mercoledì 30 giugno 2010

Magistratura malata


Milano - Perfetta la mira, traballante la psiche. Era annebbiato, Massimo Tartaglia. Quel pomeriggio, in piazza Duomo, qualcosa si era spento nella sua testa. Quando prese una miniatura del Duomo, e la lanciò in faccia al premier. Scollegato, prima di ferire al volto il presidente del Consiglio. Confuso, tanto da mandarlo in ospedale con un taglio al labbro, un altro sotto l’occhio e un dente spezzato. Pericoloso? Non abbastanza. Perché Tartaglia - il perito elettrotecnico, l’inventore di (in)successo - è stato assolto. Assolto perché non imputabile. E non imputabile perché incapace di intendere e volere al momento del fatto. Quel black out che l’ha fatto arrestare e la «patente» del matto ora gli evitano una condanna.

Così, ieri, ha deciso il giudice per le udienze preliminari di Milano Luisa Savoia, al termine del processo con rito abbreviato. Il gup - anche e soprattutto sulla scorta della perizia psichiatrica che ne ha attestato l’instabilità mentale - ha così accolto la richiesta di proscioglimento del procuratore aggiunto Armando Spataro, e disposto che Tartaglia venga sottoposto per un anno alla libertà vigilata con l’obbligo di conformarsi alle indicazioni fornite dal direttore del centro di recupero dove si trova da quando, dal febbraio scorso, è uscito dal carcere. In più, unica concessione alla sicurezza altrui oltre che a quella dell’imputato, al perito sarà vietato partecipare per un anno alle manifestazioni pubbliche. I suoi legali, gli avvocati Daniela Insalaco e Gian Marco Rubino, avevano invece chiesto - oltre all’assoluzione - anche la concessione della libertà. Tartaglia, dicono, non è socialmente pericoloso. Lo è, invece, per i periti.

«Siamo sollevati dalla decisione del giudice - dicono i genitori dell’imputato -, senza dubbio quando Massimo ha agito era incapace di intendere e di volere. Non so quali saranno gli sviluppi, ma mi auguro che presto potremo riabbracciarlo. Abbiamo incontrato spesso Massimo negli scorsi mesi e ultimamente lo abbiamo trovato più tranquillo. Continua la sua terapia e rimane sotto osservazione, e in questi giorni era un po’ teso per il processo». Così, quando gli hanno detto dell’assoluzione, Tartaglia ha risposto ai suoi avvocati dall’interno del suo mondo stralunato. «Cosa significa, che ora posso andare alla vasca dei pesci?». Probabilmente sì. Anche perché, con la sentenza di ieri, esce quasi pulito da una vicenda che l’aveva proiettato dal più oscuro anonimato alla ribalta mondiale.

Lo stesso presidente del Consiglio era stato generoso con lui. «L’ho perdonato - disse Berlusconi poco prima di Natale -, ma nel giudicarlo la magistratura non lasci passare il messaggio che si può colpire liberamente il premier». Ora, non è chiaro se quel messaggio sia passato o no. Per Daniele Capezzone, portavoce Pdl, «questa decisione lascia grandi preoccupazioni e perplessità». «Tartaglia - prosegue Capezzone - a dicembre è giunto a un passo dall’omicidio di Silvio Berlusconi (in realtà, l’accusa è di lesioni aggravate, ndr). Oggi tutto finisce così. Non è un po’ poco?». E qualche dubbio ce l’ha anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che quel 13 dicembre del 2009 era in piazza con Berlusconi. «Se una persona è riconosciuta incapace di intendere e volere, non posso che affidarmi al giudizio dei tecnici». Però c’è un però, eccome. «Purché non ci marcino troppo - precisa La Russa - non è che prima lanciano il sasso, o meglio il Duomo, e poi nascondono la mano».

Magistratura da ergastolo


TORINO - Prima ha ucciso una ex compagna, sparandole tre colpi di pistola alla testa a Chieri, nel Torinese. Poi ha raggiunto Rivolta D'Adda, in provincia di Cremona, e qui ha ucciso un'altra ex, ancora a colpi di pistola alla testa. Infine ha rivolto l'arma verso se stesso e si è tolto la vita. Si è conclusa tragicamente la folle giornata di Gaetano De Carlo, 55 anni, carrozziere della provincia di Cremona, divorziato con precedenti per molestie e minacce e già denunciato per 7 volte per stalking.

PRIMA VITTIMA - La prima vittima si chiamava Maria Montanaro: è stata uccisa mercoledì mattina a Riva di Chieri, nel Torinese. Aveva 36 anni. L'omicida le ha sparato tre colpi di arma da fuoco al volto, nella sua casa: soccorsa dal personale del 118, è morta prima del trasferimento in ospedale. La Montanaro lavorava come grafica in una tipografia. A Riva di Chieri si era trasferita da pochi mesi, forse proprio per lasciarsi alle spalle la turbolenta storia d'amore con l'uomo di vent'anni più grande di lei. «L'abbiamo vista sempre sola, non sapevamo neanche come si chiamasse lui» dicono i vicini di casa. Sono stati loro, poco dopo le 8, a dare l'allarme: «Abbiamo sentito tre esplosioni - hanno detto ai carabinieri - è successo qualcosa». La donna è stata trovata a terra in una pozza di sangue, all'interno di un monolocale che fa parte di un complesso di villette a schiera di nuova costruzione. E dalle testimonianze emerge anche un sms che la vittima avrebbe ricevuto ieri sera dall'ex: «Vengo lì e ti ammazzo».

SECONDA VITTIMA - Nonostante l'allarme, De Carlo è però riuscito a fuggire e a raggiungere Rivolta D'Adda. Qui, all'interno del Parco della Preistoria, ha ucciso Livia Balcone, 42 anni. Anche lei era una ex dell'uomo, anche se la loro storia era finita 8 anni fa e nel frattempo lei aveva anche un marito ed un figlio, ed era da tempo vittima di stalking da parte sua. De Carlo le ha sparato mentre lei, che aveva avuto una bambina con un altro uomo, si trovava in auto. Il suo assassino è scappato e poco dopo si è ucciso sparandosi un colpo di pistola al capo davanti al cimitero di Truccazzano (Milano) . In questo caso, l'allarme è scattato dopo che alle 17.52 è arrivata al Coeu 118 di Cremona una richiesta di intervento per persona colpita al capo da colpo di arma da fuoco. L'arrivo dei carabinieri ha permesso di identificare il terzo cadavere, quello di Gaetano De Carlo, che a casa sua ha lasciato un biglietto di scuse. Troppo poco per giustificare una strage.

Un ragazzo

No, non era un eroe come erroneamente è stato descritto e ci sono intellettualoidi che ci si sono accaniti sopra dicendo che gli eroi sono altri. Già, lo sappiamo bene quali siano gli eroi, non serve prendersela con lui. Era soltanto un ragazzo come ce ne sono pochi. A me piaceva proprio perchè era così.

Ciao, Guerriero.

Razzismo al contrario

Mentre i bonus bebè vengono bloccati dai magistrati terzomondisti perchè sono discriminatori se vanno solo alle famiglie italiane meno abbienti... alcuni comuni discriminano gli italiani che avrebbero bisogno di casa o soldi e i magistrati tacciono.


Il Comune di Bologna tende la mano agli stranieri extracomunitari a rischio sfratto per via della crisi economica. E la Lega nord insorge: "E' razzismo al contrario". L'amministrazione ha deciso, secondo quanto riporta l'agenzia Dire, di dirottare un fondo ministeriale inizialmente previsto (dall'ex Governo Prodi) per l'inserimento abitativo delle famiglie immigrate ospiti dei centri d'accoglienza. Ora, con quei soldi, verranno pagati contributi a quei nuclei stranieri "che siano in situazione di morosità dovuta agli effetti della crisi economica", ad esempio con problemi di disoccupazione, cassa integrazione, "situazioni di redditività limitata o insufficiente per far fronte al pagamento di canoni di locazione pregressi".

