martedì 31 gennaio 2012

La bambina Montiana

Nonno Mario di Davide Giacalone

Ascolti “nonno Mario”, faccia una cosa utile a sé, agli italiani e all’umanità che ancora riesce a ridere e inorridire: licenzi su due piedi il soggetto che è riuscito a mettere nel sito della presidenza del Consiglio, sotto lo stellone della Repubblica, una lettera in cui si sostiene che una bimba di due anni (povera innocente) la riconosce come “nonno Mario, quello che dice le cose giuste per il futuro”. Perché vede, gentile Signor presidente del Consiglio, senatore a vita e professor Mario Monti, esiste un limite al rincitrullimento, ma mettere in bocca queste cose a una bimba di quell’età, solennizzarle in una pubblicazione governativa, porta con sé un ridicolo potente, talché, nel breve volgere di poche ore, lei potrebbe divenire assai meno sobrio del suo predecessore. E non so se mi spiego.

Credo, voglio credere, e voglio chiarirlo in modo inequivocabile, che lei non c’entri nulla. Che certi zelanti leccapiedi uno se li trova sulla strada e neanche li riconosce. Sono sicuro, voglio esserlo, che lei non ha mai visto quella pagina vergognosa (questo è l’indirizzo: controlli e agisca in prima persona). Ma ciò non toglie che ora noi la stiamo informando e che lei è tenuto a provvedere subito, al volo, prima che si possa anche solo supporre un qualche suo compiacimento. Perché in un Paese civile quella roba non è consentita. E se non provvederà a tambur battente sarebbe autorizzato il sospetto circa il passo successivo: chiedere alla bambina di denunciare i genitori, ove non assolvano onestamente agli obblighi fiscali o commettano una quale che sia infrazione al codice del vivere in pace con la legge. A utilizzare quel sistema fu Pol Pot, in una sfortunata Cambogia. Confesso di non avere fatto una ricerca specifica, ma credo d’indovinare se affermo che neanche in quel disgraziato regime nessuno s’è mai spinto a immaginare che i bimbi da usare come spie potessero avere meno di tre anni.

Immediatamente prima del citato, e disgustoso, messaggio se ne trova un altro, adulto, di chi afferma d’averla vista ospite di Lucia Annunziata e di averne dedotto che lei è persona degna di fiducia. Per quel che può contare, lo penso anch’io. Ma penso anche che se il suo predecessore avesse pubblicato messaggi di tale natura sarebbe stato sommerso da meritate pernacchie. E siccome non posso escludere che l’abbia fatto, ove così sia gli dedico anche la mia. Sentitamente. Però, oggi, in quel posto c’è lei, e, oggi, è lei a prendere spazio nei salotti della televisione di Stato, che quando cesserà di essere tale sarà sempre troppo tardi, ed è oggi che il sito della presidenza del Consiglio pubblica, sotto la dicitura “dialogo con i cittadini”, roba di tal fatta. La faccia rimuovere. Sul serio, e ci faccia sapere che il responsabile sarà assegnato a compiti più consoni alla sua natura, possibilmente non pagati con i soldi delle nostre tasse.

A proposito di mestieri, la bambina di due anni non ha scritto la lettera a lei indirizzata, perché, com’è facile intuire, se fosse di così prodigiosa intelligenza e precocità non si dedicherebbe ad un’adulazione così rozza e imbarazzante. A riportare il suo (presunto) pensierino è, così si firma: “una coordinatrice pedagogica di una cooperativa sociale”. Faccia cosa di cui tutti le renderanno merito: individui tale sabotatrice d’infanzia, smascheri quest’agente provocatore e, assieme a chi ha messo in pagina cotanto delirio, li avvii verso il loro destino. Servirà anche a chiarire che non sempre strisciando e sbavando s’ottiene il risultato di commuovere e usare il potente di turno.

Chiudiamo questo capitolo, attendendo che lei provveda. Grazie, ci faccia sapere. Più in generale, però, occorre guardarsi da un mondo che, come sempre, pratica il servo encomio in attesa di dedicarsi al codardo oltraggio (sintesi perfetta che dobbiamo ad Alessandro Manzoni, il quale discettava di Napoleone, mica cotiche). Mario Monti gode di ottima stampa, e non è difficile supporre che gli faccia piacere. Farebbe piacere a chiunque. Ma il potere è una strana bestia, una mantide che pratica l’amore preparando la morte. Se quando lo spread arriva al 420 i giornali scrivono che va alla grande, che bene così, che solo ora si respira, poi sarà difficile spiegare che a quei livelli facciamo rotta verso il naufragio. E siccome i lecchini odierni saranno feroci, proprio perché vili, domani scriveranno che il governo ha fallito, laddove, invece, la questione era, è e sarà del tutto diversa: o si ristruttura l’euro e l’Unione europea o nulla di quel che vediamo è destinato a durare. Se quando il governo annuncia che si farà un’autorità nazionale per stabilire quante licenze taxi ci vogliono a Bari i giornali scrivono che questa è l’alba delle radiose liberalizzazioni, domani saranno pronti a gettare l’onta del fallimento su chi ebbe l’idea bislacca di chiamare in quel modo ciò che somiglia, più che altro, ad un incubo centralista, statalista e programmatore. Se per mettere le tasse si procede decretando e per cancellare il rudere del valore del titolo di studio si avvia una “consultazione pubblica” (ma che è?), mentre chi commenta omette d’osservare che la cosa è vagamente dissennata, va a finire che il massimo delle contestazioni si concentrerà su quel che non esiste, resuscitando l’estremismo sconclusionato. Se si lascia che il presidente del Consiglio continui a ripetere, con un vezzo di falso imbarazzo simile alla pudicizia dell’amante focoso, che pare, sembra, mi dicono che nei sondaggi il governo è popolarissimo, e nessuno fa mostra di volere ricordare che le democrazie non funzionano con l’applausometro, va a finire che quando poi si vota e il Parlamento si riempie d’antagonisti taluno, per non ammettere la propria imbecillità, sosterrà essere colpa del governo in carica. Con tutti i suoi pregi, che ci sono, e i suoi difetti, che non mancano punto, il governo Monti è il migliore possibile in questo scorcio di legislatura. Sappiamo tutti che non ha legittimazione elettorale, mentre è affollato d’ambizioni politiche. E passi. Ma è un grave errore lasciarsi cullare dal dondolio del consenso acritico e un po’ buffonesco, perché è vero che nessuno resiste all’adulazione, ma è anche vero che chi si lascia andare con tanta lascivia rischia di precipitare in un incubo. Quindi, gentile “nonno Mario”: le si offre una ghiotta occasione, consistente nel far vedere che certe cretinerie non le sono solo estranee, ma anche odiose. Che le ripugna anche la sola idea si possa praticare questo genere di pedofilia lecchina e che, quindi, il responsabile va a casa.

Quando si vorrebbe lavorare...


Al sindaco Pd di Rovagnate, piccolo centro del lecchese in Lombardia, i posti di lavoro "puzzano". E lui, della crisi e dell'occupazione, se ne frega. Sono quattro anni quattro che Vittore Beretta, uno dei grandi nomi dell'industria alimentare italiana (salami, salamini e altri salumi), sta cercando di aprire un nuovo polo di produzione da 300 posti di lavoro. E ancora non c'è riuscito. Addesso Marco Panzeri, il primo cittadino, ha contro tutti: dall'associazione locale degli industriali all'amministrazione provinciale di Lecco, fino ai sindacati. Ma al momento la realizzazione dello stabilimento da 150mila metri quadrati e 120 milioni di euro, è su un binario morto. Il gruppo Beretta conta quattro centri di produzione in Italia e altri in Cina e Stati Uniti per un totale di circa 2.200 dipendenti. "A Nanchino in Cina, per darmi i permessi ci hanno messo 20 giorni e in California due mesi" spiega Beretta. Motivo del contendere, a Rovagnate, è il rifiuto opposto da Beretta alla richiesta di Panzeri di restaurare un edificio del Settecento di proprietà comunale, Villa Sacro Cuore: preventivo 5 milioni di euro. "Troppi" per Beretta. Risultato: niente permessi per lo stabilimento e trecento posti di lavoro al palo. Ora si dovrà attendere almeno fino a primavera, quando a Rovagnate si terranno le elezioni comunali. Panzeri non si potrà ripresentare. La speranza in paese è che il nuovo sindaco sia più sensibile ai problemi del lavoro e meno a quelli del restauro.

lunedì 30 gennaio 2012

L'imam Vittorio Sgarbi e la moschea


Quando diventò sindaco, fece notizia per l'annuncio choc che fece: avrebbe regalato la casa a chi fosse andato a vivere a Salemi restaurando lo stabile. Così, Vittorio Sgarbi finì su tutti i giornali. Ora, per il "suo" paese nella parte sud-occidentale della Sicilia, ha in mente un'altra novità: realizzarvi una grande mochea, che diventi il riferimento per tutti i musulmani residenti nell'isola. La proposta, Sgarbi, l'ha fatta nientemeno che all'Emiro del Qatar, Sheik Hamad Ben Kaliffa Al Thani, noto per essere uno degli uomini più ricchi del pianete e avere, tra le sue proprietà, il club calcistico Manchester City. Il critico d'arte ha formalmente dato la disponibilità a concedere il terreno all'interno del quartiere arabo del Rabato, nel centro storico della città. "I finanziamenti per la realizzazione della moschea - spiega - sono garantiti da un accordo bilaterale tra il Comune di Salemi e il Qatar" ha detto il sindaco di Salemi, che ha incontrato a Catania una delegazione del paese arabo guidata dallo sceicco Hamadi Ahmad, presidente della 'Qatar Carity Fondation', da rappresentanti dell'Ucoii, l'Unione della Comunità e delle Organizzazioni islamiche italiane e da Giampiero Paladini, presidente della Confime, la Confederazione delle imprese del Sud.

Lo vuole la storia - "La Sicilia - dichiara Sgarbi - è entusiasta di accogliere l'Islam. Nulla è più importante che trovare sentimenti e convinzioni comuni nelle diverse religioni che contemplano un unico Dio. Anche per questo, così come nelle nostre città ci sono luoghi di culto cristiani, mi sembra importante che per i cittadini di cultura e lingua araba si provveda a costruire una moschea a Salemi. Lo impone la Storia".

