venerdì 10 luglio 2009

Velature... ideologiche

Burqa o niqab, il velo che non si squarcia (seconda parte) di Maurizio De Santis

In Francia, dunque, il dibattito ferve attorno all’opportunità di introdurre una legge che temperi l’utilizzo del velo e vieti, tout-court, quello del burqa. Un dibattito che, a volte in modo criptato e, sempre meno sovente, in maniera palese, attraversa l’Europa in lungo ed in largo. In Belgio, per esempio, Mahinur Özdemir, 26 anni, laureata in scienze politiche di chiarissime origini turche, membro del Centro Democratico Umanista (CDH) (ex Partito Cristiano Sociale dei francofoni), è anche la più giovane del Parlamento regionale. Ha prestato giuramento indossando il velo, sottolineando come esso non sia un freno alla propria emancipazione. Il presidente del senato, Armand de Decker, ha subito colto l’inciso, rammentando a chi mugugnava, che il Belgio è si uno Stato neutrale, ma non uno Stato laico. Perché nelle scuole si impartiscono lezioni di cristianesimo, di islam, di ebraismo e di etica laica. Un eccellente “memento”, indirizzato sia ai colleghi che ad una platea elettiva, quella musulmana di Bruxelles, che rappresenta oramai oltre il 30% dell’elettorato. Dunque, prendiamone atto, l’islam dovrebbe finalmente porre fine al tormentone politico confessionale che assillava l’elettorato cristiano. La partecipazione dei praticanti alla politica. Il concetto di laicità, sino ad oggi predicato nel Regno di Baldovino, non è più quello che chiamerebbe la religione fuori da ogni istituzione dello Stato.Ma l’UE offre altri esempi che stimolano una certa riflessione. In Norvegia (dove l’immigrazione massiccia ha già issato la percentuale dei musulmani intorno al 2,5%), la questione del velo (prima) e del burqa (poi), è attualissima. Ai primi di febbraio di quest’anno, per esempio, il governo norvegese ha fatto i conti con la straordinaria capacità che hanno i maghrebini di reclamare i loro diritti (qualche amnesia compare ancora nel rammentare i doveri verso lo Stato democratico). Così, Keltoum Hasnaoui, una giovane donna musulmana norvegese, ventitreenne algerina di seconda generazione, ha indirizzato una petizione al ministero della giustizia, per chiedere operare nelle forze di polizia indossando il proprio hijab. L’esempio portato dalla giovane era riferito alla Gran Bretagna, dove i Sikh possono portare il turbante e le musulmane l’hijab. Il governo ha accettato, in tempo record, di modificare la legge che regolamenta le uniformi della polizia, al fine di potervi includere l’hijab. Una decisione salutata favorevolmente dalla Comunità musulmana scandinava. La stessa comunità che, due settimane dopo (il 20 febbraio), chiedeva che le agenti di polizia musulmane non dovessero essere impegnate nell’arresto o nel controllo di uomini. A farsi portavoce dell’ineffabile lagna, nientemeno che Ahmed Esmaili, direttore del comitato degli imam del Consiglio Islamico della Norvegia (IRN). “Se deve procedere ad un arresto ed è sola o con altre donne, allora può farlo. Ma se è con colleghi maschi che possono farlo, allora non è necessario che lo faccia”. La ragione è che i musulmani non devono avere contatti fisici con gente del sesso opposto, a meno che siano familiari. Insomma, un’assunzione a part-time…. Ma gli episodi controversi nella terra dei fiordi non terminano certo qui. Come non rilevare, in senso opposto, la controversa manifestazione di Sara Azmeh Rasmussen, una lesbica norvegese, ex-musulmana di origini siriane che in occasione della Festa della donna, l’8 marzo 2009, ha pubblicamente bruciato un hidjab. La protesta, manco a dirlo, indirizzata contro l’oppressione che l'islam riserva alle donne. La comunità musulmana, immaginate un po’, ha fatto fumo dalle narici, minacciando di tutto ma, in definitiva, la Rasmussen se l’è cavata con una venale “palloccata” in testa. Passano due mesi ed ecco un episodio altrettanto controverso. La storia accade nella scuola materna Vahl, ad Oslo. La maggior parte degli allievi proviene da famiglie immigrate e, in definitiva, la percentuale degli “autoctoni” supera di poco il 5%. Al confronto, la scuola Pisacane di Roma (quella che il presepe offende i musulmani, e allora mettiamoci i minareti), è un autentico scherzo. Succede però che nel corso preparatorio per indossare l’hijab, venga fatta indebita pressione sulle due sole alunne norvegesi della classe, non musulmane. Che evidentemente, per gli educatori (guarda un po’, musulmani