Il progetto. "Territori in rete per l'accesso all'alloggio", era già salito alla ribalta delle cronache. Una torta complessiva da 1,4 milioni di euro (di cui poco meno di 224.000 euro per il Comune di Bologna) a disposizione con fondi del ministero del Lavoro. Sotto le Due Torri si stabilì da parte delle precedenti amministrazioni di centrosinistra di aiutare gli extracomunitari ospiti dei centri d'accoglienza a prendere una casa in affitto (al massimo 5.000 euro a testa per "caparra, prime mensilità di canone ed eventuale corrispettivo dell'agenzia") o per acquistarla ("corrispettivo dell'agenzia immobiliare, spese notarili", sussidio massimo 10.000 euro).

Finora il Comune di Bologna ha speso solo la metà dei contributi, proprio nel momento in cui cresce l'emergenza sfratti (scattano al ritmo di 3.000 l'anno). Ed ecco l'idea di dirottare i fondi rimasti su questa esigenza. "Nell'attuale contesto socio-economico del territorio nazionale sono all'ordine del giorno, anche nel territorio bolognese, il manifestarsi di situazioni di difficoltà abitative legate prevalentemente a situazioni di morosità cui non si riesce a far fronte anche per accadimenti negativi legati alla situazione lavorativa", si legge nella delibera approvata lunedì pomeriggio dalla giunta commissariale. Si è ritenuto pertanto di "prevedere la possibilità di un ampliamento dell'erogazione", verso "altre situazioni di disagio abitativo legato a situazioni di morosità".

In particolare, vengono aiutate quelle "famiglie di immigrati non comunitari, in carico ai servizi sociali del Comune di Bologna, che siano in situazione di morosità dovuta agli effetti della crisi economica". Nella selezione, verrà data priorità "ai nuclei in condizioni di difficoltà economica che incida significativamente sulla capacità di mantenere la disponibilità dell'alloggio in locazione"; di seguito a quelli "con procedimento di rilascio per morosità avviato, che tramite il contributo possano evitare o posticipare lo sfratto, infine a quei nuclei con provvedimento di rilascio in esecuzione, che tramite il contributo ottengano una dilazione del termine di rilascio". La precedenza sarà data in ogni caso "con maggiore fragilità e disagio sociale".

Insorge la Lega nord. Manes Bernardini, consigliere regionale, parla senza mezzi termini di "razzismo al contrario" in merito al provvedimento adottato dal Comune di Bologna. "Se queste persone non hanno la possibilità di vivere o continuare a vivere sul nostro territorio, li si aiuti si', ma per tornare al loro paese- scrive Bernardini in una nota- non possiamo permetterci oggi come oggi di garantire certi privilegi agli stranieri extracomunitari, visto che non riusciamo a garantire neanche i cittadini bolognesi". Il consigliere del Carroccio parla di una misura che "ha dell'assurdo se non dell'incredibile".

Questo, argomenta ancora Bernardini, "è il costo che l'immigrazione clandestina extracomunitaria sta presentando in termini di spesa sociale; la sinistra ci ha raccontato per anni che dovevamo importare lavoratori e manodopera straniera che avrebbe garantito il pagamento delle nostre pensioni e dei nostri servizi. Dopo la beffa il danno, ora siamo noi a dover garantire una casa, con i nostri soldi ed i collegati servizi sociali agli stranieri extracomunitari con sfratto e la loro permanenza sul nostro territorio. Questi soldi devono essere garantiti in primis ai bolognesi ed italiani che versano purtroppo in analoghe situazioni di crisi abitativa".

martedì 29 giugno 2010

Obama e Guantanamo


La chiusura del carcere speciale di Guantanamo sta scivolando sempre più in basso nell’agenda di Obama, tanto che il New York Times, sempre molto in linea con l’Amministrazione, sostiene sia “improbabile che il presidente Obama mantenga la sua promessa di chiuderlo entro la fine del suo mandato, nel 2013”. Dalla fanfara del primo giorno di servizio, quello in cui Obama aveva firmato l’ordine esecutivo per la chiusura di Guantanamo entro un anno, sono passati sedici mesi in cui il presidente ha rimandato, ha fatto nuovi propositi, ha licenziato il consigliere della Casa Bianca a cui aveva affidato il caso, per poi essere costretto ad ammettere che – come qui si sospettava – lo spazio politico e strategico per la chiusura di Guantanamo non c’è.

Il dibattito sul supercarcere istituito da Bush non è fatto di dettagli tecnici. Quando Obama ha firmato per la chiusura, voleva ribaltare l’intera narrazione della giustizia del dopo undici settembre e rovesciare l’idea che ci fosse uno spazio esterno alla giustizia ordinaria dove trattare i più straordinari dei detenuti: i terroristi. Allo stesso modo, la rinuncia obamiana è l’ammissione implicita che il carcere speciale di Bush è il modo più efficace per trattare la minaccia del terrorismo; Obama non ha una vera alternativa a portata di mano, perché un’alternativa radicale non esiste. La testa dell’avvocato della Casa Bianca, Greg Craig, è rotolata proprio nello sforzo titanico di creare una mistica obamiana dei diritti civili uguale e opposta a quella di Bush.

Craig è stato incaricato da Obama di occuparsi del dossier di Guantanamo quattro giorni dopo che le urne l’avevano eletto presidente. Per Obama si trattava della cosa più importante, la sintesi di una visione del mondo, e per questo non c’era tempo da perdere. Ma Craig è crollato sotto i colpi della realtà. L’Amministrazione ha provato diverse vie per chiudere il carcere, e tutti i fallimenti sono stati coperti con problemi tecnici e varie versioni del “ci stiamo lavorando”. Il principio a parole è intatto, ma Craig nei fatti è stato licenziato. Al suo posto è arrivato Bob Bauer, che da subito ha fatto capire che la virtù massima nella gestione del dossier è la cautela.

Non tutti alla Casa Bianca concordano con l’idea che la chiusura di Guantanamo sia cosa buona e giusta. Da subito il capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel, si è detto d’accordo sull’inversione ideale del bushismo, ma non proprio certo che la chiusura del carcere senza se e senza ma fosse l’alternativa giusta. Per mesi si è parlato della struttura dismessa di Thompson, a 150 miglia da Chicago, come alternativa a Guantanamo, ma il progetto si è arenato, perché trasferire i prigionieri sul suolo americano vorrebbe dire prendersi il rischio enorme di sottoporli alla giustizia ordinaria, con la certezza – confermata dai dati – che la maggior parte degli eventuali rilasciati tornerebbe alle sue occupazioni jihadiste con zelo rinnovato.

Anche il dipartimento di Giustizia si è fatto più cauto e il ministro Eric Holder ha smesso di tuonare contro il carcere speciale, che peraltro è tornato a essere apprezzato dall’opinione pubblica (i sondaggi dicono che il 60 per cento degli americani non vuole la chiusura di Guantanamo) dopo l’attentato del Natale scorso, il massacro di Fort Hood e il suv carico di esplosivo trovato a Times Square. L’Amministrazione sta rinunciando anche a processare la mente dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, a New York in autunno (un altro annuncio improvvido), mentre le funzionalità della prigione segreta nella base americana di Bagram, in Afghanistan, sono state potenziate. L’unica strada percorsa dall’Amministrazione è il trasferimento di prigionieri in paesi terzi: 33 sono stati accettati dagli alleati e nella lista dei papabili ne rimangono soltanto 22. Per tutti gli altri Obama prende tempo, e alla Casa Bianca fermenta l’idea che nell’interesse della sicurezza nazionale Guantanamo sia il migliore dei carceri possibili.