Qui invece una straordinaria storia di immigrazione e di integrazione. La famigliola è d'origine afghana. E in afghanistan, lei partorisce la terza figlia, lui voleva un maschio e la strangola. Trattasi di islam.

Monti, il suo baratro sarà anche il nostro...


Non credo possa esistere chi abbia potuto pensare, dinanzi alle continue sviolinature al governo dei tecnici, che giornalisti, editorialisti e direttori di corazzate mediatiche quali sono il Corriere della Sera e Repubblica siano, improvvisamente, diventati incapaci di leggere la realtà e, solo per questo, si dedichino, senza soluzione di continuità, alle fastidiose serenate sulla sobrietà e sulle capacità ‘tecniche’ dei componenti dell’attuale esecutivo. Sarebbe da imbecilli, quindi, pensare che, a differenza della stragrande maggioranza dei cittadini italiani, siano solo loro a non accorgersi del terribile salasso economico che le misure hanno provocato nella società italiana, con i conseguenti rischi di recessione, e solo loro possano leggere come misure di liberalizzazione, le recenti scelte contenute nell’omonimo pacchetto ora all’esame del Parlamento, misure che sono invece semplici allargamenti dei soggetti (tassisti, farmacisti e notai) che devono dividersi la torta che offre il mercato. E’ chiaro, infatti, che anche aumentando le licenze (tassisti) o i punti vendita (farmacie) trattasi sempre di categorie abbastanza chiuse per le quali la concorrenza non esiste.

Anche le misure che riguardano i professionisti (abolizione delle tariffe minime e massime) sono misure che non hanno nulla a che vedere con le liberalizzazioni, mentre gli ordini delle categorie non vengono nemmeno alla lontana scalfiti (ad esempio i giornalisti). Sulle assicurazioni, poi, mentre si quantifica la percentuale (30%) di riduzione del rimborso di un danno se non ci si rivolge ad una officina convenzionata, si lascia indefinita la riduzione del premio polizza se si accetta di istallare sul proprio veicolo la famosa scatola nera che è solo, però, fumo negli occhi. L’assicurato che da 10/15 anni è sempre in fascia 1, perché non ha mai fatto incidenti, è già lui una scatola nera. Se le cose stanno così perché le lodi sperticate che sfiorano l’adulazione e perché vengono accreditati meriti che Monti non ha? La verità è semplice: Monti va sostenuto acriticamente e a prescindere, e con lui Napolitano, perché i due hanno il ‘merito’ indiscusso d’aver ‘liquidato’ Berlusconi sfruttando il clima di pericolo, creato dai media, per la forbice che lo spread (differenziale tra i titoli italiani e i bond tedeschi) registrava. Le vicende successive hanno chiarito a sufficienza quanto fosse strumentale quella campagna in cui si sono distinti anche, in particolare, Enrico Letta e Rocco Buttiglione. E ancor oggi ci si aggrappa allo spread ignorandolo quando sale, ma esaltandolo quando, come termometro positivo, scende.

La scelta del sostegno continuo al governo Monti, con tutte le sviolinature e gli incensi usati, nasce, comunque, dalla certezza che l’azione dei tecnici è destinata al fallimento, e il continuo piaggiare è la prova provata che il governo dei tecnici vive solo per l’ostinazione di re Giorgio e per il sostegno mediatico espresso anche attraverso la criminalizzazione di chi osa ribellarsi. Altro che panacea dei problemi che ci stanno di fronte. Monti si è rivelato, purtroppo, inconsistente, ma copre questa inconsistenza sfruttando a pieno la disponibilità dei media. Ci inonda, infatti, di bluff a raffica e, come megafono delle scelte del suo governo, indica la linea da seguire fino ad arrivare all’autoesaltazione per una Italia, diventata con lui, esempio da seguire per il resto dell’Europa che ci guarda, dice sempre Monti, con malcelata ammirazione. Beato lui che ci crede, se ci crede. La verità è tutt’altra: è quella di un’Italia spinta, dalle sue scelte, verso scontri sociali i cui sbocchi non sono prevedibili. E quando ciò avverrà i media, oggi scodinzolanti, saranno i più feroci a sbranarlo senza alcuna pietà. Che stia attento, comunque, a credere che ‘tutto va ben madama la marchesa’. Precettazioni, arresti e quant’altro non serviranno a nulla se si muove il Sud del nostro Paese. Il movimento dei forconi può essere solo un anticipo.

Punti di vista


Quando ero inviato de il Giornale ho seguito a lungo la battaglia dei piccoli imprenditori in difesa del made in Italy. Ora non ho più l’opportunità di occuparmi di questi argomenti, però sono rimasto in contatto con molti dei miei ex interlocutori. Uno di loro, il combattivo Roberto Belloli, mi ha inviato una lettera aperta. E’ un grido di dolore, anzi di indignazione, che denuncia l’ipocrisia con cui le istituzioni e buona parte dei media parlano dell’industria italiana. Di solito su questo blog non riprendo comunicati ufficiali, ma questa volta faccio un’eccezione e pubblico integralmente la lettera di Belloli. La denuncia è dura, ma non può essere ignorata.

Durante la consegna del premio Leonardo, il nostro Presidente Napolitano ha risposto a una ragazza, che affermava di essere una “privilegiata”, perché aveva un lavoro, dicendole che il lavoro non deve essere un privilegio, ma un diritto, e concludeva roboante, quasi con un monito all’industria che deve “investire e innovare”, come se la colpa della mancanza di lavoro fosse degli Industriali che non l’hanno fatto.

Tralasciando l’originalità dell’affermazione (forse un errore di gioventù), credo che moltissimi piccoli imprenditori, che da decenni “investono e innovano” QUOTIDIANAMENTE, si siano sentiti degli imbecilli perché... non hanno il lavoro (anche se pare sia un loro diritto). Mario Draghi, novello presidente della BCE, affermava che è necessario individuare le cause della crisi... dopo aver erogato a mani basse miliardi di euro ai poveri istituti di credito, così sottocapitalizzati, credo moltissimi piccoli imprenditori che da anni cercano di ottenere dalle banche maggiori linee di credito, ma che si sentono rispondere che i loro rating sono troppo bassi, si siano sentiti degli imbecilli,  perché tutti questi miliardi sono stati dati a banche con dei rating drammatici.

SMI (Sistema Moda Italia), con la connivenza di vari consulenti strapagati, ha spacciato dati farlocchi di crescita a due cifre, su produzioni estinte, avvalendosi della voce esperta di “Dottori” che probabilmente non conoscono la differenza tra filatura e tessitura, credo che moltissimi piccoli imprenditori, si siano sentiti degli imbecilli perché le loro produzioni da anni calano a due cifre, perché le produzioni sono state de localizzate. Al di là della facile ironia, volevo fare a Voi una domanda, alla quale vi pregerei di rispondere: non siete stanchi, sfiniti e sfiduciati, di essere obbligati a riportare continuamente simili fandonie, prive di fondamento e contatto con la realtà, e di tirare un sospiro di sollievo solo quando una scossa di terremoto o un marinaio scapestrato vi consentono finalmente di distogliere l’attenzione dalla bolgia Dantesca della politica fanfarona o dalle notizie prezzolate dei grandi inserzionisti?

La mia domanda è semplice: quando potremo finalmente leggere in prima pagina sui quotidiani Nazionali a caratteri cubitali che la causa della crisi è la delocalizzazione delle produzioni e che la gran parte della merce che arriva in Europa dalla Cina non rispetta le basilari regole sulla salute, il lavoro minorile, l’inquinamento, e gli accordi commerciali su dumping e svariate forme di finanziamento statale? Quando potremo finalmente leggere che i grandi marchi (ormai società multinazionali, o fondi di investimento) non hanno nessun interesse nel rendere trasparente la tracciabilità e l’etichettatura obbligatoria dei prodotti importati? Mi rendo conto che è una domanda retorica, ma ancora mi illudo di pensare che un giorno, finalmente, prevarrà il buon senso, e che qualcuno dei nostri Soloni che fino ad oggi hanno blaterato di Tobin Tax, IMU, liberalizzazioni, accise, aliquote, rivalutazioni catastali, finalmente si soffermi sull’unico e reale problema: se non facciamo lavorare la gente, non potremo mai più avere un’economia! Mi appello a voi "penne sagaci", maestri della dialettica, perché almeno una volta possiate essere Pifferai Magici e non sempre topi .

Roberto Belloli; Piccolo imprenditore - Contadino del tessile - Reparto Produzione… imbecille

Il decisionista


Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contestato a Bologna nel giorno della sua lectio magistralis, punta il dito contro la politica e continua a portare in palmo di mano Mario Monti. Il Capo dello Stato ha spiegato: "Assistiamo certamente da qualche tempo all'appannarsi di determinati moventi dell'impegno politico inteso come effettiva e durevole partecipazione". E ciò avviene "anche per effetto di una perdita di efficacia, persuasività e inclusività del sistema politico, una crisi che chiede riforme". Quindi le parole sul premier: "E' nell'interesse comune che lo sforzo appena intrapreso con significative proiezioni in sede europea continui e si sviluppi in un clima costruttivo". La nascita del governo Monti, ha aggiunto, è frutto del "logoramento della maggioranza di Governo e dell'emergere di un rischio di vero e proprio collasso finanziario pubblico".

"Cambiare la legge elottorale" - "Dei partiti, come della poltica - ha proseguito Napolitano -, bisogna avere una visione non demoniaca, ma razionale e realistica. Tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l'estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo ed è fatale, conduce alla dine della democrazia e quindi della libertà". Quindi una nuova dichiarazione che supera le teoriche competenze dell'inquilino del Colle, che dopo gli elogi a Monti si dimostra sempre più impegnato nel fare politica attiva. Napolitano ha nuovamente invitato le forze politiche e il Parlamento a verificare "la possibilità di definire o di prospettare credibilmente revisioni di norme della seconda parte della Costituzione", dando prova "del loro senso di responsabilità". Un chiaro invito, quello del Capo dello Stato, a mettere mano alla legge elettorale.

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Insomma, laurea ad honorem a re giorgio... e, chissà, se l'è meritata per il bombardamento di budapest... o per il bombardamento in libia o per aver scalzato quel cattivone di Silvio B.? E poi, visto che si parla di presidenti peggiori d'italia, vogliamo ricordare anche questo appena dipartito? Il silenzio di B., è la miglior cosa tra tutte le grida ipocrite ascoltate sinora.

