giovedì 29 ottobre 2009

Come in Israele?

Meglio ospiti che cittadini di Carlo Panella

Puntare a integrare gli immigrati nella società italiana è politica egoistica, miope e fuori dalla realtà, puntare, all’opposto a fornire loro i mezzi per tornare in patria dopo il periodo di lavoro in Italia è invece una politica solidale, lungimirante. In termini vetero: accentuare l’integrazione è politica neo-imperialista, che ruba forza lavoro e intelligenze al sud del mondo per immetterle nel nord dello sviluppo, come un tempo rubava materie prime; accentuare le possibilità di un’opzione diversa all’integrazione definitiva, favorire il loro ritorno in patria è invece una politica progressista che contribuisce in modo determinante a colmare i dislivelli di sviluppo. Non lancio una provocazione, sono solo infastidito da un dibattito sull’immigrazione che ormai in Italia ha perso ogni contatto con la realtà, che si sviluppa unicamente per linee ideologiche, che non guarda al mercato del lavoro, al contesto, a orizzonti vasti. Terreno perfetto per il teatrino della politica là dove non pochi parlano di cittadinanza e però intendono trattare sulla poltrona di governatore del Veneto. La realtà, dunque, quello che concretamente succede, quel che effettivamente gli immigrati vogliono, quel che è oggi l’immigrazione in Europa, è radicalmente diversa, dal ciclo antico dell’immigrazione che passava per Coney Island o per il Rio della Plata, o verso Sidney. Basta accettare lo schema che tutti ci propongono -guardate a quanto fecero gli italiani quando erano emigrati- guardando all’oggi e non a cento anni fa, e si comprende la debolezza intrinseca di una politica tutta puntata su una concezione dell’integrazione definitiva, verso una società multietnica. La Charitas Migrantes (unica organizzazione attendibile statisticamente), assieme alla Fondazione Friedrich Ebert, ci fornisce uno specchio attendibile della realtà circa l’emigrazione italiana in Germania, paese a cui l’Italia deve guardare, e non solo perché a differenza nostra ha statistiche serie e attendibili. Quasi tutto rende infatti equiparabile la realtà tedesca a quella italiana, circa l’immigrazione, a partire dalla sua totale autonomia dal passato coloniale, determinante, e distorcente in Inghilterra, Francia e Olanda. Le stesse differenze statistiche – poche – sono in realtà una prova di identità, perché il modello tedesco è maturo e assestato, mentre quello italiano è ancora “giovane” ed espansivo. La realtà, quella vera, ci informa dunque che dagli anni Cinquanta a oggi 36 milioni e trecento mila immigrati sono andati a lavorare in Germania, che hanno avuto una permanenza media di attività in Germania di 17 anni e che tra loro, ben 26 milioni e cinquecentomila sono rimpatriati; il saldo attuale è di sei milioni e settecentocinquantamila immigrati. Ogni anno entrano oggi in Germania 558 mila immigrati, ma ne escono 448 mila. Cifre che stanno a significare una sola cosa: il pilastro principale, nella realtà del fenomeno migratorio contemporaneo è la rotazione. Una realtà che smonta radicalmente, brutalmente tutta l’impostazione “iper integratoria”, finalizzata alla cittadinanza italiana che va per la maggiore. Cifre che spiegano come il problema della cittadinanza riguardi solo una parte marginale di questo immenso tourbillon di vite e esperienze (peraltro in larga parte quella motivata da matrimoni misti), e che smentiscono in pieno senza possibilità di dubbi una politica che punti sulla cittadinanza per favorire l’integrazione, politica che avrebbe portato la Germania ad avere centinaia di migliaia, milioni di cittadini tedeschi, che però sono nati, risiedono e vogliono terminare la loro vita in altre patrie, quelle loro vere. Una politica della cittadinanza dissennata perché invece i veri, drammatici problemi degli immigrati riguardano l’assoluta solitudine della lotta che ognuno di loro fa per riuscire a tornare nel suo paese, alla casa da cui è dovuto fuggire. Tragedia di cui il politically correct integratorio (tranne poche eccezioni, di nuovo dentro la Charitas) bellamente non si interessa. Queste cifre sulla rotazione, corrispondono pienamente alla conoscenza che ha del fenomeno migratorio italiano, dal Veneto alla Sicilia, chiunque conosca minimamente le sue dinamiche. Gli immigrati italiani degli anni Settanta e quelli attuali sono grosso modo stabili tra i 550 mila (gli attuali) e i 650 mila e questo è il loro numero assoluto: tra quelli che vi lavoravano allora e quelli che vi lavorano oggi c’è stato un ricambio continuo, quasi totale (di cui la deturpazione urbanistica del sud, delle case costruite anno per anno durante le ferie di ritorno), è testimonianza concreta. Definitive al riguardo le cifre della Charitas e della Fondazione Ebert: 4 milioni di italiani sono emigrati in Germania dagli anni Sessanta al 2007 di cui ben tre milioni e mezzo sono poi rientrati