Integralisti


È a via di Torrenova, Tor Bella Monica, periferia di Roma, che ci porta la scia della violenza di mariti e padri pronti ad annientare le donne della propria famiglia, perché considerate disonorate, ribelli, autonome, con la voglia di cercare di migliorare la propria condizione e quella della famiglia. Proprio ciò che dovrebbe costituire motivo di difesa strenua da parte delle femministe - il tentativo di emanciparsi tramite il lavoro - non provoca altro se non una coltre di silenzio. Le agenzie ci hanno informato sull’ennesima cronaca di un tentato omicidio annunciato che sarebbe andato a buon fine se la figlia del cinquantenne egiziano, cui non andava che le donne della famiglia lavorassero, non fosse riuscita a sottrarsi al padre e a chiamare la polizia, mentre l’uomo si era gettato sulla moglie cercando d’accoltellarla. La donna ha raccontato che entrambe erano quotidianamente oggetto di minacce e maltrattamenti: sarebbe toccato solo a lui, padrone e capo famiglia, lavorare e prendere le decisioni a casa. Le donne sarebbero state uccise e “l’onta” sarebbe stata lavata. Così come ci testimoniano le altre migliaia di casi che Acmid Donna si trova a gestire: solo nel 2009, le telefonate ricevute sono state 5.478. Storie che raccontano di donne i cui diritti vengono continuamente derisi e oltraggiati: donne violate e abusate, trasformate in fantasmi, recluse a casa, dietro le sbarre dell’omertà, della paura e dell’indifferenza. Donne sole, abbandonate da chi è pronto ad erigere bandiere in nome dei principi per i quali esse combattono mettendoci la pelle. C’è la storia di Aisha, 19 anni, picchiata a sangue dal marito; quella di Samira, minacciata dal consorte che vorrebbe portarle via la figlia di 3 anni. E le storie di donne già private dei bambini da mariti scappati dall’Italia portandoli con sé, per punirle. Tra queste c’è Luisa, donna italiana sposata con un egiziano che l’ha sottoposta al matrimonio poligamico inserendo nel loro stato di famiglia la seconda moglie con i relativi figli. Questo qualcuno dei numerosi episodi che si consumano lì dove regna l’ignoranza e il totale sprezzo dei diritti umani, lì dove alla donna non viene riconosciuta la dignità. Spesso subiscono il matrimonio poligamico nonostante dal Marocco arrivino notizie confortanti: dall’approvazione della Moudawana tali matrimoni sono regrediti al numero irrisorio di 986 l’anno rispetto ai 62mila contati prima della riforma. E se alcune “acute” femministe italiane hanno erroneamente (o ideologicamente?) confuso la sacrosanta battaglia per l’affermazione dei diritti delle donne, del principio secondo cui ogni vita è sacra e inviolabile, con una lotta a guardia e ladri, dove chi s’impegna e batte quotidianamente viene apostrofato come “carabiniere”, la realtà dei fatti ci dà malauguratamente ragione. Ragione di credere che esiste una condizione di segregazione delle donne all’interno delle comunità arabo-musulmane, e che di questo scempio sia necessario parlare. Ragione nel richiamare l’attenzione dei media e delle istituzioni contro un vero e proprio femminicidio ammantato di un sordido velo di omertà e ipocrisia. Ragione nell’affermare con convinzione che è necessario agire con politiche di repression e d’integrazione reale all’interno dei ghetti comunitari. Ragione quando parliamo dell’improcrastinabilità di istruire e portare fuori di casa queste donne che a malapena sono in grado di parlare, che sono tenute all’oscuro dei loro diritti e doveri e cui molto spesso vengono sequestrati i documenti di soggiorno che il marito conserva. È terrorismo fisico e psicologico quello avanzato su queste vittime e chiedo che, come forma di terrorismo, venga stigmatizzato e rigidamente sanzionato, fino alla revoca della cittadinanza a tutti quegli uomini, spesso e volentieri poligamici, che non attribuirebbero alla donna alcuno statuto, così come ho proposto alla Camera. Mi chiedo allora: è questo il multiculturalismo che stiamo prospettando in Italia? È questo il lassismo sociale e antropologico che vogliamo abbracciare? È questo quel furioso relativismo nichilista che, anziché operare per una vera integrazione, incoraggia l’isolamento e l’incomprensione attraverso un silenzio complice? Non possiamo più tollerare questo stato d’abbandono in cui versano tante immigrate. E non siamo disposti ad ascoltare prediche e rimbrotti, da chi emana i suoi editti dai salotti buoni ma non è disposta a sporcarsi le mani. Da chi non riesce a comprendere che supportare queste donne significa aiutare tutte le donne. E che per farlo non è necessario far le ronde, ma basterebbe soltanto scrivere, denunciare, analizzare e fare fronte comune. Un obiettivo ancor’oggi sacrificato in nome di partiti politici, correnti di pensiero, atteggiamenti e antipatie ad personam. Mentre intanto le donne continuano a morire.

Eurabia giornalistica


Diciamo la verità, fa sempre piacere trovare qualcuno che si converte a Eurabia. Sarò ingrato, ma le performances eurarabe dei vecchi compagni (di fede, naturalmente) mi emozionano di meno. Per esempio, scorrendo i giornali di oggi, non mi emoziona il fatto che Marina Forti sul "Manifesto" spenda una mezza paginata per appoggiare con i potenti mezzi del suo giornale il povero regime degli ayatollah cui i cattivi imperialisti vorrebbero impedire di giocare con le atomiche. Il quotidiano si autodefinisce "comunista", no? E allora come non sostenere un regime che bastona i giovani che vogliono la libertà, falsifica le elezioni, è aggressivo nei confronti del resto del mondo, minaccia la guerra a chi non gli si sottomette, alimenta guerriglie e terrorismo, è governato da una nomenklatura autoreferenziale e corrotta? Che ha fatto di diverso l'Urss per tutti i tempi belli in cui era governata dai comunisti? E la Cina? E Cuba? Certo l'Iran lo fa in nome della religione, ma non era una religione anche il marxismo-leninismo-maopensiero? E opprimo le donne, impongono il velo eccetera – vabbé, nessuno è perfetto. Dunque il "Manifesto" fa dunque solo il suo dovere ad appoggiare l'Iran, Hamas tutti i meravigliosi terroristi del mondo e a combattere Israele e l'America. Nessuna sorpresa.

Ma ci sono anche i neoconvertiti, per cui non si può non rallegrarsi e imbandire il vitello grasso. Sto parlando del "Secolo d'Italia", ex organo di un partito diciamo piuttosto perplesso nei confronti di Eurabia e assai poco multiculturalista, ma attualmente espressione delle ribollente laboratorio di idee del presidente della Camera Gianfranco Fini. Sul numero di oggi leggo in ottima evidenza, con "strillo" in prima pagina, un articolo firmato da un certo Omar Camiletti (nomen omen, Omar come il nipote del profeta, Camiletti come la camomilla), in cui si loda senza riserve una mozione del Consiglio d'Europa che "decide di contrastare i germi islamofobi" ("germi islamofobi", questo sì che è un maschio parlare in cui si sente l'eco del vecchio Msi) "deplorando il fatto che partiti populisti alimentino inutili timori soffiando sul fuoco di pregiudizi e intolleranza". Timori inutili, ma certo. Che utilità c'è a essere timorosi, specialmente se si soffia sul fuoco? Bando alle paure, ai fuochi, alle intolleranze e ai populismi.

Ma come si alimentano gli inutili timori e si soffia sul fuoco? Perbacco, è chiaro, proibendo il burka, perché vietando la prigione ambulante delle donne "si viola la libertà delle donne" e si potrebbe perfino "peggiorare le cose nelle famiglie integraliste". E già, le "famiglie integraliste" (le famiglie, badate, non i maschi islamici oppressivi) potrebbero arrabbiarsi e le donne vedere "violata" la loro "libertà" di essere prigioniere. Che dispiacere, che disdetta. Potrebbero chiudersi in casa da sole, le povere donne violate. Dalla legge, beninteso, non da padri e mariti.

Non vi riassumo l'articolo, che ripercorre gloriosamente i più alti concetti dell'eurarabismo. Dopotutto il Consiglio d'Europa non è neanche il parlamento europeo, è un organo residuale dei vecchi tempi del Mercato comune, che raggruppa rappresentanti più o meno pensionati di una quarantina di stati, non so nemmeno io come eletti: il suo peso politico è pari alla sua autorità morale e culturale, diciamo che tende asintoticamente allo zero. Diciamo solo che oltre al burka se la prendono coi minareti svizzeri ("vi è il rischio che si abusi del voto"), sugli accostamenti fra il Corano e "Mein Kampf" (cioè col partito di Wilders lui sì populista, soffiatore e inutilmente timoroso). E naturalmente nel dibattito si è autorevolmente sostenuto "bisogna appoggiare le richieste di avere l'Islam come parte dell'istruzione superiore". Sono d'accordo, solo non capisco come l'Islam possa essere "parte". E' il tutto dell'istruzione superiore. Suvvia, non siamo timorosi. E soprattutto non soffiamo sul fuoco.