anch’essi), “stonavano” con l’armonia velata della scolaresca. Ed i genitori se le sono viste recapitare a casa proprio così. Con l’Hijab. Ora, fermo restando che questo indumento sarebbe contemplato dopo la comparsa del ciclo mestruale, ci si chiede che fine abbia fatto la conclamata “diversità”, il pomposo “multiculturalismo”. Forse che se la minoranza non è musulmana viene meno questo straordinario strumento di coesistenza? Il quesito, evidentemente, non parrebbe preoccupare i politici norvegesi. Tanto che già dal 2007 il loro Ministero degli Esteri ha messo in rete un video-clip dove si pubblicizza chiaramente il burqa quale “parte dell’identità culturale della Norvegia”. Se lo dicono loro, perché non crederci? D’altronde, proprio nello stesso periodo, il prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, legittima di fatto il burqa, creando un precedente sulla libertà delle donne islamiche di indossare il velo integrale anche nel nostro Paese. E, sempre nel settembre di quel 2007, un monumento della politica italiana, Giuliano Amato, accosta incautamente la figura delle suore (ordine ecclesiastico) a quella delle donne musulmane che indossano il velo (non sempre di propria iniziativa…). Ma se ad Oslo hanno grattacapi, a Goteborg (Svezia) non cantano certo la montanara…. A gennaio, la piscina comunale della città viene condannata per discriminazione verso due donne musulmane dalla Corte di appello svedese. Cos’era successo? Che le due donne, Houda Mourabet ed Hayal Eroglu, si erano recate nella piscina, in momenti diversi del 2004, per accompagnare i loro bambini. Indossando il velo, pantalone lungo e tee-shirts a maniche lunghe, si da nascondere il corpo come prescritto dall’islam. Qualsiasi donna svedese che si fosse presentata così sarebbe stata allontanata, non essendo in grado di assistere il proprio figlio in caso di necessità. Anzi, rischiando di affogare prima, a causa dell’evidente ingombro del vestiario. Ma la Corte di Appello svedese ha rovesciato la sentenza del marzo 2008, stabilendo che il principio religioso deroga al regolamento laico. Evidentemente questa è la strada giusta. Soprattutto se anche i diplomatici occidentali accreditati all’estero ne condividono la ricetta. Come biasimare allora l’ambasciatrice svizzera, Livia Leu Agosti, che lo scorso gennaio, nella cerimonia di presentazione a Teheran, ha indossato il velo dichiarando di volerlo portare comunque per rispettare la cultura del luogo. Una geometria variabile a senso unico…. In tutto questo bailamme di esempi, unica cosa che emerge chiaramente è questa: i massimi assertori del velo (ma non mancano quelli del burqa), in Europa sono gli uomini musulmani e le donne convertite all’islam. A conferma che i neo-convertiti siano sempre i maggiori fanatici. Gli renui oppositori, invece, provengono dalla schiera di donne che hanno avuto gli attributi per poter denunciare quello che non fanno i “multiculturalisti” ed i “dialogisti estremi” (sulla pelle degli altri, però). Lascia interdetti che uno dei maggiori baluardi contro l’oppressione della donna in Francia sia una donna immigrata, membro del governo, segretario di Stato alle politiche sociali, Fadéla Amara (ex rappresentante del movimento “Ni putes, ni soumises”), che si è espressa varie volte a favore del divieto del burqa e dell’hijab. Così come sorprende che, in Italia, una delle poche voci critiche sia quella di una musulmana marocchina: Suad Sbai. Che non più tardi di un mese fa ha dichiarato “che non bisogna abbassare la guardia contro un fenomeno dilagante che in Gran Bretagna è riuscito a istituire i tribunali sharitici; e che bisogna effettuare una riflessione ponderata sul modello multiculturale che vogliamo costruire in un’Italia in cui di integrazione si è appena cominciato a parlare. Questa è la sola via per mettere un po’ di ordine in un melting pot che troppo spesso si nutre di ideologie strumentali, e che le istituzioni, al di là degli slogan strillati, dovrebbero dirigere, coordinare e regolamentare”. Sono onesto. Sulla questione del velo e del burqa ho un’irrefrenabile tentazione di pensare a male. Di credere, cioè, che sia un pretesto ben strumentalizzato da organizzazioni islamiste e da politici (utili idioti), per ottenere la massima visibilità possibile. D’altronde non lo disse quello che la sapeva lunga? “Ogni ingiustizia ci offende, quando non ci procura alcun profitto”.

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