedono garantiti decine di milioni di clienti obbligatori aggiuntivi, e le loro casse beneficeranno del contributo obbligatorio delle medie e grandi imprese e della tassa aggiuntiva che la riforma introduce a carico delle piccole. Anche l’industria farmaceutica nazionale è stata convinta a spese del contribuente, escludendo la possibilità di reimportazione di farmaci più economici ed equivalenti ma prodotti all’estero. E’ un megasalvataggio pubblico del settore che resta privato. A che costo? E’ il CBO, l’Ufficio del budget del Congresso USA, indipendente dall’Amministrazione come dalla maggioranza parlamentare, a smontare le cifre di Obama secondo le quali la riforma costerebbe circa 950 miliardi di dollari in 10 anni, ma facendo risparmiare circa 150 miliardi nello stesso lasso di tempo al programma Medicare – in altre parole, traslando copertura pubblica dagli anziani oggi coperti ai giovani che non lo sono. Il CBO ricorda che ogni previsione pubblica ai tempi di Johnson, quando la garanzia pubblica era limitata ad anziani e giovani poveri, si è rivelata lontana dalla realtà di almeno il 500%. Il CBO stima che i 150 miliardi di risparmi da Medicare non ci saranno, e che la riforma potrebbe costare nel primo decennio circa 600 miliardi di dollari più degli 800 indicati da Obama. Al 17% del Pil Usa che oggi se ne va annualmente in sanità, potrebbe aggiungersi dunque un altro 10% spalmato in un decennio, e via a crescere per il futuro. Per ogni americano che diffida delle molte tasse che dovrà pagare in futuro per un debito pubblico in crescita verso il 100% del Pil, un riforma così onerosa che salvare le assicurazioni private affidando tutto ai politici induce a una diffidenza molto diversa, dall’entusiasmo suscitato agli statalisti europei, di destra e di sinistra. Ma Obama si è precostituito un furbo vantaggio. Alla sua rielezione, nel 2012 quando la riforma inizierà a entrare in vigore con kle maggiori coperture, gli effetti contabili non saranno evidenti. Non lo saranno se nonparzialmente neanche quattro anni dopo. quando magari Obama intende lasciare a un altro democratico la Casa Bianca, perché le tasse e i cotnributi obbligatori aggiuntivi entrano in vigore dalò 2014, ma i ripiani pubblici dei costi delle prescfrizioni farmaceutiche scattano solo dal 2018. Ricadranno sui successori, e sui contribuenti a venire. Un lento passaggio alla politica padrone, con privati al laccio dei suoi capipartito. E’ più coerente allora la sanità pubblica all’europea cioè gestita direttamente dallo Stato e solo integrata da privati, se deve comunque comandare la politica. L’Obamacare è un vero attacco di fondo all’America che ci piace. Per questo la sinistra democratica alla Pelosi è così fanaticamente favorevole. Che orrore. Fossimo americani, saremmo nelle piazze anche noi.

Le distanze inconciliabili

Pronto il nuovo testo della legge. "Sulla cittadinanza tra Fini e il Pdl ci sono distanze inconciliabili" Intervista a Isabella Bertolini di Lucia Bigozzi

Cittadinanza veloce anche per i bambini stranieri nati in Italia. Gianfranco Fini da giorni è tornato a battere il tasto su uno dei temi che considera prioritari nell’agenda politica della maggioranza. E sul quale, dopo il voto, è pronto ad aprire nel Pdl un capitolo di quel “chiarimento” che ormai tutti – aennini e forzisti - ritengono necessario. Da Milano il presidente della Camera dice che se non fosse per le coppie di immigrati, il tasso di natalità dell’Italia sarebbe “da allarme rosso”. Un percorso sulla cittadinanza è necessario, si può discutere sui sette, dieci o i dodici anni ma non lo si può fare per i bambini, è il ragionamento di Fini, per il quale non è possibile “negare ai dei ragazzi che si sentono orgogliosamente italiani di avere la cittadinanza” perché “il concetto di patria oggi va pensato in una logica multiculturale e multietnica”. “Distanze inconciliabili” con la maggioranza del Pdl risponde da Roma Isabella Bertolini che in commissione Affari Costituzionali da mesi lavora al tema cercando una mediazione (poi non riuscita) tra le quindici proposte di legge depositate (da maggioranza e opposizione) e che tra qualche settimana porterà in discussione un testo del quale è relatore che fissa un percorso molto netto per arrivare alla cittadinanza “che non è un bancomat, nè un escamotage per i ricongiungimenti familiari o per ottenere il permesso di soggiorno”. La questione dei minori, invece, resta ancora aperta.