Anche delle deliberazioni del Consiglio d'Europa però non riesco a entusiasmarmi troppo: sono un po' scontate e (purtroppo, naturalmente) del tutto irrilevanti. Eurabia residuale e pensionata. Quel che mi entusiasma è invece il salto della quaglia del "Secolo d'Italia", che avendo sorvolato da destra a sinistra "Il Giornale", "Repubblica" e anche "L'unità", ormai rivaleggia in eurarabismo col "Manifesto". Senza entrare nella politica italiana, di cui questa cartoline non si occupano, non posso che complimentarmi con Omar Camiletti (nomen omen) e con Gianfranco Fini che lo ispira.

lunedì 28 giugno 2010

Immigrazione


LONDRA - La Gran Bretagna ha annunciato un provvedimento che impone un tetto massimo di 24 mila accessi di cittadini extracomunitari fino all'aprile del 2011, il 5% in meno rispetto all'anno scorso. "Questo governo crede che la Gran Bretagna possa beneficiare dalla migrazione, ma non dalla migrazione incontrollata" ha spiegato il ministro dell'Interno, Theresa May. Il provvedimento provvisorio sara' in vigore dal 19 luglio.

Mafia cinese


PRATO - Maxi-blitz della Guardia di Finanza contro la criminalità organizzata cinese: le Fiamme gialle hanno scoperto operazioni di riciclaggio di denaro sporco per centinaia di milioni di euro. Oltre mille militari della guardia di Finanza del comando regionale della Toscana stanno eseguendo arresti, perquisizioni e sequestri di beni immobili e mobili, auto di lusso, quote societarie e denaro contante, in otto regioni: Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Sicilia.

Oltre 100 le aziende ritenute coinvolte in un presunto maxi-riciclaggio tra le Province di Firenze e Prato. Secondo le indagini, le aziende individuate trasferivano verso la madrepatria centinaia di milioni di euro provenienti da vari reati. Nel corso dell’operazionela Finanza ha arrestato 24 persone tra italiani e cinesi per associazione di stampo mafioso. Inoltre ha sequestrato 73 aziende, 181 immobili e 166 auto di lusso.

Il fiume cinese di denaro sporco passa da Prato, e da lì, si riversa in tutto il mondo. E' quanto emerge con chiarezza dall'operazione delle Fiamme Gialle, coordinate dalla Procura nazionale Antimafia. Impressionante è il volume degli affari in gioco, nonché il continuo parallelo tra mafia italiana e mafia cinese che il procuratore Pietro Grasso ha ribadito, illustrando gli esiti del maxi-blitz. Prato come una qualunque città del mezzogiorno che sia in mano ai casalesi, dunque, e questo spiega perché le organizzazioni criminali cinesi siano da tempo finite nel mirino anche dalla procura nazionale Antimfia. Le loro strutture e le loro modalità di «corrompere» anche l'economia legale ricordano da vicino le organizzazioni mafiose, tanto che, ha detto Grasso, «quello di stamani è un colpo forte alle comunità illegali cinesi, perché mettere le mani nelle loro tasche è come metterle nelle mani dei mafiosi».

Il blitz della Guardia di Finanza presenta numeri da record: ai 24 arresti, si aggiungono i 134 indagati a piede libero, nell'ambito di un'inchiesta di portata nazionale. Al centro di tutta la vicenda vi è una semplice agenzia di «money transfer» che, a Prato, era l'epicentro di un imponente sistema di riciclaggio di denaro sporco. Da questo sportello, affluiva denaro da tutta Italia, pari a tre quarti di quanto finora la Guardia di Finanza è riuscita a calcolare, per un giro da 2,7 miliardi di euro. In questo «Cian Liu» («fiume di denaro»), confluivano a Prato soldi da e per otto regioni. Dai «money transfer», poi, in 5 anni, sono stati esportati qualcosa come 5 miliardi di euro. Le nuove norme anti-riciclaggio impongono un limite ai singoli trasferimenti di 2 mila euro, e il fatto che, se a presentare il deposito è qualcuno privo di permesso di soggiorno, scattano gli accertamenti delle autorità. Ad attirare l'attenzione delle quali ci ha pensato una grande quantità di versamenti da 1990 euro circa, anche se, in realtà, come hanno dimostrato le riprese da camere nascoste, nelle agenzie era un flusso continuo di denaro in contanti.

Le autorità hanno configurato un reato di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al riciclaggio di proveniente derivanti da: contraffazione, frode in commercio e vendita di prodotti industriali falsificati ed evasione fiscale. Ma ci sono anche reati connessi allo sfruttamento di persone: favoreggiamento della immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. Tra gli arrestati, ci sono 18 cittadini cinesi e 7 italiani, per due dei quali è scatta la custodia cautelare domiciliare. Al centro di tutto, l'agenzia Money2Money, con sede a Bologna e sportelli sparsi in tutto il territorio nazionale. In particolare lo sportello di Prato, ma non solo quello, è servito alla famiglia cinese Cai per manipolare il denaro sporco. I Cai si servivano di una prestanome, una donna delle pulizie che lavorava presso l'abitazione della famiglia cinese. La Money2Money era stata fondata dalla famiglia italiana dei Bolzonaro che hanno messo a disposizione dell'organizzazione criminale la propria conoscenze del settore, controllando l'operato di ogni subagenzia.

«La direzione intrapresa è quella giusta e l’auspicio è dunque che lo Stato continui a dare vigore al ripristino della legalità sul nostro territorio dove l’illegalità ha assunto sviluppi di carattere criminale». È il commento del sindaco di Prato, Roberto Cenni, all’operazione della Finanza contro l’organizzazione cinese dedita al riciclaggio di denaro. «Gli strumenti messi in atto - aggiunge Cenni - ci fanno capire la vicinanza dello Stato, perchè non siamo soli». «I passi fatti per il ripristino della legalità sul nostro territorio sono fondamentali e ci fanno ben sperare - continua il sindaco - È evidente che operazioni come queste necessitano di un lungo lavoro preparatorio ma i frutti dati hanno una grande importanza ed ogni volta che emergono dobbiamo riconoscere un grande plauso alle forze dell’ordine».

Marco Bazzichi

Proposta tedesca

Nel paese il numero degli immigrati è in calo costante. Germania, il centrodestra chiede il test d'intelligenza per tutti gli immigrati. La proposta di esponenti Cdu e Csu: «Sia un requisito per l'ingresso, motivazioni umanitarie non sono sufficienti»

BERLINO - Provocatoria proposta dalle fila dell'Unione in Germania: esponenti della Cdu e Csu chiedono una nuova politica dell'immigrazione per il Paese, un "test d'intelligenza" per gli stranieri come requisito per entrare in Germania. «I motivi umanitari non debbono più essere l'unico criterio per l'immigrazione», spiegano i politici del partito cristiano-democratico di Angela Merkel. Tuttavia, le recenti statistiche sull'immigrazione vedono un'inversione di tendenza in Germania.

NUOVI CRITERI D'INGRESSO - Il ct tedesco Joachim Löw ha portato in Sudafrica ben 11 giocatori di origine straniera, cambiando il volto tecnico della sua squadra e rispecchiando la realtà sociale presente di una Germania multirazziale. Ciò, tuttavia, non basta ad abbassare i toni del dibattito attorno al problema dell'integrazione e dell'immigrazione degli stranieri in Germania. Il portavoce della politica interna della Cdu a Berlino, Peter Trapp, chiede di fissare nuove regole d'ingresso per gli stranieri nel Paese. Al giornale Bild ha spiegato: «Abbiamo bisogno di stabilire criteri di immigrazione che siano davvero utili al nostro Stato. E l'intelligenza è altrettanto importante quanto l'istruzione e un'adeguata qualifica professionale. Per questo sono favorevole a un test di intelligenza per gli immigrati». Tale richiesta, insomma, non deve più essere un tabù.