La colpa non è solo di Monti


Dopo il diktat della Merkel alla Grecia ormai siamo in guerra. Non con i carri armati ma con la finanza, che è pur sempre un’arma di distruzione di massa che a livello globale sta destabilizzando gli Stati sovrani, estromettendo dal potere governi democraticamente eletti, costando cifre da capogiro a causa della speculazione e mietendo milioni di vittime. Non sono morti ammazzati ma morti dentro: persone che perdono la certezza della vita, a cui viene lesa la dignità, che non sono più libere di scegliere, ridotte in povertà o alla fame, costrette alla solitudine dell’emigrazione o di chi non avrà mai una propria famiglia, comunque impossibilitate ad essere pienamente se stesse a casa propria. Talune preferiscono suicidarsi, come i nostri imprenditori sopraffatti dall’attesa per i crediti contratti con lo Stato, mentre per ora una maggioranza relativa si rassegna al «male minore» confidando in un miracolo affidato alle tecnocrazie espressione dei poteri finanziari transnazionali, nella convinzione che non vi sia alternativa alla competizione fino all’ultimo sangue nello scenario della finanza e dell'economia globalizzata.

Come in tutte le guerre si creano e perfezionano le alleanze regionali e internazionali, si proclama lo stato d’emergenza che consente di imporre dei regimi autoritari nel nome dell’interesse supremo dello Stato, si affilano le armi e si emanano gli ultimatum. Tale è l’annuncio che la Germania vuole commissariare la Grecia ottenendone il riconoscimentodell’autorità, in cambio del nuovo maxiprestito da 130 miliardi di euro, di un super-Commissario europeo al Bilancio e ai Conti pubblici con potere di intervento sulla gestione delle sue finanze. Il diktat tedesco conferma che questa Unione Europea è proiettata verso la costituzione di un super- Stato dove verrà del tutto meno la sovranità nazionale dei singoli Paesi aderenti all’eurozona. E se persino il premier Papademos, ex vicepresidente della Bce (Banca centrale europea) ed ex governatore della Banca centrale greca, ha respinto la richiesta tedesca perché «queste competenze appartengono alla sovranità nazionale», ci domandiamo se invece l’atteggiamento di assoluta accondiscendenza della Merkel, di Sarkozy e di Draghi nei confronti di Monti non si spieghi con il fatto che il nostro capo di governo ha già sostanzialmente accettato ciò che Papademos esclude, ovvero la svendita della sovranità nazionale dell’Italia in un contesto dove la gestione delle Finanze, del Bilancio e dell’Economia sarà appannaggio esclusivo di una tecnocrazia che prenderà ordini direttamente da Bruxelles.

A differenza di Papademos, Monti gode di un fronte interno incredibilmente coeso grazie alla regia altamente discutibile del capo dello Stato Napolitano e al non meno grave sostegno della Chiesa cattolica, culminati nell’auto- commissariamento del Parlamento e dei maggiori partiti, nell’allineamento di gran parte degli organi d’informazione e nell’accondiscendenza della magistratura. Neppure sotto il fascismo si registrò un tale appiattimento in modo spontaneo del fronte interno. Il fatto che sono gli stessi italiani - tutti gli eletti e buona parte degli elettori - a rinunciare volontariamente alla democrazia sostanziale, evidenzia che quella di Monti è la peggiore delle dittature. Ma è proprio vero che non vi sia alternativa a questa nuova guerra mondiale dove l’Unione Europea dovrebbe trasformarsi in un blocco monolitico governato in modo autoritario per poter reggere la sfida con gli Stati Uniti, la Cina, l’India,la Russia e le altre potenze emergenti in Asia, America Latina e Africa? Siamo proprio certi che la nostra sopravvivenza è indissolubilmente legata alla prospettiva di crescita verso la dimensione «macro», costringendoci a investire nell’ambito quantitativo per produrre sempre di più, mettendo pertanto al centro la moneta e affidando la nostra sorte alle tecnocrazie finanziarie?

Ebbene io dico che non è affatto così. Vi invito a fermarci per riflettere dentro di noi. Recuperiamo l’uso della ragione, il dirittodovere alla valutazione e alla critica di ciò che oggi la dittatura politica e mediatica ci propina come l’unica verità; riscattiamo il sano amor proprio che ci porta a concepirci come il centro della vita quali persone depositarie di valori non negoziabili; emancipiamoci dall’ideologia dominante dei cittadini-gregari e diventiamo protagonisti che non solo ragionano e credono, ma sono soprattutto in grado di agire per costruire un’alternativa che ci consenta di essere autenticamente noi stessi a casa nostra. Investiamo nella dimensione dell’essere anziché dell’avere, scommettiamo nella prospettiva del «micro» anziché del «macro», perseguiamo il traguardo del bene comune da condividere con le persone che ci scegliamo e che amiamo anziché farci trascinare nella follia di una guerra mondiale per conquistare il primato finanziario, scontrandoci con persone che non conosciamo ma che diventano nemici perché sono più ricchi, producono di più e consumano di più. Affranchiamoci da questa trappola infernale tesa dai criminali che hanno inquinato la finanza mondiale con i titoli spazzatura e dai tecnocrati che vorrebbero trasformarci in adoratori del dio euro. Diciamo no alla guerra finanziaria mondiale, no al super-Stato europeo, no alla divinità dell’euro, no alla dittatura di Monti.

domenica 29 gennaio 2012

Napolitano


Questa volta, bisogna riconoscerlo, Roberto Calderoli qualche ragione ce l’ha. All’ex ministro leghista della Semplificazione il decreto sulle semplificazioni appena varato dal governo tecnico ha fatto venire la mosca al naso: e non (soltanto) perché a Monti è riuscito di fare quello che Calderoli e i suoi colleghi avevano soltanto, e parzialmente, impostato. Ma anche, e soprattutto, perché «buona parte dei contenuti del decreto sono gli stessi, o quanto meno una loro variante, del decreto per la crescita predisposto dal sottoscritto con Castelli, Romani e Brunetta, che mai ha visto la luce a causa dell’indisponibilità del presidente Napolitano a firmarlo». La conclusione di Calderoli è apertamente polemica: «Due pesi e due misure, caro presidente Napolitano, che mi amareggiano e che fanno vacillare la stima che avevo per lei». A sostegno della ricostruzione del ministro leghista interviene Brunetta: «È vero, fummo impossibilitati a fare un maxiemendamento al decreto perché ci furono le perplessità del Colle». Del resto, non è un mistero che il Quirinale, per tradizione e per cultura politica, sia da sempre restìo alla decretazione d’urgenza, preferendo invece l’iter parlamentare classico e privilegiando dunque il confronto con le opposizioni rispetto all’efficacia e alla rapidità della decisione.

Nei confronti del governo Berlusconi più volte Napolitano è intervenuto, dietro le quinte o apertamente, per bloccare questo o quel decreto. Nel febbraio dell’anno scorso inviò una lettera ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio per «richiamare l’attenzione sull’ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge cosiddetto “milleproroghe”». In quel testo, in effetti, c’era di tutto, secondo una tradizione antica che risale alla Prima Repubblica: nella grande palude del bicameralismo perfetto spesso l’unico modo per approvare un provvedimento è infilarlo di straforo in un decreto. Non sarà costituzionalmente irreprensibile, ma può essere di grande utilità. Lo scorso novembre, nel pieno della crisi finanziaria e con il governo Berlusconi oramai agli sgoccioli, il Quirinale intervenne di nuovo per bloccare il decreto che avrebbe reso immediate le misure che il governo stava per approvare in risposta alla famosa lettera di Bruxelles. Secondo Napolitano alcuni dei provvedimenti ipotizzati - per esempio quelli sul Welfare, il diritto del lavoro e i licenziamenti - non potevano essere affrontati con uno strumento d’urgenza, ma andavano inseriti nel maxiemendamento alla legge di stabilità che in quei giorni era al vaglio del Parlamento.

In un paio di mesi, tutto è cambiato. Di licenziamenti e riforma dell’articolo 18 si è già cominciato diffusamente a parlare, e la più grande riforma delle pensioni che l’Italia abbia mai avuto è già stata fatta: per decreto. Il «salva-Italia» e il «cresci-Italia» sono due decreti-omnibus che contengono l’equivalente di una ventina di leggi e forse più: se fossero mai venuti in mente a Berlusconi (o a chiunque dei suoi predecessori), l’opposizione sarebbe insorta e il Quirinale avrebbe mandato i corazzieri. Ha dunque ragione Brunetta quando osserva, con una punta di sconsolato rammarico, che «avevamo ragione noi. Se si vuole avere un impatto immediato sul Paese, sull’economia e sui mercati occorre lavorare per decreto. Lo dicevamo noi, adesso Monti lo fa». Merito (o colpa) della Grande Crisi, naturalmente, che impone scelte rapide e decisioni immediate. E su questo nessuno discute: altrimenti perché mai avremmo mandato al governo una squadra di tecnici? E siccome sono tutti dei simpatici secchioni, c’è da giurare che i loro decreti siano inappuntabili, e che giustamente il Quirinale s’affretti a firmarli quasi senza leggerli. Però il problema rimane, e prima o poi meriterà una riflessione più approfondita. È vero che la democrazia in Italia non è sospesa, visto che il governo dispone della (larga) maggioranza del Parlamento. Ma è anche vero che il Parlamento mostra ogni giorno di più la sua inutilità: non esprime ministri né sottosegretari, non scrive le leggi, non disegna le riforme. Ai parlamentari non è rimasto altro che qualche comparsata in tv e un voto di fiducia settimanale. Dalla centralità del Parlamento siamo rapidamente passati alla sua eclissi totale: per decreto, e senza neppure accorgercene.

L'incompatibilità e il silenzio


Dunque per dimettersi eventualmente dalla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche che dipende dal suo ministero, il ministro Francesco Profumo aspetta «la decisione dell'Antitrust». Anche il ministro dell'Ambiente Corrado Clini, per lasciare la poltrona da presidente dell'Area Science park di Trieste, ente pubblico di ricerca la cui nomina dipende dal governo, è in attesa della «decisione dell'Antitrust». Il verdetto riguardante entrambi sarà tuttavia emanato soltanto entro il 16 febbraio, perché l'Autorità garante della concorrenza, fanno sapere i due ministri, «ha bisogno di documentazione aggiuntiva».