Onorevole Bertolini perché parla di “posizioni inconciliabili” con Fini? Credo che quella di Fini sia una grande forzatura. La maggioranza del Pdl e la Lega hanno posizioni molti distanti dalla sua e da ciò che vorrebbe la sinistra. In realtà, questa idea di dare la cittadinanza a chi nasce qui e ai bambini che in Italia arrivano piccolissimi apre dei rischi.

In che senso? La nostra idea di legge si fonda sulla cittadinanza di qualità. La cittadinanza non è un fatto automatico, ma un atto di volontà e, soprattutto, arriva al termine di un percorso di integrazione che va verificato. Non può essere il punto di partenza come invece sostengono Fini e la sinistra. Per questo, abbiamo deciso di non ridurre il numero degli anni previsti dall’attuale legge per ottenere lo status, cioè dieci, ma di renderli certi. Se dovesse passare una legge che estende a una platea molto vasta l’accesso al riconoscimento, noi avremmo effetti considerevoli perfino sul nostro tessuto socio-economico.

Ad esempio? In base alla norma attuale, un minore che diventa cittadino italiano ha il diritto a ricongiungersi con la sua famiglia, cioè padre, madre, fratelli anche minorenni che possono raggiungerlo in Italia. Da una stima elaborata dal Viminale, si calcola che nel nostro paese potrebbero arrivare in un lasso di tempo abbastanza ristretto un milione e mezzo di persone in più. Credo che su questo si imponga una riflessione molto seria.

Eppure gli immigrati che vivono regolarmente in Italia contribuiscono anche a colmare il deficit di natalità che l’Italia sconta da anni. E Fini su questo aspetto ha lanciato l’allarme. Penso sia importante anzitutto attuare politiche di sostegno per le famglie italiane in modo da invertire questa tendenza demografica e lo si deve fare, ad esempio, con il quoziente familiare e altre misure ad hoc sulle quali il governo sta lavorando. La Francia lo ha già fatto e ha ottenuto risultati importanti.

Secondo lei in che modo si fa una buona integrazione? Avviene attraverso altri percorsi: la convivenza civile, il dimostrare di amare l’Italia, imparare la nostra lingua, inserirsi nel tessuto sociale, rispettare regole e leggi. Peraltro, è dimostrato che il 69 per cento degli stranieri che sono in Italia non sono interessati a restare e a chiedere la cittadinanza. Oggi, esiste un’immigrazione a rotazione per la quale gli stranieri dopo un periodo di tempo decidono di trasferirsi in un altro paese occidentale oppure di tornare nel loro paese. Di fronte a questo, trovo paradossale introdurre un meccanismo pressoché automatico di concessione della cittadinanza per il solo fatto di essere nato in Italia, quando magari i genitori di quello stesso minore non sono interessati ad ottenere il riconoscimento. Ma c'è un altro aspetto che vorrei sottolineare...

Cioè? Se la cittadinanza è un atto di volontà, cioè la scelta di appartenenza a una nuova nazione e se la cittadinanza deve essere di qualità, come possiamo imporla a un minore? Trovo inaccettabile l’idea della sinistra ma anche dei finiani che dicono che il minore che ottiene lo status se poi al compimento del diciottesimo anno non lo vuole, può rinunciarvi. Ma che ragionamento è? La cittadinanza non è un bancomat che si dà e poi si restituisce. Noi, invece, intendiamo il percorso esattamente nella direzione opposta.