CANADA - A volere una revisione a livello europeo delle politiche d'immigrazione è anche il capogruppo al Parlamento europeo della bavarese Csu, Markus Ferber. Che fa riferimento all'esempio del Canada: «È molto più avanti e pretende dai figli degli immigrati un quoziente intellettuale più elevato che per i figli dei propri cittadini. Criteri umanitari per il ricongiungimento delle famiglie non possono rimanere l'unico motivo valido per l'immigrazione». La proposta, ovviamente, ha suscitato molteplici reazioni. Un test d'intelligenza per gli immigrati è un'ipotesi semplicemente «assurda», ha replicato prontamente il ministro del governo federale per l'integrazione e la migrazione, Maria Böhmer dei cristano democratici. Aggiungendo: la proposta stessa è «segno di poca intelligenza». A prendere le distanze anche i partiti dell'opposizione.

STATISTICHE - Le cifre sull'immigrazione in Germania dipingono tuttavia un altro quadro: il numero degli immigrati è in costante calo, sempre più sono le persone che emigrano dal Paese. Nel 2009, infatti, sono stati 734.000 quelli andati via dalla Germania, 721.000 quelli entrati nel Paese. Dal 1985 al 2007, invece, il numero di immigrati ha ogni anno superato quello degli emigrati.

Elmar Burchia

domenica 27 giugno 2010

In algeria...


Due anni di reclusione e una multa di 5.500 euro perché la polizia ha trovato sul sedile posteriore della sua macchina una copia del Vangelo: questa la notizia che ci viene non da un paese controllato dai Talebani, non dall’Arabia Saudita, ma da quell’Algeria che si vuole “laica” e che laica non è perché dal 2006 una legge punisce con una pena carceraria che va da 24 a 60 mesi di reclusione e con una multa sino a 8.000 euro chiunque faccia proselitismo, tenti cioè di convertire un musulmano. Abdelhamid B è un venditore ambulante algerino che vende, senza licenza, le sue merci nel mercato di Jijel, città a est di Algeri e un mese fa è stato arrestato, su indicazione di tre cittadini che sostenevano di averlo visto “mentre faceva proselitismo”. Il povero Abdelhamid è solo l’ultima vittima di questa persecuzione dei cristiani in Algeria, che ha già portato in galera decine di cristiani, in un clima di “caccia alle streghe” che ha visto l’8 gennaio una massa di manifestanti distruggere la chiesa protestante di Tizi Ouzou, capoluogo della Berberia. Una situazione talmente grave che l’arcivescovo cattolico d’Algeria, monsignor Ghaleb Bader ha chiesto la riforma delle legge che punisce il “proselitismo”, aggiungendo “se i musulmani accolgono i cristiani convertiti all’Islam, perché lo stesso non può essere fatto dai cristiani”. Netta la risposta del ministro del culto algerino Bouabdallah Ghiamallah: “Non vogliamo che minoranze religiose diventino pretesto per le potenze straniere per entrare nei nostri affari interni”. Il dato più grave della persecuzione algerina dei cristiani è che questa legislazione persecutoria è stata introdotta nel 2007, segno di una presa crescente dell’Islam anche sulle società e sugli Stati che nascono, come nacque l’Algeria nel 1963, nel segno della più piena laicità. Un processo che sfata la leggenda che contrappone l’Islam “moderato” a quello “fondamentalista”. Ovunque nel mondo musulmano si succedono gli episodi di persecuzione dei cristiani non solo da parte dei terroristi (migliaia le vittime cristiane in Nigeria, Iraq, Pakistan e Indonesia), ma anche - e il dato è forse più grave - da parte degli Stati. Il 9 marzo scorso il Marocco ha espulso 10 missionari cristiani accusati di proselitismo. In Pakistan, due giorni fa, monsignor Peter Jacob ha denunciato un nuovo incarceramento per “blasfemia” di Rehmat Masih, cattolico anni dell’arcidiocesi di Faisalabad, in un paese in cui la famigerata “Blasphemy Law” in 22 anni ha già portato in carcere ben 1.032 persone in 23 anni. La ragione di questa persecuzione, della proibizione del proselitismo che accomuna tutti i paesi musulmani è così enunciata nell’articolo 10 della “Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo”: «L’Islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo». Questo è il dogma che unisce tutti - salvo rare eccezioni - i musulmani: l’islam è una religione naturale, l’uomo nascerebbe musulmano solo per condizionamento dei genitori. Convincere un musulmano a convertirsi sarebbe dunque un “atto contro natura”. Per questa ragione nel mondo musulmano non c’è democrazia: perché la libertà di pensiero è conculcata nelle sue radici. Ovunque.

Islam

Emanciparsi è un trucco di Valentina Colombo

Narrò Aisha - sia soddisfatto Iddio di lei -: l’Inviato di Dio Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - disse: La vergine viene consultata. Io gli dissi: La vergine si vergogna. E lui: Manifesta il suo consenso con il silenzio. Ma dice un giurista che se un tale s’innamora di una schiava orfana o vergine, e questa lo rifiuta: se egli ricorre ad un’astuzia legale e si presenta con due testimoni falsi, dichiarando che l’ha già sposata e che essa è pubere e consenziente; se il giudice accetta la falsa testimonianza; allora, benché il marito sia a conoscenza della falsità di tutto ciò, gli è permesso consumare il matrimonio». Questo detto di Maometto, contenuto in una delle raccolte principali, fonte della sharia subito dopo il testo coranico e tra l’altro trasmesso dalla giovanissima moglie del Profeta, Aisha, racchiude quello che a mio parere è il rapporto tra l’islam e le donne.

La parola chiave è qui "astuzia legale": un escamotage che consente di aggirare le rigide regole della sharia. Sono le astuzie legali previste dal diritto islamico a far sì che, nonostante la legge preveda la condanna di lapidazione per l’adultera solo nel caso in cui quattro testimoni abbiano assistito all’atto della penetrazione, questa pratica atroce sia in vigore in paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita e l’Indonesia. È di fatto non solo improbabile, ma quasi impossibile che il requisito basilare della condanna per lapidazione sussista. Tuttavia, come si afferma nel detto di Maometto appena riportato, possono essere presentati falsi testimoni che unitamente a un giudice connivente portano alla ufficializzazione della condanna.

Basti pensare alla giovane iraniana di Zahara, condannata a morte con false accuse di adulterio o alla vicenda narrata nel film La lapidazione di Soraya in cui una ragazza viene accusata di adulterio dal marito che vuole soltanto sbarazzarsi di lei. Esiste, tuttavia, anche un rovescio della medaglia. Sempre più spesso infatti le donne musulmane ricorrono alle stesse astuzie legali per raggiungere il proprio scopo principale: la tanto agognata emancipazione sia fisica sia intellettuale dall’uomo guardiano e padrone. Si tratta di una dinamica in atto nella letteratura, per esempio in paesi come l’Egitto, dove, mentre l’integralismo islamico dilaga, trovano spazio scrittrici come Ebtehal Salem. Nel suo racconto Il dovere quotidiano la scrittrice descrive il corpo dell’uomo ricorrendo ad astute metafore per evitare la censura. Suggestive nel testo le immagini create per descrivere da un lato l’impotenza del marito della protagonista come il "grappolo ammosciato sull’erba", dall’altro i capezzoli della donna come "chicchi di melograno rigonfi". L’Egitto non è la Siria, non è il Libano, di sicuro non è più l’Egitto laico e liberale degli anni Sessanta. La Salem conferma che «per quanto concerne l’atteggiamento della donna orientale riguardo al sesso, permangono dei problemi di carattere sociale e religioso». «Questo è il motivo per cui il mio racconto è una storia coraggiosa, nonostante il mio ricorso alle metafore». Ma la letteratura non è l’unico campo in cui le astuzie femminili devono farsi largo in Egitto. Molto spesso la stampa femminile occidentale, che giunge regolarmente nel paese, viene censurata. Ma solo nella copertina, i contenuti non vengono toccati.