Con tutta franchezza: questa storia è semplicemente patetica, e fa il paio, purtroppo, con lo sconcertante annuncio del governo che si riserva di fare trasparenza sugli interessi dei suoi componenti rigorosamente entro i termini formali di legge. Cioè i 90 giorni dall'insediamento, che scadono appunto il 16 febbraio. È patetico che due ministri in una situazione conclamata di conflitto d'interessi si aggrappino a insensati formalismi per conservare le poltrone supplementari. Ben sapendo (non vogliamo far torto alla loro intelligenza) che qualunque cosa l'Antitrust possa dire c'è innanzitutto una ragione di opportunità grande come una casa per cui avrebbero dovuto lasciarle del tutto quelle cariche, anziché rifugiarsi in una poco dignitosa autosospensione: non un minuto dopo, bensì un minuto prima di giurare da ministro. E viene da pensare che forse Mario Monti avrebbe potuto affrontare la faccenda in prima persona, imponendo lui ai suoi ministri le dimissioni dagli incarichi precedenti per sollevare il governo dal sia pur minimo imbarazzo. Ma è ancor più patetica, va detto con altrettanta franchezza, la figura che sta facendo l'Antitrust al cui vertice è stato appena insediato l'avvocato Giovanni Pitruzzella. La legge che attribuisce all'Autorità garante della concorrenza il compito di vigilare sul conflitto d'interessi è una finzione assoluta, non prevedendo alcuna sanzione per chi la viola. Però almeno non si presta a equivoci.

Dice che un ministro non può «ricoprire cariche o uffici pubblici diversi dal mandato parlamentare e di amministratore di enti locali», prevedendo particolari deroghe soltanto per le cariche «in enti culturali, assistenziali, di culto e in enti fiera, nonché conferite nelle università o negli istituti di istruzione superiore a seguito di designazione elettiva dei corpi accademici». Cosa c'è da «interpretare»? A meno che non ci si voglia arrampicare sugli specchi per sostenere che il Consiglio nazionale delle ricerche e l'Area Science park di Trieste appartengono a questa categorie (sono forse enti culturali, fiere, centri religiosi?), la questione è molto semplice: Profumo e Clini devono comunque dimettersi. Ed è sinceramente incomprensibile perché all'Antitrust debbano occorrere tre mesi (tre mesi!) e l'esame di non si sa quale altra «documentazione aggiuntiva» visto che il governo si è insediato a metà novembre, per decretare l'incompatibilità dei due.

Sergio Rizzo

sabato 28 gennaio 2012

Imbroglioni


Roma - Un Consiglio dei ministri fiume quello che ieri ha partorito il decreto legge sulle semplificazioni: più di sei ore di discussione motivate dal fatto che la carne al fuoco era davvero tanta. Poi una conferenza stampa con siparietto sul caso del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. Il quale viene pizzicato da un cronista sul suo doppio incarico: ministro, appunto, ma anche presidente del Cnr, Consiglio nazionale delle ricerche. Carica assunta dall’agosto 2011 e dalla quale s’è sospeso ma non dimesso. Come mai? Domanda graffiante sulla quale arriva il consiglio di non rispondere da parte, forse, del sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti: «Ma lassa perde...», suggerisce al ministro l’incauto sottosegretario che parla a microfono acceso. Ma Profumo non ci sta e spiega: «Nel passaggio dal Politecnico al Cnr non ho mai avuto uno stipendio dal Cnr perché avevo dovuto rimanere a stipendio del Politecnico. In ogni caso lascerò l’ente terminate le attività, da me avviate, per riorganizzare l’ente stesso».

In ogni caso, Monti esulta per il provvedimento che, spiega, «dimostra, ancora una volta, l’impegno dell’Italia nelle riforme in linea con le raccomandazioni della Commissione europea e di altre istituzioni autorevoli». Che il faro del Professore stia a Bruxelles non è un mistero e per questo motivo il premier procede spedito nel fare i compiti a casa. Alcune incombenze però vengono rimandate per opportunità politica, visto che sulla riforma del mercato del lavoro il governo sembra procedere con continui stop and go. Prende tempo, insomma; ma preme sull’acceleratore sul resto.

Un capitolo è quello delle semplificazioni. «È la terza iniziativa di spessore in due mesi», si autoelogia il premier. Che aggiunge: «Il pacchetto serve a dare all’Italia un’economia più produttiva e competitiva». Il risultato sarà quello di «modernizzare i rapporti tra pubblica amministrazione, cittadini e imprese». Viene invece rimandata la questione del valore legale della laurea. Poi, in serata, Monti si concede alle telecamere del Tg1: «Che i partiti ci incalzino è una cosa gradita - dice -, abbiamo bisogno del loro impulso». Quindi, astutamente, elogia sia Pd sia Pdl: «Il mio governo si muove in continuità con le cose migliori viste negli ultimi anni». E cita le liberalizzazioni di Bersani ma anche le riforme dei ministri Gelmini e Brunetta. Quindi torna sulle liberalizzazioni contestate: «Cercheremo di convincere le categorie che non sono d’accordo e comunque procederemo». Ma con la testa il premier è già a Bruxelles al Consiglio europeo: «Spero che il 30 siano prese decisioni molto concrete».

Complici dell'assassinio di uno stato


Quando, il 3 gennaio scorso, il presidente del Comitato nazionale di Transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil avvertì che se le varie milizie che avevano contribuito alla cacciata di Gheddafi non accettavano di sciogliersi la Libia sarebbe precipitata nella guerra civile, sapeva quello che diceva. Tre settimane dopo, in seguito anche alla contemporanea denuncia di tre organizzazioni umanitarie sul sistematico uso della tortura da parte dei nuovi padroni, la possibilità che la Libia liberata dal tiranno stia in realtà cadendo dalla padella nella brace si fa sempre più concreta. L’autorità del governo provvisorio, presieduto dal tecnocrate Abdel Rahim El Kib, che dovrebbe reggere le sorti del Paese fino alle elezioni per una assemblea costituente previste per il giugno 2012, si fa ogni giorno più evanescente, e ci sono seri dubbi che possa portare a termine la sua missione di stabilizzazione. Due ultimatum rivolti alle milizie che tuttora imperversano a Tripoli sono stati ignorati, e chi si rivolge alla polizia per denunciare i loro soprusi si sente rispondere: «Sono molto meglio armati di noi, non possiamo fare nulla». Intanto, da ogni parte si levano contro il Cnt accuse di malversazioni, ruberie e perfino oscuri collegamenti con il vecchio establishment gheddafiano.

L’ultima settimana è stata di fuoco. Sabato scorso, una folla inferocita ha attaccato e saccheggiato la sede del governo provvisorio a Bengasi, che era stata la culla della rivoluzione, ma adesso si sente di nuovo trascurata a favore della capitale. Lunedì la tribù Warfalla, già legata a fil doppio al Raìs, ha preso d’assalto la città di Bani Walid, una delle ultime roccheforti del vecchio regime, vi ha instaurato una propria amministrazione e ha costretto il governo centrale a riconoscerla. Giovedì, Amnesty International, i Medici senza frontiere e l’Onu se ne sono usciti con tre distinti quanto devastanti rapporti sulla situazione dei diritti umani nel Paese, che fanno toccare con mano quanto la riconciliazione sia ancora lontana. Il quadro che ne esce è davvero allucinante. Amnesty riferisce nei particolari di una serie di casi accertati di tortura contro ex sostenitori di Gheddafi e immigrati dall’Africa subsahariana, sospettati di essersi schierati con il dittatore. Le vittime hanno riferito di essere state «appese in posizioni contorte, picchiate per ore con fruste, cavi, tubi di plastica, catene, sbarre di metallo e bastoni di legno, tormentate con scariche elettriche», al punto che molti hanno finito con il confessare reati mai commessi e alcuni sono stati messi a morte. L’organizzazione fa nomi e cognomi, e cita in particolare il caso del colonnello Ezzedine Al Ghool, 43 anni, padre di sette figli, seviziato a morte senza l’ombra di un processo.

Buona parte di questi «interrogatori» si svolgono in carceri illegali, fuori dal controllo del governo, dove sedicenti comitati giudiziari, emanazione delle varie milizie tribali, la fanno da padroni. I più feroci sono i membri della brigata Sumond di Misurata, che hanno avuto la faccia tosta di mandare nella clinica di Medici senza frontiere prigionieri tramortiti da un primo round di torture, non per curarli, ma solo per rimetterli in condizione di sopportarne un secondo. Per reazione, Msf ha chiuso l’ambulatorio. Spesso, anche le truppe teoricamente leali al Cnt partecipano a queste forme di rappresaglia: sembra che nella sola Tripoli ci siano attualmente 8.000 detenuti, cui viene negato ogni contatto con le famiglie o con un legale. Il paradosso è che, per ottenere questo bel risultato, i bombardamenti della Nato a sostegno dei ribelli avrebbero fatto da 40 a 70 morti civili, donne e bambini compresi. L’unica buona notizia è che la produzione petrolifera dell’Eni ha quasi raggiunto il livello prebellico di 270mila barili e potrebbe presto arrivare a 300mila. Ma l’esito complessivo della missione di Monti a Tripoli, per «rafforzare l’amicizia e la cooperazione nella cornice di una nuova visione dei rapporti bilaterali» è avvolto nell’incertezza. Il comunicato finale ha vari passaggi ambigui, e alla fine dell’incontro il premier libico ha specificato che del trattato di amicizia concluso a suo tempo da Gheddafi e Berlusconi «la Libia manterrà la parte relativa al risarcimento dell’Italia per il periodo coloniale» ma non ha detto nulla sulle clausole favorevoli al nostro Paese. Inshallah!

venerdì 27 gennaio 2012

La felicità degli italiani


Le norme contenute nel decreto semplificazioni "migliorano la qualità della vita dei cittadini" nella "non piccola parte" che riguarda i rapporti con l’amministrazione pubblica e la burocrazia. Ad assicurarlo è il presidente del Consiglio, Mario Monti al termine del Cdm durato circa sei ore che ha varato il decreto legge sulle semplificazioni.