Lo spieghi. Un minore nasce in Italia, cresce, studia, si integra e al diciottesimo anno sceglie o meno di chiedere la cittadinanza.

Sì, ma come intendete affrontare questa parte della norma? Il problema delle seconde o terze generazioni esiste anche in Italia. Siamo contrari allo ius soli che i finiani vorrebbero introdurre. Dopo la discussione in Aula abbiamo deciso di rinviare il testo in Commissione per una serie di approfondimenti compresa la questione dei minori e delle seconde o terze generazioni. Credo sia importante attivare una serie di audizioni per comprendere anche le posizioni delle associazioni che operano in questo campo. Al momento, esiste una proposta alla quale ho lavorato e su cui si è iniziato a ragionare.

Quale? L’obbligatorietà del percorso di studi che deve essere certificato qualitativamente anche attraverso il profitto. Al termine di questo iter e al compimento del sedicesimo anno di età, si potrebbe pensare alla possibilità per i giovani che lo decideranno e che avranno le carte in regola, di presentare la domanda di cittadinanza e solo al compimento del diciottesimo anno e con le verifiche del caso, potranno ottenerla. Non capisco Fini quando dice che se il bambino nato in Italia che va all’asilo e parla italiano non ha la cittadinanza, potrebbe sentirsi discriminato. Qui stiamo parlando di un percorso culturale di integrazione; non è dando la cittadinanza a un bambino nato qui che lo si rende automaticamente italiano. Ricordo le esperienze di paesi come l’Inghilterra, la Germania, la Spagna e la Francia che hanno già sperimentato percorsi analoghi dai quali però sono tornati indietro rendendo le loro leggi più severe.

E la Lega su questo come la pensa? Sul tema della cittadinanza ci siamo sempre trovati in sintonia e abbiamo lavorato con grande serenità in commissione, al punto che la Lega ha trovato una convergenza sostanziale sul nostro testo. Anche su questo aspetto specifico penso che i parlamentari leghisti siano disposti a discutere.

C’è poi il capitolo del voto agli immigrati che il presidente Fini proprio in questi giorni ha rilanciato come uno dei passaggi-chiave rispetto alle sfide future da affrontare. Cosa risponde? Sono stata relatore della legge sul voto agli immigrati e sono nettamente contraria. La maggiorparte dei costituzionalisti che in questi anni sono stati sentiti in commissione dicono che il tema è strettamente correlato a quello della cittadinanza anche se chi lo propone dice di no. Eppoi, che senso ha votare per il sindaco della mia città e non poterlo fare per il parlamentare della circoscrizione dove vivo? Anche qui mi pare che Fini stia facendo una grande forzatura, oltretutto creando una sorta di discriminazione verso l’immigrato che può partecipare a un tipo di elezione ma non ad un’altra. E ancora: le regionali sono elezioni politiche o amministrative? E chi lo stabilisce? Mi sembra che tutte queste idee si prestino a strumentalizzazioni e a forme di demagogia che non corrispondono alla realtà delle cose.

Per Fini il concetto di patria "oggi va pensato in una logica multiculturale e multietnica". Distanze inconciliabili anche su questo? Non sono favorevole a una società dove ogni cultura ed etnia pari sono. Dobbiamo imparare a convivere e favorire una corretta integrazione rispetto a chi vuole veramente integrarsi, ma dobbiamo anche rafforzare la nostra identità culturale, le nostre tradizioni, la nostra storia. Francamente, il meticciato culturale non mi piace.