La politica dei piccoli passi. In Kuwait, paese dove il radicalismo islamico è imperante, si assiste oggi a un’altra forma di astuzia legale femminile. Nel maggio 2005 le donne hanno finalmente ottenuto il diritto di voto. Peccato che ancora nel maggio 2008, così come era già accaduto nel 2006, nessuna delle 54 candidate al Parlamento kuwaitiano fosse stata eletta. Qualche giorno dopo il voto l’emiro Sabah al Ahmad al Sabah, aveva cercato di porre rimedio alla sconfitta elettorale e ridato speranza confermando quale ministro dell’Educazione Nuriya al Sabih e nominando per la prima volta a ministro della Pianificazione e dello Sviluppo Mudhi al Hammud, entrambe liberali e laiche. Il 1 giugno, in occasione della prima convocazione del neoeletto Parlamento, si è avuta la conferma di quanto la strada del coinvolgimento delle donne nella politica del Kuwait, in particolare, e del mondo araboislamico in generale, sia piena di ostacoli. Al momento del giuramento dei neo-ministri il 20 per cento dei deputati ha abbandonato temporaneamente l’aula perché, come ha spiegato uno di loro «le due ministre hanno violato la legge», che prevede che per potere esercitare il diritto di voto in Parlamento si debbano rispettare le norme sciaraitiche, anche nell’abbigliamento che deve essere «islamicamente corretto». Oggi in Kuwait in Parlamento siedono finalmente quattro donne, due velate e due no. Una di queste, la sessantenne velata Ma’suma al Mubarak, ha già un’esperienza politica come ministro della Salute, ed è già stata oggetto di attacchi dei salafiti che fecero in modo di allontanarla dall’incarico dopo un incendio divampato in un ospedale.

Proprio a seguito di questa esperienza la Mubarak sta facendo scuola alle altre tre colleghe deputate. Incontrandole in Parlamento lo scorso novembre ho chiesto loro quali fossero state le loro prime iniziative, a livello legislativo, a favore delle donne kuwaitiane. Tutte, nessuna esclusa, mi risposero che per il momento non avevano ancora promosso alcuna iniziativa correlata all’ambito prettamente femminile. Il motivo? La necessità di "distrarre il nemico" ovvero i conservatori. Tuttavia una grande vittoria quelle donne coraggiose l’hanno già ottenuta. A seguito di una reazione dei radicali islamici alla presenza di deputate non velate, nella fattispecie Rola Dashti e Aseel al Awadhi, pochi giorni prima del mio arrivo era stata emessa una sentenza della Corte costituzionale in cui si stabiliva che il non portare il velo non rappresentava un oltraggio alla religione islamica. Queste sono le piccole grandi vittorie che porteranno a quelle ancora più importanti quali l’effettiva parità. Alla stessa politica dei piccoli passi si assiste nella rigidissima Arabia Saudita. Quando due anni fa l’attivista Wajeha al Huwaider ha lanciato la campagna affinché le donne sauditepossano guidare, le chiesi che senso avesse concentrarsi sulla guida in un paese in cui le donne non sono ancora persone, in cui esistono solo se accompagnate da un guardiano, in cui vengono lapidate, e hanno da poco ottenuto il permesso di avere una carta d’identità. Lei mi rispose scoppiando a ridere: «Lasciaci raggiungere il volante e poi guideremo il paese!».

Le scuole segrete per ragazze che sfidano i talebani di Viviana Mazza

Sedute sui tappeti di casa, chine sui libri di testo, ragazze di diverse età si aiutano l’una con l’altra a studiare. Amina ha 16 anni, vuole fare la maestra. Abita a Kandahar. La scuola è poco distante da casa, ci si arriva a piedi attraverso le stradine del distretto di Loy Wiyala, ma il padre Abdul rifiuta di mandare lei e le sue sorelle. «Ho smesso di mandare le mie figlie a scuola perché temo che qualcuno le uccida», ha spiegato al Financial Times. «Ho paura dei talebani e anche che possano essere rapite». Genitori come Abdul hanno deciso così di creare scuole clandestine in casa propria, per le ragazze della famiglia allargata. I funzionari nel sud dell’Afghanistan dicono che oggi è una pratica diffusa, anche se non vi sono dati. Come ai tempi dei talebani, che negli anni 90 avevano bandito l’istruzione femminile, ma alcune maestre li sfidavano insegnando in casa e in cantina. E non senza rischi: Loy Wiyala, ad esempio, è usato come rifugio dai talebani che si immolano come kamikaze contro le forze Nato.

I politici occidentali spesso citano i progressi nel promuovere l’istruzione femminile in Afghanistan come segno dei risultati ottenuti in questi 9 anni di guerra. Per l’Unicef, è un successo il numero dei bambini e delle bambine iscritti a scuola. Da circa un milione nel 2001 (tra cui 100mila bambine) sono passati oggi a 7 milioni (2,5 milioni bambine) secondo dati del governo di Kabul. Ma le violenze degli ultimi anni hanno prodotto significativi passi indietro.

Gli attacchi contro le scuole sono in aumento in Afghanistan. L’Unicef ne ha contati 348 nel 2008 (tra cui le 15 ragazze aggredite con acido a Kandahar) — il triplo rispetto al 2007, secondo l’organizzazione Care. Sono stati 610 nel 2009, un’escalation legata anche alle elezioni (le scuole sono state usate come seggi). Nel sud del Paese, che resta sotto controllo talebano e dove i progressi dell’offensiva Nato sono finora scarsi, l’Unicef stima che dal 2008 a oggi almeno il 50% ma forse l’80% delle scuole siano state costrette a chiudere (caos e violenze ostacolano anche la raccolta di dati). La paura di andare a scuola è grande non solo nelle campagne ma anche in città, non solo in certi distretti tradizionalmente sotto controllo talebano ma anche in aree dove le comunità locali appoggiano l’istruzione delle ragazze come a Kunduz, nel nord, dove a maggio si sono registrati tre attacchi contro scuole femminili con gas tossici— proprio come l’anno scorso.

L’Unicef mira ad aumentare del 20% il numero di bambine iscritte alle elementari e soprattutto ad assicurare che restino a scuola. Quando compiono i 13 anni, molti genitori rifiutano di mandarle, non solo per paura che restino uccise. Un problema frequente è che non accettano che l’insegnante sia un uomo— le professoresse sono poche. Un circolo vizioso. In un paese in cui l’80% delle donne sono analfabete, servono ragazze come Amina per spezzarlo.

giovedì 24 giugno 2010

Toh, Napolitano...


Roma - Giorgio Napolitano, che pure è un laico di radici comuniste, lo considera «un simbolo universale di pace e tolleranza». Silvio Berlusconi lo definisce «un complesso di valori e una lezione di servizio e di amore portata a considerare l’estremo sacrificio». Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, lo vede come «l’espressione dell’identità dell’Italia». E Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ricorda che «la laicità non comporta l’esclusione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici».

Insomma, giù le mani dal crocifisso. La battaglia contro la sentenza della Corte europea di Strasburgo, che il 30 giugno deve decidere sul ricorso italiano dopo aver vietato l’esposizione del simbolo cristiano negli uffici e nelle scuole pubbliche, trova a Roma Stato e Chiesa sulle stesse posizioni. Il Cavaliere ricorda «di essere stato il primo a novembre ad esprimere sconcerto per il divieto inaccettabile» e a presentare ricorso: «Una scelta inaccettabile non solo per l’Italia ma per buona parte dell’Europa. Sono stato tra coloro - insiste il premier - che in sede di formazione della nuova Costituzione ha chiesto che fossero adeguatamente riconosciute le radici giudaico-cristiane della cultura europea. Sono convinto che non possiamo non dirci cristiani». Da qui la difesa di un simbolo che racchiude «un complesso di valori che ha sostenuto negli anni lo sviluppo delle coscienze e ha rafforzato le convinzioni di tante eroiche personalità». Conclusione: «Il messaggio cristiano è ancora vivo e attuale in ogni parte della Terra».

Ma parole molto nette arrivano anche dal Quirinale. Napolitano sfrutta l’occasione di una lettera di Claudio Zucchelli, presidente di Umanesimo Cristiano, per far sapere come la pensa sull’argomento. Innanzitutto, spiega, «nella laicità dello Stato bisogna riconoscere la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso». Poi, occorre sottolineare l’importanza della «comune missione educativa cui sono chiamate le autorità politiche ed ecclesiali, sia pure in ambiti e piani diversi e in assoluta indipendenza». In Italia, secondo il capo dello Stato, i cattolici hanno dato buona prova anche in politica: e cita don Sturzo, De Gasperi, Bachelet. Il punto è quindi di «salvaguardare il tradizionale patrimonio identitario espresso dalla millenaria presenza cristiana».