Per redigere il testo "sono state seguite le migliori pratiche a livello internazionale e europeo. L’unione europea, gli osservatori internazionali e i mercati danno sempre maggiore importanza alle riforme strutturali per la crescita per giudicare la sostenibilità nel consolidamento dei bilanci pubblici", ha aggiunto il premier.

Che sul tema del valore legale del titolo di studio ha precisato che "è molto più complicato di quello che possa sembrare. Abbiamo deciso di non affrontarlo in questo decreto, di aprire una consultazione pubblica su questo tema". Il presidente del Consiglio ha sottolineato come la questione del valore legale del titolo di studio sia un problema annoso per gli italiani. È un tema discusso dai tempi di Einaudi, che nel 1947 pubblicò uno scritto dal titolo "La vanità dei titoli di studio" e poi, nel 1955, un altro dal titolo "per l’abolizione del valore legale del titolo di studio".

Tra le misure contenute nel decreto, ci sono novità per gli immigrati. Infatti, "fermo restando il limite di nove mesi, l'autorizzazione al lavoro stagionale si intende prorogato e il permesso di soggiorno può essere rinnovato in caso di nuova opportunità di lavoro stagionale offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro", si legge nel testo.

Nel documento, inserito anche un articolo che introduce i viaggi low-cost per giovani, anziani e disabili. Novità anche per i beni confiscati alla mafia: "I beni immobili sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata che hanno caratteristiche tali da consentirne un uso agevole per scopi turistici possono essere dati in concessione a cooperative di giovani di età non superiore a 35 anni".

Inoltre, da maggio tutti i versamenti nei confronti dell'Inps dovranno essere fatti con strumento di pagamento elettronici. Il tutto per "favorire la modernizzazione e l'efficienza degli strumenti di pagamento, riducendo i costi finanziari e amministrativi derivanti dalla gestione del denaro contante e degli assegni, a decorrere dal primo maggio 2012 tutti i pagamenti e tutti i versamenti delle somme dovute a qualsiasi titolo nei confronti dell'Inps sono effettuati esclusivamente con strumenti di pagamento elettronici bancari o postali".

Pronto anche un piano di messa in sicurezza per le scuole e di costruzione di nuovi edifici "al fine di assicurare il tempestivo avvio di interventi prioritari e immediatamente realizzabili".

Tra le altre misure, sono previste più connessioni a banda larga per cittadini e imprese nell'uso di servizi digitali per promuovere la crescita di capacità industriali a sostegno di sviluppo di prodotti e servizi innovativi.

Per quanto riguarda il rinnovo dei documenti, la carta di identità avrà una validità maggiore rispetto ad oggi, la scadenza sarà estesa fino alla data di nascita del titolare.

Dal primo gennaio 2013, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal Codice dei contratti è acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l'Autorità. In materia di appalti, arriva poi la "responsabilità solidale" tra datore di lavoro, appaltatore ed eventuali subappaltatori. Mentre le piccole e medie aziende potranno avvalersi della dichiarazione unica ambientale.

Controlli meno asfissianti e soprattutto più trasparenti: le amministrazioni dovranno pubblicare sul proprio sito e su www.impresainungiorno.gov.it la lista dei controlli a cui sono assoggettate le imprese.

Si semplifica la procedura per l'astensione anticipata delle donne dal lavoro in caso di gravidanze più complesse. Così come le procedure per l'assunzione di lavoratori extra-europei. Pubblica amministrazione più agevole con l'agenda digitale Rapporti più moderni tra pubblica amministrazione, cittadini e imprese.

"Le tessere di riconoscimento rilasciate dalle amministrazioni dello Stato hanno durata decennale: le tessere quinquennali in scadenza sono prorogate per un quinquennio".

Meno burocrazia per le persone con disabilità: il dl semplificazioni elimina le inutili duplicazioni di documenti e di adempimenti nelle certificazioni sanitarie; il verbale di accertamento dell’invalidità potrà sostituire le attestazioni medico legali richieste, ad esempio, per il rilascio del contrassegno per parcheggio e accesso al centro storico, l’IVA agevolata per l’acquisto dell’auto, l’esenzione dal bollo auto e dall’imposta di trascrizione al Pra.

E non è una barzelletta...


"Vado in ritiro", aveva spiegato sul web. Invece il prete era sulla Costa Concordia affondata all'Isola del Giglio. Una storia tragicomica quella di don Massimo Donghi, che dice di chiudersi in preghiera eppure va su un gigante del mare tutto luci, comfort e divertimento. Una storia tragicomica resa ancor più grottesca dal fatto che il Don, nel 2010, si vide pubblicare una lettera da Famiglia Cristiana, una missiva nella quale si scagliava contro i "vizi" e "l'immoralità" del governo, ovvero di Silvio Berlusconi. Beccato su Facebook - Don Massimo, responsabile per la zona di Besana Brianza degli oratori, della catechesi e dell'Unione pastorale giovanile, è stato pizzicato sul web. L'incidente del Giglio, infatti, ha svelato che il sacerdote non si trovava in nessun ritiro: era a bordo della Concordia insieme ai familiari più intimi. Ad incastrarlo è stato un post della nipote su Facebook: la notte del naufragio la giovane si è salvata, e appena giunta a riva ha rassicurato i parenti (online), spiegando che era riuscita a raggiungere le scialuppe di salvataggio insieme alla nonna. E allo zio, appunto, don Max. I parrocchiani di Besana Brianza, per inciso, non hanno gradito: ora chiedono chiarimenti. La lettera anti-Cav - Qualche chiarimento, infine, potrebbe chiederlo anche Silvio Berlusconi, additato nella missiva che segue, pubblicata il 10 novembre del 2010, come la causa di tutti i mali italiani. Ma come, farsi fare la ramanzina da un prete che finge un ritiro spirituale e poi va in crociera? Ecco la lettera:

Come cittadino, educatore e insegnante, e non da ultimo come “prete d’oratorio” che vive tutti i giorni a contatto con ragazzi, adolescenti e giovani, ancora una volta rimango davvero “sconcertato”. Mi lascia sempre più perplesso la mancanza di dignità, sobrietà di comportamento e di “stile” in chi ha “giustamente” il diritto di guidare e servire il nostro Paese, ma anche il dovere di farlo con profondo rispetto del ruolo istituzionale che occupa. Vivo, in questo periodo, due stati d’animo contrastanti: da una parte, l’entusiasmo e la soddisfazione per la scelta dei nostri vescovi di puntare, per il prossimo decennio, sul tema dell’educazione (Educare alla vita buona del Vangelo); e dall’altra, una profonda insofferenza nel constatare, nei comportamenti di chi “democraticamente” ci governa e ci rappresenta, una costante doppiezza tra vita pubblica e vita privata, tra impegni istituzionali e vizi domestici, tra sorrisi pacifici e occulti complotti. Mi è difficile continuare a lasciar passare, a sdrammatizzare, a distogliere l’attenzione, a non “giudicare”. Credo che “educare alla vita buona del angelo” voglia anche dire farlo con libertà, rispetto e chiarezza. Ringrazio Famiglia Cristiana per questa “chiarezza”, che fa nel rispetto!

di don Massimo Donghi da Famiglia cristiana del 10 novembre 2010

Strane storie... italiche


Possiamo compiacerci che il ministero degli Affari Esteri utilizzi per i propri funzionari gli stessi criteri di valutazione e di censura del Festival di Sanremo. Il problema che si è posto il ministro Terzi, incerto se indossare le vesti di Pippo Baudo o di Gianni Morandi, è come e cosa canta il console Vattani, in che genere si è misurato, melodico, rock o politico. Già l’anno scorso si era posta la questione per l’ammissione, in perfetta par condicio, di due interpretazioni di Bella ciao e Giovinezza giovinezza. Belle canzoni, ma d’ispirazione politica, una comunista, l’altra fascista. Eppure soltanto canzoni, non necessariamente corrispondenti alla fede politica manifestata con tessere o proclami. Io posso cantarle entrambe, e con me il ministro Terzi, senza essere né l’uno né l’altro, fascista o comunista. Sono orecchiabili, ovvero ci suonano nell’orecchio a me come a lui, e a tanti altri, non più giovanissimi.

Il nostro coetaneo Santoro canticchia Bella ciao in televisione, in una rete di Stato e in dichiarato antagonismo con il governo vigente. Nessuno gliel’ha proibito e nessuno ha minacciato sanzioni per questo. Il modello di Sanremo, più equilibrato di quello della Farnesina, ci insegna intanto che la ragione per cui è inopportuno canticchiare quelle due canzonette è perché esse sono espressione di regimi totalitari. E che nessuno può onestamente affermare che il comunismo con le violenze, le deportazioni, la mortificazione della libertà di parola e di stampa sia un regime più tollerabile del regime fascista. Sono equivalenti. Eppure non mi risulta che nessun ministro degli Esteri abbia sottoposto a inchiesta disciplinare o richiamato in Italia un diplomatico perché ha cantato Bella ciao o si è anche pubblicamente proclamato comunista. Sembra legittimo ed è certamente tollerato manifestare simpatie in quella direzione come nobile manifestazione ideologica. Ma il fascismo resta inopinatamente tabù nonostante i suoi effetti siano cessati molto tempo prima di quelli dei regimi comunisti, alcuni ancora in vigore e con cui la diplomazia italiana intrattiene importanti e convinte relazioni.

Parimenti, un’altra categoria, quella dei magistrati, ha dichiarati militanti che nelle espressioni delle loro convinzioni, nessuno ha stigmatizzato come se potessero essere di pregiudizio alle funzioni. Infatti, ci si chiede davanti al ragguardevole curriculum di Vattani: in che cosa le sue convinzioni politiche «cantate» hanno condizionato o alterato il suo compito - mi dicono esemplarmente svolto - in Giappone? In che cosa le canzoni cantate in Italia in una riunione di CasaPound, come un circolo dei tanti che i diplomatici frequentano, ha compromesso le funzioni di Console ad Osaka o ha messo in imbarazzo i suoi interlocutori giapponesi? Vattani è sempre stato attivo, conosce il giapponese, ha curato la regia di molti bilaterali di politici ed imprenditori italiani e giapponesi, è sempre stato capace ed efficace, per universale riconoscimento, a partire dal concorso dove nessuno gli ha chiesto che simpatie politiche avesse. Non doveva cantare? Non doveva cantare. Ma i grotteschi fervorini, le allusioni al padre Umberto che va in motocicletta, in tuta di pelle nera (sic), le illazioni sullo svolgimento del suo compito (espresse, per esempio, da Francesco Merlo) chiedevano che il ministero lo difendesse per il ruolo che svolge e per come lo svolge, e non si facesse influenzare da indiscrezioni giornalistiche su vicende totalmente private.