Cosa accadrà quando il testo arriverà in Aula? Mi auguro che gli approfondimenti che faremo in commissione servano a dissipare le divergenze e a far emergere i rischi che occorre evitare. Poi, come sempre avviene in democrazia, a prevalere sarà la linea della maggioranza.

martedì 23 marzo 2010

Decreto flussi migratori

Sacconi: "Decreto su flussi migratori è quasi pronto, firma a giorni"

"Il decreto sui flussi migratori relativo a 80.000 ingressi per i lavoratori stagionali in agricoltura è quasi pronto, lo firmeremo a giorni". Lo afferma il ministro del Welfare Maurizio Sacconi a margine dell'assemblea elettiva di Fedagri-Confcooperative. "La distribuzione degli ingressi - aggiunge Sacconi - sarà fatta tenendo conto delle esigenze del settore primario e turistico". "Ci sarà anche una quota più contenuta - conclude Sacconi - nell'ordine di poche migliaia di persone, per gli ingressi non stagionali, per lo più lavoratori autonomi".

No comment. Ma la lega??

Gianfranco Fini e gli immigrati

Immigrati, Fini: "Cittadinanza breve ai bambini"

Roma - Per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, è una "questione di civiltà, capire l’importanza della questione della cittadinanza per i bambini" figli di immigrati. "Come si fa a non capire che aspettare il 18esimo anno d’età per riconoscere la cittadinanza a bambini nati qui o arrivati piccolissimi, significa esporre loro e noi al rischio che si sentano dire: 'Tu sei altro'", ha affermato Fini intervenendo alla presentazione dell’11esimo rapporto sulla famiglia del Cisf, nella sede dell’Edizione Sanpaolo a Milano.

L'appello di Fini. Il rischio, per questi minori, ha avvertito Fini, è quello di essere esposti presto "alla predicazione di qualche cattivo maestro", perché la "scarsa consapevolezza della propria identità" può portare "attrazione verso identità opposte a quella occidentale". "Vogliamo negare loro il diritto di sentirsi orgogliosamente italiani, soltanto perché, nel secolo scorso, vigeva la 'legge del sangue e suolo?'", ha chiesto la terza carica dello Stato con riferimento alla normativa in vigore nel periodo fascista. Per Fini, il riconoscimento della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, o arrivati piccolissimi nel nostro Paese, è particolarmente importante, perché, ha osservato, quelle "creature sono nei nostri asili con i nostri figli, parlano il dialetto, tengono la stessa squadra dei nostri figli".

Islam di pace

Persecuzioni in Pakistan. Non si converte all'islam: un cristiano bruciato vivo

Islamabad - Ancora violenze in Pakistan. E' morto l'autista cristiano di una ricca famiglia della città pakistana di Rawalpindi che venerdì è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani per essersi rifiutato di convertirsi all'islam.

Cristiano arso vivo. Secondo il Pakistan Christian Post, giornale online affiliato a un partito cristiano locale, Arshad Masih, 38, anni aveva subito ustioni sull'80% del corpo e, secondo i medici dell'ospedale Sacra Famiglia dove era ricoverato, aveva poche probabilità di sopravvivere. Sua moglie, Martha Bibi, aveva inoltre detto di essere stata stuprata da alcuni poliziotti della caserma dove era andata per denunciare il caso. La violenza è avvenuta davanti ai tre figli della coppia che hanno un'età fra 7 e 12 anni. La donna lavorava come domestica insieme al marito dal 2005 presso una benestante famiglia musulmana.

Continue persecuzioni. Negli ultimi tempi erano però emersi dissapori a causa della loro fede cristiana e di un sospetto furto avvenuto nella casa. Masih aveva ricevuto pressioni da parte del suo datore di lavoro per abbracciare la religione mussulmana, ma lui si sarebbe rifiutato, secondo quanto riportato da AsiaNews, il sito internet del Pime (Pontificio Istituto Missioni Esteri) che per primo ha dato notizia della brutale aggressione. Negli ultimi tempi si sono ripetuti gli atti di violenza contro la minoranza cristiana pakistana che rappresenta l'1,6% della popolazione. Le organizzazioni cristiane locali si sono mobilitate ieri chiedendo al governo della provincia del Punjab di punire i responsabili dell'omicidio e avviare un'inchiesta sulla violenza sessuale.

Quando dicono che l'islam non è violento e quando dicono che non c'è costrizione nella religione.