Quanto all’Europa, per Napolitano sarebbe meglio che sui temi etici evitasse le semplificazioni. Certe decisioni dovrebbero infatti essere lasciate ai singoli Stati «che sono in grado di percepire la valenza dei simboli in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni». Il principio guida della Ue, aggiunge, dovrebbe essere «inclusivo e non esclusivo», nel senso che «la laicità dell’Europa non può ferire sentimenti popolari elementari e profondi ma deve essere disposta ad accogliere le tradizioni più diverse». La chiave sta «nell’evitare contrapposizioni e integralismi, specialmente riguardo a simboli che hanno assunto significati universali di pace e tolleranza».

Per il cardinal Bertone il problema va al di là del fatto religioso perché «l’esposizione dell’icona di Cristo è un’espressione identitaria, strettamente connessa con la storia d’Italia, che richiama alla solidarietà e al dialogo tra le persone di buona volontà». Secondo il cardinal Bagnasco la laicità non c’entra nulla. «L’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane non è un’imposizione e non ha valore di esclusione, ma esprime una tradizione che tutti conoscono e riconoscono come un segno di apertura al dialogo, di sostegno a favore dei bisognosi e dei sofferenti, senza distinzione di etnia, nazionalità e fede». E per Maurizio Sacconi, ministro delle Politiche sociali, «il Cristo è il simbolo di una laicità adulta, la sintesi della nostra tradizione». Del resto, lo riconobbero pure i grandi partiti popolari del dopoguerra: Dc, Pci, Psi.

mercoledì 23 giugno 2010

Spagna e burqa


MILANO - Il Senato spagnolo ha approvato a sorpresa una mozione che chiede di proibire l'uso di veli integrali come il burqa o il niqab, che coprono interamente il volto delle donne, negli spazi pubblici. La mozione è stata approvata con i volti del Partido Popular (Pp), dei nazionalisti catalani di CiU e dei navarri di Upn che hanno sommato 131 consensi, mentre hanno votato contro 129 senatori.

IL VOTO - Il risultato del voto ha ribaltato i pronostici. Dopo che vari comuni catalani avevano proibito l'uso di questi veli negli spazi comunali, il Pp catalano ha presentato nelle scorse settimane una mozione al Senato per chiedere al governo una legge similare ma di portata nazionale. Il Psoe ha effettivamente presentato martedì una controproposta - firmata da tutti i gruppi meno il Pp -, che puntava invece sulla prevenzione, l'integrazione culturale e sull'uso delle leggi attuali per affrontare il problema dei veli integrali in pubblico, e che sembrava sarebbe stata approvata oggi. A spostare l'ago della bilancia è stato CiU, che ha accettato di votare la proposta di proibizione del Pp se questa avesse incluso anche punti della proposta socialista. Il quarto punto della mozione approvata chiede di «utilizzare le facoltà che concede in nostro ordinamento giuridico e che si proceda a regolare la proibizione dell'uso del burqa o del niqab per garantire eguaglianza, libertà e sicurezza».

GLI EFFETTI DELLA MOZIONE - Il governo è tenuto ora a mettere in atto la mozione, anche se è consuetudine che lo faccia quando è l'esecutivo stesso a farsi promotore di un'iniziativa del genere, quindi non è chiaro ancora se lo farà. Nel testo si chiede di «realizzare riforme e regolamenti necessari a vietare l'uso del velo integrale nei luoghi pubblici a meno che non abbia una finalità strettamente religiosa», nella convinzione che tale pratica rappresenti «una discriminazione contro la dignità delle persone e dell'uguaglianza effettiva tra uomini e donne». In Europa, è stato il Belgio il primo paese ad approvare una legge che vieta di indossare il burqa nei luoghi pubblici. In Francia, una misura simile - che prevede multe e carcere - si appresta ad iniziare il suo iter legislativo.

martedì 22 giugno 2010

Dagli archivi


Un libro sensazionale è stato pubblicato in Francia. Citando fonti, documenti e trascrizioni da nastri registrati, descrive il progetto del gruppo fondamentalista dei Fratelli musulmani per islamizzare l'Europa. Il titolo è Frère Tariq (Fratello Tariq) e si riferisce a Tariq Ramadan, un professore di filosofia d'origine egiziana che vive a Ginevra, in Svizzera. Perché intitolargli un libro? Perché Ramadan non è solo il nipote di Hassan al-Banna, che nel 1928 fondò l'organizzazione integralista dei Fratelli musulmani. Non è solo il più carismatico predicatore dell'Islam assolutista del VII secolo fra i giovani musulmani immigrati in Europa. Non è stato soltanto consulente della Commissione europea durante la presidenza di Romano Prodi. Non è soltanto l'ospite applaudito delle tavole rotonde sui dialoghi tra religioni, dove è presentato come un «riformatore dell'Islam». Per la giornalista Caroline Fourest, che ha scritto il libro, è soprattutto l'uomo che tra il 1992 e il 1993 è stato designato in Egitto dall'ufficio politico della congregazione per una missione di grande importanza: la «dawa» in Occidente. Cioè convertire l'Europa all'Islam fondamentalista dei Fratelli musulmani e realizzare una società ideale basata sulla «sharia», la legge islamica.

Il piano di penetrazione dei Fratelli musulmani in Europa avrebbe una strategia e un metodo. Secondo Fourest, la strategia è questa: i musulmani non si integrano nella società europea, non accettano le leggi in contrasto con la loro religione, approfittano della libertà di espressione, del senso di colpa e dell'ingenuità occidentali per cercare alleati nella sinistra, nei no global e nei cattolici terzomondisti europei. In pratica collaborano provvisoriamente con gli avversari della globalizzazione nell'attesa che venga «il gran giorno». Il giorno in cui, secondo le conclusioni dell'inchiesta di Fourest, i non musulmani non avranno più voce in capitolo e si realizzerà la società ideale della sharia. Un mondo dove «le donne saranno velate, le scuole saranno islamiche, la colonizzazione occidentale verrà considerata causa di tutti mali, si metterà fine al sistema monetario internazionale, le prigioni si riempiranno di femministe, omosessuali e musulmani democratici, giudicati "blasfemi" dalla polizia etica».

Il metodo è invece quello del doppio registro: «Sviluppare un discorso che si adatti all'orecchio che ascolta» insegna Ramadan in una delle cassette vendute in decine di migliaia di copie dalle edizioni Tawhid, legate ai Fratelli musulmani. In un opuscolo pubblicato dallo stesso editore, Ramadan elabora per ogni concetto chiave come «diritto, razionalità, democrazia e comunità» una seconda definizione che può essere compresa soltanto dagli studenti che hanno seguito i suoi corsi. «Questo» afferma Fourest «gli permette di tenere discorsi apparentemente inoffensivi restando invece fedele a un messaggio islamista». Interpellato da Panorama, Ramadan non vuole commentare l'inchiesta di Fourest. Però avverte: «Invece d'indagare su di me, dovreste indagare su quella donna». Dunque chi è Caroline Fourest?

È una giornalista francese e una militante del laicismo. È caporedattore di ProChoix, una rivista in difesa delle libertà individuali contro le ideologie totalitarie. Da 10 anni si occupa d'integralismo religioso: cristiano, ebraico, islamico. Nell'ultimo anno ha studiato i documenti lasciati dietro di sé dal rètore Ramadan: un centinaio di cassette, una quindicina di libri, 1.500 pagine d'interviste e di articoli apparsi su di lui nei giornali inglesi, francesi, italiani e spagnoli. Poi ha scritto Frère Tariq per l'editore Grasset. Fourest dice a Panorama: «Ci vuole più coraggio per combattere l'integralismo musulmano che quello cristiano, perché gli islamisti hanno nella sinistra europea molti più alleati di quanti ne abbia il fondamentalismo cristiano. Se il commissario europeo Rocco Buttiglione dice: "L'omossessualità è peccato", nessuno lo scambia per un cattolico liberale. Perché invece si considerano musulmani liberali degli estremisti islamici? Gli islamisti fanno leva sulla scusa di essere una minoranza perseguitata per annullare il nostro spirito critico. Ma bisogna superare la paura di essere accusati di razzismo».