Nel commemorare Giorgio Bocca Merlo non ha ritenuto necessario ricordare il suo passato antisemita e la sua adesione al fascismo, che non hanno in alcun modo limitato, pur manifestandosi nella stessa professione, i meriti acquisiti dal celebre giornalista. Qualcuno può aver pensato che il suo valore si dovesse misurare su quel suo errore giovanile? Vattani fascista equivale a Bocca fascista; ma non sono ragioni sufficienti a contrastare la coerenza e il rigore professionale dell’uno e dell’altro. Io non ho visto, nei filmati incriminati, saluti romani, non ho sentito enormità diverse da quelle di certe canzoni di Vasco Rossi o di Lucio Dalla, e non capisco cosa debba sindacare la Farnesina rispetto a un incontro privato le cui immagini e il cui sonoro risultano rubati. Mi sarei aspettato che il ministro degli Esteri dicesse questo, elencando i meriti o stigmatizzando i demeriti professionali di Vattani. Per le prediche, o le questioni di opportunità, l’unico che ha podestà su Vattani, è il padre.

giovedì 26 gennaio 2012

Su Michel Martone il fortunato

Martone, nessuno è perfetto. Ecco come fu giudicato


Quel raccomandato del viceministro del Lavoro avrebbe potuto guardare la trave del suo percorso professionale prima di aprire bocca e dire che chi si laurea a 28 anni è uno sfigato. Michel Martone, 38 anni, è un tipico prodotto dell'accademia familistica italiana. Intanto il babbo, che di recente, recuperato tempo libero grazie al pensionamento forzato da parte del Csm, ha aperto un blog  per difendersi dalle accuse che gli sono grandinate. Ecco, papà è Antonio Martone, giudice di peso a cui a fine carriera è stato negato il titolo onorifico di procuratore generale aggiunto della Cassazione (gli spettava per anzianità). Già membro della Fondazione Craxi, è stato presidente dell'Authority scioperi e della Commissione anti-fannulloni per volontà di Renato Brunetta, è stato un assiduo dello studio legale Previti e partecipò alla cena a casa Verdini il 23 settembre 2009 - in uno straordinario palazzo d'arte ai piedi del Campidoglio romano - dove la P3 (lui non fu mai accusato di farne parte, fu però sentito dal sostituto procuratore Capaldo sul tema) cercò di acchittare il Lodo Mondadori favorevolmente a Silvio Berlusconi. Ecco, il figlio Michel, che da Brunetta ha ottenuto una consulenza da 40 mila euro mentre papà bacchettava i nullafacenti, è stato un razzo a scuola. Spigliato, cresciuto a pane e codici, amicizie altolocate di passaggio in salotto e citazioni di Talleyrand la sera a cena. Ma nei passaggi delicati della sua corsa affannata è arrivata sempre l'attenzione degli esaminatori, qualcosa che somigliava a un trattamento di favore. A 23 anni è stato dottorando (appena laureato, quindi) e si manteneva facendo il dog sitter. A 26 anni è stato ricercatore di ruolo, già a 27 professore associato e a 29, niente meno, professore ordinario. Un lampo per l'università italiana, dove l'età media per diventare ricercatore è di 35 anni.

Il viceministro che ha polverizzato le tappe accademiche non è sempre stato all'altezza del suo passo, però. Della sua velocità. Il passaggio al concorso per diventare professore ordinario all'Università di Siena (dovrà trasferirsi a Teramo, tuttavia, per iniziare a insegnare) mostra balbettii fin qui non evidenziati. Il posto gli fu sorprendentemente assicurato, ma solo dopo sferzanti ramanzine. Come andò? Andò che durante quel concorso, tenutosi tra gennaio e luglio 2003, su otto iscritti sei si ritirarono. Restarono solo Franca Borgogelli e Michel Martone figlio di Antonio. Dei due, la Borgogelli aveva il passato accademico più solido. Diplomata nel 1970, laureata nel 1975 in Scienze Politiche, nel 1982 prese una seconda laurea in Giurisprudenza (questa a trent'anni). Nel 1983 la Borgogelli diventò ricercatrice di ruolo, incarico che ricoprì per 17 anni. Poi fu nominata professore associato. Più di quaranta le pubblicazioni nell'arco di un ventennio, la commissione la promosse all'unanimità a professore ordinario: 5 esaminatori su 5. Michel, invece? Bretella dandy, ricciolo fluido, aveva ottenuto diverse docenze considerata l'età, soprattutto in ambiti confindustriali e di libere università confessionali. Ma aveva pubblicato poco. Due lavoretti, presentò al concorso. Due monografie, una addirittura consegnata in edizione provvisoria (per prassi, quindi, non ammissibile, ma gli esaminatori di Siena non badarono alla forma). Ancora, Martone junior passò il concorso con 4 voti su 5 (il professor Franco Liso lo bocciò sonoramente) e i giudizi sulla sua attività di ricerca furono concordi: sveglio e con personalità, ma acerbo sul piano scientifico. La giovane età, le tappe infilate alla velocità di Usain Bolt, si scoprirono allora un limite. Non abbastanza grande da impedirgli di diventare "prof".

Ascoltate i giudizi dei cinque esaminatori: "I numerosi riferimenti a fatti e a metodologie di analisi sono caratterizzati talvolta da passaggi argomentativi non del tutto esaustivi". Poi, "permane la difficoltà di individuare una chiara ipotesi di lavoro". Ecco: "Martone dimostra di trattare con spigliatezza gli argomenti prescelti e di adoperare correttamente il linguaggio giuridico, ma di dover ulteriormente affinare il ricorso al metodo storico ed interdisciplinare. E' auspicabile che la già acquisita maturità scientifica si consolidi ulteriormente in futuro in una produzione più diversificata". Il professor Marcello Pedrazzoli confermò una maturazione disciplinare ancora da venire, ma offrì la cattedra da ordinario riempendo il giudizio di auspici: "Nonostante questi elementi di discutibilità, da ascrivere per così dire alla sua giovinezza scientifica... Le notevoli qualità su cui può contare avranno occasione di manifestarsi appieno quando sarà trascorso il tempo occorrente per la loro sedimentazione... Viene quindi per lo stesso formulato un positivo giudizio, anche prognostico". Il giudizio deve essere per forza prognostico - una prognosi, un'indicazione futura - perché la preparazione al contemporaneo esame era da degenza certa. In attesa della sedimentazione, si parla delle potenzialità del giovane Martone, ma si dice anche che i riconoscimenti dovranno avvenire "in un'occasione in cui la dichiarazione della sua piena maturità costituisca frutto più di una certificazione che di una aspettativa". I giudizi sono chiari: ripassi a settembre. Poi, però, il posto da baby-ordinario la commissione puntuta lo ha impacchettato lo stesso. Per Martone speed.

Immigrazione, punti di vista

Una soluzione di buon senso di Giovanni Sartori

Non sappiamo se l'Europa verrà sottoposta nei prossimi anni a migrazioni bibliche a seguito della «primavera araba» che senza dubbio ha rotto le dighe che sinora la frenavano. Il fatto è che l'esplosione demografica dell'Africa è già avviata; e siccome gli affamati non cercano la salvezza tra altri affamati, è piuttosto ovvio che un numero sempre crescente di povera (poverissima) gente cercherà la salvezza in Europa. È un problema, questo, che sinora abbiamo affrontato in chiave ideologica (di razzismo o no), che è un modo di renderlo insolubile o comunque mal risolto. Ma due giorni fa Beppe Grillo lo ha inopinatamente risollevato. Tanto vale, allora, ricominciare a pensarci. E avrei un'idea, una proposta.

Inghilterra e Francia sono a oggi i Paesi più «invasi» (anche per via della loro eredità coloniale) e oramai accomodano una terza generazione di immigrati da tempo accettati come cittadini. La sorpresa è stata che una parte significativa di questa terza generazione non si è affatto «integrata». Vive in periferie ribelli e ridiventa, o sempre più diventa, islamica. Si contava di assorbirli e invece si scopre che i valori etico-politici dell'Occidente sono più che mai rifiutati. Che senso ha, allora, trasformare automaticamente in cittadini tutti coloro che nascono in Italia, oppure, dopo qualche anno, chi risiede in Italia? Questa è stata, finito il comunismo, la tesi della nostra sinistra, sostenuta dall'argomento che chi lavora e paga le tasse in un Paese si paga, per ciò stesso, il diritto di cittadinanza. Ma non è così. Le tasse pagano i servizi (polizia, pompieri, manutenzione delle strade e simili) dei quali qualsiasi residente usufruisce e che non paga, o meglio che paga, appunto, pagando le tasse.

E vengo alla mia idea. Da sempre il diritto di cittadinanza è fondato sui due principi del ius soli (diventi cittadino di dove nasci) oppure del ius sanguinis (mantieni la cittadinanza dei tuoi genitori). Vorrei proporre un terzo principio: la concessione della residenza permanente trasferibile ai figli, ma pur sempre revocabile. Chiunque entri in un Paese legalmente, con le carte in regola e un posto di lavoro non dico assicurato ma quantomeno promesso o credibile, diventa residente a vita (senza fastidiosi e inutili rinnovi). In attesa di scoprire quanti saremo, se li possiamo assorbire o meno, questa formula dà tempo e non fa danno. Certo, se un residente viene pizzicato per strada a vendere droga, a rubare, e simili, la residenza viene cancellata e l'espulsione è automatica (senza entrare nel ginepraio, spesso allucinante, della nostra giurisprudenza). Insisto: l'inestimabile vantaggio di questa formula è che dà tempo. Quanti saremo? Quale sarà il punto di saturazione invalicabile? L'unica privazione di questo status è il diritto di voto; il che non mi sembra terribile a meno che i residenti in questione vogliano condizionare e controllare un Paese creando il loro partito (islamico o altro). Se così fosse, è proprio quel che io raccomanderei di impedire.

***

La mia conclusione, è l'unica e possibile soluzione di buon senso, ossia quella di farli restare dove sono.