mentre solo 140 mila hanno acquisito la cittadinanza tedesca, un esiguo il 3,5 per cento, testimonianza definitiva di un mercato basato sulla rotazione e sul ricambio. Rotazione e ricambio, si badi, non prodotti da rigidità normativa tedesca, perché in quanto membri Cee e poi Ue, gli italiani sono stati sin dagli anni Sessanta gli unici immigrati con diritto al soggiorno in Germania, senza limiti. Una rotazione e un ricambio connaturati alla natura del fenomeno migratorio nella seconda metà del Novecento, fluido, mobile, fortemente attaccato alle radici e con la concreta possibilità (a differenza di quello precedente) di un ritorno in patria che oggi passa per il volo low cost, per Rabat, prenotato col cellulare, che costa un centesimo di quanto costava un viaggio nelle stive dei piroscafi Genova- Coney Island. Una rotazione fortissima anche in Italia che la Charitas stima del 20 per cento, e che è comunque evidente dal fatto che l’anzianità media di permanenza è da noi di 5 anni, contro i 17 della Germania. Ricambio, ritorno in patria e non loro integrazione definitiva nella società tedesca, infine, e qui torniamo al centro del problema, che è stato elemento formidabile di sviluppo economico del meridione (e del nord est), come di tutta la costa meridionale dell’Europa, dal Portogallo alla Turchia. Guardate alla rete delle autofficine di marche tedesche di automobili nel sud (come in Portogallo, Spagna, ex Jugoslavia, Grecia e Turchia), scoprirete che una percentuale impressionante di Mercedes, VW, Opel, Ford e Bmw è stata impiantata da operai che avevano lavorato in quelle fabbriche. E quanti negozi, quante partite Iva, sono stati avviati col piccolo gruzzolo di risparmi di immigrati? Questo è dunque il grande, vero tema: noi italiani, nord sviluppato, dobbiamo rubare al sud arretrato la migliore forza lavoro, le intelligenze più audaci, per farla lavorare e poi tenercela? Oppure dobbiamo costruire un percorso virtuoso che faccia sì che dopo una lunga esperienza lavorativa in Italia (la media di mercato tedesca si avvicina a quei 20 anni che costituiscono il minimo per una pensione che credo sarebbe l’ottimale, per loro, come per noi), questi immigrati, forti di piccoli capitali e di una professionalità nettamente accresciuta, possano tornare al loro paese natale, percepirvi (come solo da 10 anni si può fare), anche nella piccola posta del paesino sul Rif la loro pensione e contribuire allo sviluppo del loro paese e – soprattutto – ricomporre l’unità della loro famiglia, del loro clan, della loro storia? Si faccia un sondaggio – tra i mille inutili che si fanno – oppure un’inchiesta, di quelle serie, e si ponga agli immigrati la possibilità di scelta tra le due prospettive: l’integrazione definitiva e totale nella società italiana, diventare in tutto e per tutto e solo cittadini italiani, oppure avere la possibilità di fruire della pensione (o anche, pro tempore, dell’assegno di disoccupazione), nel più vicino ufficio postale o banca accanto alla casa da cui sono partiti in patria. Lo si faccia prospettando loro l’ipotesi che l’acquisizione della cittadinanza italiana comporti il rifiuto della cittadinanza d’origine (questa sino a pochi anni fa era la legge in Germania), ipotesi che non auspichiamo – sia chiaro – ma che è utile per comprendere il livello di integrazione in Italia che gli immigrati intendono perseguire. I risultati sarebbero sorprendenti e metterebbero la discussione sui suoi giusti binari. L’unica politica seria da perseguire è quindi quella che bilanci integrazione piena dell’immigrato fin quando lavora in Italia, con parità di diritti sociali ed economici (ma non politici) e suo supporto altrettanto pieno per potere ritornare più forte, e con piena autonomia economica in patria. Uno schema che definirei di “cittadinanza ospite”, là dove il primo termine segnala il diritto alla piena equiparazione sociale dell’immigrato e il secondo, la temporarietà della sua permanenza in Italia. Temporarietà, si badi bene, non da imporre, ma semplicemente da riconoscere come caratteristica intrinseca al fenomeno migratorio reale, non a quello da Libro Cuore a cui dissennatamente si fa sempre riferimento. Temporarietà esistente, operante, cui si deve fare riferimento quando si ipotizza l’abbandono dello ius sanguinis a favore dello ius soli, così come per tutte le leggi e gli interventi amministrativi (per fornire la pensione in patria di questo c’è bisogno e grazie all’informatica questo è possibile fare) da mettere in atto. Temporarietà, qui è il problema, di mediolungo periodo, che però costituisce l’aspetto strutturale dell’immigrazione, esattamente all’opposto di quanto si crede.

3 commenti:

Massimo ha detto...

OT: Che brutta sorpresa: lo sfondo nera "rovinaocchi" ! :-(

Eleonora ha detto...

E' quasi halloween, un pò di fondo nero ci vuole ;)

Maria Luisa ha detto...

ma è bello il nuovo sfondo^^
Artemisia