Errori gravissimi


Mario Monti ha assicurato l'Unione Europea che il governo italiano opererà con la massima fermezza per impedire che i manifestanti dei Tir blocchino la libera circolazioni delle merci nella penisola e dalla penisola agli altri paesi europei. E per dare sostanza a questa sua assicurazione il Presidente del Consiglio ha chiesto ai prefetti di intervenire contro gli scioperi ed i blocchi stradali usando lo strumento della precettazione.

Per Monti si è trattato di un passo quasi obbligato. Non può chiedere per l'Italia aiuto all'Europa se poi non dimostra che l'Italia non è in grado di garantire quella libertà dei commerci che è la condizione essenziale per l'integrazione europea. Nessuna critica, allora, può essere mossa al governo per un atto praticamente dovuto. Ciò che va invece contestato è il modo enfatico con cui i media che hanno favorito l'avvento del governo tecnico ed ora lo sostengono con il massimo impegno stanno presentando il comportamento scontato di un esecutivo che non può non ribadire, soprattutto agli occhi europei, la volontà di garantire il rispetto della legalità all'interno del paese. Questi media, infatti, non si limitano a giustificare l'azione governativa in nome delle norme di legge che vietano i blocchi stradali e consentono ai prefetti di applicare la precettazione per assicurare la libera circolazione. Fanno molto di più. Si comportano sulla base di un riflesso pavloviano tipico della stampa dei regime autoritari e, per esaltare l'azione del governo, tendono a criminalizzare ogni forma di dissenso sociale.

Così i tassisti che si radunano di fronte a Palazzo Chigi vengono presentati come teppisti di strada pronti ad ogni nefandezza, i camionisti che scioperano come dei selvaggi disposti a compiere ogni genere di violenza, i farmacisti che protestano come degli ottusi privilegiati che attentano alla salute dei cittadini e via di seguito. Non c'è una sola categoria che agli occhi della stampa di regime che abbia il diritto di manifestare le proprie opinioni e difendere le proprie ragioni nei confronti del governo. Dietro ogni protesta, secondo gli zelanti propagandisti dell'esecutivo di Mario Monti, c'è sempre e comunque lo zampino o la manona di qualche organizzazione criminale. Così dietro il movimento dei “forconi” siciliani c'è necessariamente e solo la mafia. Dietro le agitazioni dei camionisti ci sono gli interessi dei “padroncini” che per definizione sono degli evasori fiscali per di più adusi ad ogni forma di violenza. Ed i tassisti, poi, oltre ad essere anche loro per definizione “brutti, sporchi e cattivi”, rappresentano da sempre le frange più dure ed intransigenti di una estrema destra eversiva e tendenzialmente bombarola.

Il governo non è responsabile di questa criminalizzazione del dissenso sociale compiuta con grande partecipazione ed enfasi dalla stampa di regime. Ma accetta ben volentieri di lasciarsi sostenere da questi sostenitori non richiesti nella non dichiarata convinzione che l'entusiastico consenso assicurato all'azione dell'esecutivo dai giornalisti più montiani di Monti possa garantire un identico consenso da parte della maggioranza dell'opinione pubblica del paese. Si tratta di un errore. Non lieve ma gravissimo. Perché la criminalizzazione delle tensioni sociali, oltre ad essere un metodo tipico dei più beceri regimi autoritari, serve solo ad incancrenire ed aggravare i problemi. Non è bollando come “mafiosi” i pescatori e gli agricoltori siciliani massacrati dall'aumento dei prezzi che impedisce loro di lavorare che si creano le condizioni per far loro riprendere l'attività produttiva. E non è bollando come mascalzoni camionisti e tassisti su cui incombe il rischio concreto di veder dimezzati i propri redditi e di subire un processo irreversibile di proletarizzazione, che si può tornare a circolare liberamente nelle città e sulle strade italiane. Al dissenso sociale vanno date risposte. Non anatemi. Monti si guardi dai suoi forsennati sostenitori mediatici. Sempre che voglia rimanere Monti e non diventare Fidel Castro!

Le liberalizzazioni che ci salveranno


Venerdì inizierà l'esame del Consiglio dei ministri sul decreto semplificazione, che promette di tagliare 430 mila leggi. Difficili immaginarsi che una volta compiuta l'opera il premier Monti si faccia immortalare come Roberto Calderoli, che ai tempi si fece fotografare in bella posa, davanti al muro di fuoco dei faldoni che contenevano le norme spazzate via dopo averle cosparse di benzina. Troppo low-profile, il premier. Eppure anche il sobrio professore ha infilato nel decreto una disposizione decisamente sopra alle righe. La norma rumba, salsa, merengue e cha cha cha. Il decreto, infatti, prevede l'abrogazione di qualsiasi autorizzazione per l'apertura dei locali di intrattenimento danzante e di circoli privati. In poche parole, Monti diventa il paladino del ballo libero.

Il decreto prevede inoltre il divieto al questore di chiudere in via preventiva circoli e discoteche per motivi di ordine pubblico. Secondo le nuove leggi, la chiusura potrà avvenire soltanto su ordine motivato dell'autorità giudiziaria. E allo stesso modo le forze dell'ordine potranno entrare nei locali soltanto su disposizione del giudice. Il prof ha un'incontenibile voglia di buttarsi in pista: Monti Manero è affetto da febbre del sabato sera. La norma non piace alla Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi della Confcommercio. "In base al testo in circolazione sarebbe consentito, senza autorizzazione alcuna, organizzare eventi danzanti o aprire locali da ballo, e verrebbe meno anche il requisito morale per l'apertura dei circoli". Secondo Fipe ciò significherebbe "non contrastare più i rave party oppure facilitare la vita alla criminalità organizzata che non avrebbe più bisogno neanche di trovarsi un prestanome per riciclare denare sporco". Sorge un dubbio. Forse Monti, nel suo incessante e proficuo legiferare, ha fatto confusione: Mario liberalizza i rave party?

La svendita pesarese e le coscienze addormentate


Giorgio Napolitano sorride a trentadue denti. E' soddisfatto della sortita del presidente della Provincia di Pesaro Urbino, il 37enne piddì Matteo Ricci, che, in attesa della riforma legislativa, ha deciso di concedere la cittadinanza onoraria a oltre 4mila bambini, figli di immigrati che lavorano nel nostro Paese. D'altra parte il presidente della Repubblica ha più volte ripetuto la ferrea volontà che il parlamento legiferi in tal senso: "Negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri è un’autentica follia". La mossa di Ricci è solo uno spot, non ha alcun valore giuridico, ma apre la strada a quella riforma tanto voluta dalla sinistra nostrana. Nei giorni scorsi non era affatto passata inosservata al Quirinale l’ultima sortita di Beppe Grillo. Il comico genovese si era detto contrario al progetto di dare la cittadinanza italiana ai figli di lavoratori stranieri che nascono in Italia. "Un progetto senza senso, un puro diversivo", aveva commentato. Napolitano non si è nemmeno curato di rispondere al leader del Movimento 5 Stelle: ha preferito elogiare il presidente della Provincia di Pesaro Urbino. A detta dello stesso Ricci, l'idea di "regalare" la cittadinanza onoraria ai figli degli immigrati avrebbe preso spunto proprio dagli appelli di Napolitano.

Lo scorso novembre, in due discorsi ufficiali al Quirinale, il presidente della Repubblica aveva sottolineato la necessità di dare, fin dalla nascita, la cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri nati in Italia. "Non farlo - aveva spiegato - non so se definirla un’autentica follia, un’assurdità a cui dobbiamo porre subito rimedio con una riforma legislativa". Secondo il Capo dello Stato, la maggior parte dei bambini che frequentano le scuole italiane si sentono italiani: "Aspirano ad esserlo e non capiscono perché devono aspettare fino a diciotto anni per esserlo a tutti gli effetti". Una presa di posizione, quella di Napolitano, che aveva suscitato lo sdegno di numerose forze politiche. Per questo motivo Ricci ha deciso di anticipare il parlamento trovando una sponda anche nel governo tecnico. Alla cerimonia, che si terrà nei prossimi mesi, interverrà infatti il ministro per l'Integrazione Andrea Riccardi. Il progetto dell'esponente del Pd (sebbene di carattere unicamente ideologico) ha letteralmente mandato in sollucchero il Quirinale. Tanto che la consulente per i problemi della coesione sociale, Giovanna Zincone, ha auspicato che l’esempio della Provincia di Pesaro Urbino "possa essere seguito anche da altre realtà territoriali" e che la cittadinanza onoraria possa essere "la premessa all’effettivo riconoscimento della cittadinanza italiana a quanti nascono nel nostro Paese da genitori stranieri stabilmente residenti". Nel frattempo la Provincia di Pesaro Urbino sta valutando la possibilità di organizzare una festa con la consegna ai ragazzi di una copia della Costituzione italiana e di una maglia della Nazionale di calcio. "Chissà se riusciamo - ha detto il presidente della Provincia - a coinvolgere anche Prandelli o un giocatore azzurro". Uno trovata pubblicitaria, insomma.

Conflitto d'interesse? Si, ma non ditelo a nessuno


I mmaginate il figurone che avrebbe fatto, dando le dimissioni subito. Coro di elogi: finalmente uno che non ci prova neanche a tenere i piedi in due scarpe! Non lo ha fatto, purtroppo. Anzi, ha chiesto all'Antitrust: devo proprio lasciare la presidenza del Cnr? Così, giorno dopo giorno, il ministro Francesco Profumo ha finito per dar l'impressione, gli piaccia o no, di volersi tenere quella sedia di riserva. Come si tiene di riserva la «morosa vecia», non si sa mai, in attesa di vedere come va la nuova.

La legge 193 del 2004, in realtà, pare chiara. All'articolo 2 dice che «il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non può (...) ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico». E gli dà, all'articolo 5, scadenze precise: «entro trenta giorni dall'assunzione della carica di governo, il titolare dichiara all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (...) le situazioni di incompatibilità». Dopo di che, se proprio ci fosse qualche dubbio interpretativo, «entro i trenta giorni successivi al ricevimento delle dichiarazioni di cui al presente articolo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni provvedono agli accertamenti...» eccetera eccetera. Profumo, accolto con dichiarazioni di pubblica stima da una larga parte del mondo della politica, della scuola e dell'università, ha giurato in Quirinale il 16 novembre. I primi 30 giorni sono scaduti il 16 dicembre, i secondi 30 giorni il 15 gennaio. Da allora ne sono passati un'altra decina. Senza che venisse fatta chiarezza.

Un mucchio di tempo, per un governo così rapido e operativo in altre decisioni da riuscire, nel giro di un paio di settimane dall'insediamento, a cambiare la prospettiva di vita e di pensione a milioni di persone. Un mucchio di tempo. Trascorso senza che l'esecutivo mostrasse su questo punto (come sulla scelta della trasparenza assoluta delle ricchezze immobiliari e finanziarie, dei vitalizi e delle prebende, dei voli blu e altro ancora) la fretta e il decisionismo sventolati in altri settori. Al punto che lo stesso titolare della Pubblica istruzione e dell'Università, incalzato dai giornalisti dopo che il tempo era già scaduto e mentre sul Web divampava la protesta dell'Usi e altri sindacati del pubblico impiego e dei ricercatori che si riconoscono nel sito «articolo 33.it», ha insistito: «Sto aspettando la risposta dell'Antitrust». In ogni caso, ha aggiunto, «da quando sono stato nominato ministro è stato nominato un vicepresidente al Cnr che se ne occupa e c'è pure un sottosegretario che ha la delega».

Peccato. Peccato perché, se anche non ci fosse una legge che ai comuni mortali sembra assolutamente ovvia, quelle due poltrone sono così platealmente incompatibili che pare perfino impossibile (e anche un po' umiliante) dovere ricordare come controllore e controllato, in un paese normale, non possano coincidere nella stessa persona non solo per due mesi abbondanti ma neanche per due minuti. E stupisce che un uomo di statura professionale e scientifica, non il solito vecchio occupatore sudaticcio di poltrone clientelari, possa immaginare che sia sufficiente la scelta di «autosospendersi» dalla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche. Come se non si rendesse conto di quanto la riluttanza a mollare la prestigiosa poltrona avuta soltanto pochi mesi prima di diventare ministro stia pericolosamente rosicchiando la sua credibilità agli occhi di chi cerca nella politica delle figure diverse, limpide e generose in cui credere e riconoscersi.

Peccato per lui, peccato per il mondo della scuola affamato di punti di riferimento dopo la contestatissima stagione di Maria Stella Gelmini, peccato per il Cnr. Il quale, come spiegava giorni fa Massimo Sideri sul «Corriere» rivelando lo spinosissimo atto d'accusa della Corte dei conti contro gli sprechi del nostro massimo istituto di ricerca, ha bisogno di essere rovesciato come un calzino. Sono anni che, mentre ragazzi di genio come il romano Alessio Figalli erano costretti ad andare a conquistarsi a 26 anni una cattedra di matematica all'università texana di Austin o come il fisico milanese Alessandro Farsi erano spinti a trasferirsi nella newyorkese Cornell University per scoprire il «mantello dell'invisibilità», il Cnr continua a ingrigirsi e ingobbirsi. Basti ricordare gli stupefacenti rincorsi al Tar contro la decisione ministeriale di fissare un'età massima di 67 anni (sessantasette!) per quanti volevano concorrere per i rari posti di direttore d'istituto lasciati finalmente liberi dalla più stravecchia e imbullonata struttura dirigente che mai un ente di ricerca abbia avuto nella storia del pianeta. Una situazione inaccettabile.

Possiamo rassegnarci, come ha denunciato mille volte Salvatore Settis, a regalare agli altri paesi i nostri figli migliori che vanno a vincere la maggior parte dei concorsi internazionali mentre il Cnr, a torto o a ragione, assomiglia pericolosamente sempre più a un carrozzone dove, dicono i giudici contabili, solo il 31% dei soldi finisce nelle strutture scientifiche e tutto il resto se ne va, scriveva Sideri, negli «stipendi del consiglio d'amministrazione, delle segreterie, dei dirigenti amministrativi e della burocrazia centrale»? No. Mai e poi mai. Francesco Profumo è restìo a mollare perché è convinto di avere lo spessore giusto per risanare, appena possibile, il Consiglio Nazionale delle Ricerche? Magari ha addirittura ragione. Ma certo la decisione di restare lì appeso come un caciocavallo a un parere dell'Antitrust non rafforza lui, né il CNR «decollato» (al di là delle perplessità su certe scelte squisitamente politiche ai vertici...) e men che meno il governo al quale appartiene. È impossibile, infatti, che la scelta non venga interpretata dai maliziosi così: si vede che in fondo in fondo non è poi sicuro che Monti duri a lungo...

Gian Antonio Stella

mercoledì 25 gennaio 2012

La banda del loden e la realtà

Brioches per tutti, prego di Marco Cavallotti

«noto una cosa strana che un pochino mi stride... faccio il confronto con il governo precedente scellerato e libertino che se ne fotteva degli italiani, che affamava i pensionati e le casalinghe dovevano rovistare nella rumenta come ci dimostrava il prode sant'oro insomma il governo Berlusconi che giustamente veniva punito con blocchi e scioperi sacrosanti fatti dal nostro eroico sindacato cgil, che veniva punito dai nostri protestatori di professione tipo girotondini senonoraquandini, popolini violacei, giornalisti sinistri che fomentavano folle di folli, magistrati schierati e con le toghe rosse... ah no quelle sono sempre al lavoro... ora noto che tutti costoro sembra che siano completamente rinco dalla banda del loden e a nessuno è passato in mente di dire a questa banda di persone che non ha mai vissuto tra la gente e il popolo che forse la misura è colma e che è ora di dire basta… e questi signorotti ancora non si rendono conto che la gente, noi il popolo, ci siamo rotti e i primi moti di ribellione si accendono e a questo punto speriamo che la fiamma che si sta accendendo sia impetuosa e spazzi via questa casta insopportabile... torniamo a essere un popolo con le palle.»

Così ci scrive un lettore, e la sua lettere non è l'unica. Curiale e pacatissimo, intanto il nostro prof, avvezzo alla quiete di un ateneo mai sfiorato dai casini delle università normali, centellina provvedimenti utili, meno utili e inutili, come se il tempo fosse una variabile indipendente – a proposito, ricordate il "salario variabile indipendente" di Lama? –, e come se, in politica, da che parte si inizia a spennare il pollo fosse indifferente. Intanto le piazze si riempiono di gente imbufalita, i ministri parlano a vanvera invocando con tre o quattro giorni di ritardo la legalità, quando ormai la legalità è finita sotto i piedi: lo hanno capito benissimo anche i magistrati, che hanno guardato dall'altra parte e dell'obbligatorietà dell'azione penale – il loro cavallo di battaglia – si sono d'un botto dimenticati. Ma il professore va avanti, spiega in televisione, dibatte in televisione, perora la causa nazionale in tandem con il Colle, seguito dalla televisione, mentre il pericolo di un vero e proprio sussulto insurrezionale si avvicina. Dategli le brioches, pare abbia detto un'altra incosciente di fronte al Paese in tumulto. Ma erano altri tempi. E poi si sa come è finita.

In fondo Monti ha accettato di farsi interprete dell'esigenza di rinnovamento ora obbligato e improcrastinabile in un Paese che ha fatto di tutto, per mezzo secolo, per impedirlo e procrastinarlo. E lo fa come gli consentono coloro che per decenni questo rinnovamento hanno frenato e impedito. Sindacati come non ce ne sono simili in Europa, dediti alla conservazione ed alla difesa della cultura e dei valori veteroindustriali; partiti diventati rifugio sicuro di disoccupati certi – non lo saranno tutti, sicuramente, ma questo sistema di selezione porta a questi risultati –; una Chiesa incombente e veterosociale che anche oggi parla di "liberalismo selvaggio"; uno Stato concepito, di anno in anno, più pesante e più ingombrante, più invasivo e più occhiuto, per il "bene" del cittadino; una magistratura che da un pezzo confonde e fa pasticci fra giustizia divina e applicazione della legge; un sistema di corporazioni, di posti pubblici privilegiati da distribuire agli amici, di formazione orientata al ribasso ed all'antiselezione… ora si vorrebbe smontare tutto in un colpo, magari con l'aiuto e la guida di chi tutto questo ha contribuito giorno per giorno a costruire. Monti ha accettato un compito praticamente impossibile, e il suo modo di procedere, "tecnico" – si fa per dire – e non "politico", non additando gli obiettivi veri e profondi – che del resto sono nebulosi a ambigui anche per lui, a quanto pare –, ma procedendo disarticolatamente a passo a passo, fa perdere di vista il disegno anche a coloro che, magari, sarebbero disposti al grande salto. Ma oggi dimenticare le piazze potrebbe essere davvero pericoloso. È l'uomo sbagliato per un compito tremendo, per il quale è difficile trovare la guida giusta.

Nuova tassa


Prima, al varo del decreto "cresci Italia" di Monti, piansero i fumatori di trinciato (le sigarette non industriali) ed esultarono i fan delle bionde. Ora, però, piangono anche i fumatori "classici". Le commissioni Affari Costituzionali e Bilancio della Camera hanno infatti dato il via libera alla modifica di un emendamento al decreto milleproroghe che prevede l'aumento dei tabacchi lavorati, ossia delle sigarette. La misura servirà a coprire le maggiori uscite dovute alle modifiche apportate sempre in sede di commissioni che riguardano le pensioni dei cosiddetti lavoratori esodati e precoci che potranno ora andare in pensione con le norme vigenti prima della prima manovra del governo dei tecnici.

Non si toccano gli autonomi - La precedente versione del milleproroghe, quella che era stata licenziata dalle commissioni, prevedeva che la copertura derivasse da un innalzamento dei contributi previdenziali per i lavoratori autonomi. La norma aveva registrato la contrarietà del ministro del Welfare, Elsa Fornero, e delle categorie interessate. In principio la modifica aveva reso necessario il ritorno del decreto in commissione dopo l'approdo nell'Aula di Montecitorio. La soluzione trovata in commissione è di compromesso. Il Pd, da una parte, non accettava il balzello sulle previdenza a sfavore dei lavoratori esodati (ossia licenziati o che si sono dimessi). Dall'altra il Pdl si è opposto all'idea di recuperare i saldi andando ad incidere nuovamente sui lavoratori autonomi. A pagare, alla fine, saranno i fumatori.