Khaled Fouad Allam è professore di sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste. Di origine algerina, ha scritto il libro Lettera a un kamikaze (Rizzoli editore). È editorialista del quotidiano La Repubblica. Conosce il progetto fondamentalista dei Fratelli musulmani. Dice a Panorama: «La rivoluzione iraniana, con la conseguente nascita dello stato islamico, ha ampliato gli obiettivi della fratellanza. Non si limita più alla conversione spirituale. Vuole dare un apparato politico all'islamizzazione. Oggi, con la diaspora dei giovani musulmani in Europa, ha trasferito i suoi obiettivi in Occidente». Il piano dei Fratelli musulmani è una minaccia mondiale. «È soprattutto un pericolo per i musulmani che credono sia possibile unire Islam e libertà, Islam e democrazia».

Non si pensi che la strategia si fermi ai paesi dove gli immigrati musulmani sono più numerosi, come la Francia o la Gran Bretagna. «La fratellanza musulmana» spiega Fouad Allam «non ragiona per stati, ma a livello transnazionale. Lo scopo è atrofizzare le democrazie occidentali. La strategia di penetrazione utilizza il principio della "taqiyya", la dissimulazione, che ha origine nella tradizione di misticismo dell'Islam. Uno degli emblemi di una confraternita di mistici musulmani, la Naqsbandiyya, è la frase "Solo nella folla", nel senso che nessuno deve riconoscerti nella folla. La taqiyya è stata ripresa dal fondatore dei Fratelli musulmani al-Banna per mantenere la segretezza delle strutture. Prevede un doppio linguaggio: uno per l'interno della congregazione, un altro per l'esterno».

Avanzare mascherati permette ai Fratelli di crescere e fare nuovi proseliti. Nulla si deve sapere della confraternita. Nessuno deve rivendicare pubblicamente d'appartenere alla congregazione. Nemmeno Tariq Ramadan, che ha sempre negato. Per Caroline Fourest l'evidenza è che nel cuore dell'Europa, nella svizzera Ginevra, il Centro islamico di cui Ramadan è amministratore diffonde un Islam radicale di resistenza all'Occidente. L'evidenza è che in Francia l'ideologia della fratellanza ispira l'Union des organizations islamiques de France, che riunisce oltre 200 associazioni. In Italia influenza l'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche, che controlla il 70 per cento delle moschee. A Londra, l'Associazione dei musulmani di Gran Bretagna, vicina ai Fratelli musulmani, ha lanciato in luglio una grande campagna in favore del velo islamico. L'hanno presentata Youssef al-Qaradhawi, il teologo che presiede il Consiglio europeo della fatwa, e Ramadan. Se la dawa fosse soltanto una missione religiosa, sarebbe una faccenda di fondamentalismo retrogrado. Ma i Fratelli musulmani sono un movimento politico, prima che religioso. Fourest scrive che nel 2004 Ramadan ha partecipato alla preparazione di una lista di candidati musulmani per le elezioni europee.

Nell'Epistola ai giovani, il fondatore della Fratellanza al-Banna scrisse: «Noi vogliamo che la bandiera dell'Islam sventoli di nuovo, al vento e bene in alto, in tutte le contrade che hanno avuto la fortuna di accogliere l'Islam per un certo periodo di tempo, e dove la voce dei muezzin (chi chiama alla preghiera, ndr) è risuonata tra i takbirs e i tahlils (orazioni coraniche, ndr). Poi la mala sorte ha voluto che le luci dell'Islam si ritirassero da queste contrade, cadute nella miscredenza. Dunque l'Andalusia, la Sicilia, i Balcani, le coste italiane e le isole mediterranee sono tutte colonie musulmane e bisogna che ritornino in seno all'Islam. Allo stesso modo occorre anche che il Mediterraneo e il Mar Rosso ridiventino mari musulmani, come lo erano prima. Noi vogliamo esporre il nostro messaggio islamico al mondo intero, raggiungere le genti nella loro totalità, sottomettere tutti i tiranni finché non ci sia più disordine e la religione sia interamente votata a Dio».

Va vietato pure il foulard? Liceali espulse perché portano la bandana: è polemica

In Francia cinque liceali sono state espulse da scuola, per effetto della legge sulla laicità, che vieta di mostrare simboli religiosi in classe. Le studentesse, sospese in licei dell'Alsazia e della Bassa Normandia, non indossavano un vero e proprio velo, ma foulard e bandane. I genitori, cittadini francesi di origine algerina o turca, faranno ricorso contro quella che giudicano un'«interpretazione eccessiva della legge».

Di fatto le espulsioni riaprono il dibattito se autorizzare o no l'ostentazione di simboli religiosi discreti. L'Unione delle organizzazioni islamiche di Francia sostiene che la legge vieta il velo non la bandana. Prima delle vacanze dei Santi, altri cinque consigli d'istituto (a Lione, Digione e Caen) si riuniscono per discutere i casi di altre 62 allieve.

In italia


Il preliminare era già firmato con tanto di caparra: il centro culturale islamico Annur avrebbe comprato un vecchio laboratorio tessile da trasformare in moschea. Proprio in questo angolino di Veneto, contrada Tomasoni, una cinquantina di case, una corte, la fontana, la chiesetta, dove si vive come cinquant'anni fa, che quando vai in vacanza il vicino ti arieggia le stanze, sfama il cane e innaffia le piante. Veneto profondo, Veneto leghista (49% alle ultime regionali) e laborioso. Dove la gente è disposta a mettere mano al portafoglio pur di dirottare altrove i musulmani.

Così, dopo un lavorìo durato un anno, i 150 abitanti dei Tomasoni hanno deciso di comprare loro l'edificio destinato a luogo di ritrovo e di culto per i fedeli del Corano che vivono lungo il torrente Agno, una vallata che da Recoaro Terme scende verso Montecchio Maggiore. Dodici mesi fitti di incontri, vertici in comune, mediazioni con il proprietario del laboratorio artigianale. «Un'ora e mezzo dopo la mia elezione erano già sotto casa mia a chiedere udienza», ricorda il primo cittadino Martino Montagna, 44 anni, giornalista prestato alla vita amministrativa, insediato un anno fa a chiudere 15 anni di giunte monocolore verde padano. Evidentemente quelli di Cornedo giudicavano i leghisti locali troppo mollaccioni.

È stata una battaglia estenuante. Il padrone dello stabile aveva già firmato il compromesso di vendita con l'associazione Annur e intascato la caparra. «I residenti si lamentavano per non essere stati informati da nessuno, a cominciare dal comune - spiega il sindaco che guida una lista civica -. Non c'era ostilità verso i musulmani, ma una questione di ordine pubblico». Una sola strada, niente parcheggi, dalle 300 alle 500 persone che ogni venerdì pregano Allah e raddoppiano nelle principali festività dell'Islam.

«Nella contrada si vive benissimo come una volta», racconta Gaetano Dalla Gassa, uno dei leader della protesta, titolare di una ditta di palificazione e consolidamento di terreni e membro del direttivo delle Piccole industrie di Valdagno: «È un nucleo tradizionale di 150 persone molto unite, facciamo tre sagre all'anno, una piccola comunità coesa che sarebbe stata stravolta dall'arrivo di centinaia di musulmani». Gente molto pratica, che ha capito in fretta l'unico modo per rovesciare la situazione: mettere sul piatto una bella cifra e ricomprarsi lo stabile, anche se non sono tempi favorevoli per investire nel mattone.

Ci sono voluti lunghi mesi di trattative complicate, assemblee ogni lunedì sera, la collaborazione del sindaco, il coinvolgimento dell'associazione Annur. «Persone per bene e disponibili al dialogo - assicura Dalla Gassa -. Noi non ce l'abbiamo con gli stranieri, ai Tomasoni vivono una trentina di extracomunitari, famiglie provenienti dall'India e dall'Europa orientale. Anche alcuni di loro partecipano alla nostra operazione immobiliare». Dove operava l'artigiano delle confezioni verranno costruiti quattro o cinque appartamenti da 80-100 metri quadrati. La gente della contrada e qualche amico stanno per sborsare 50mila euro (che saranno restituiti a cose fatte) per stracciare il vecchio preliminare e firmarne uno nuovo.

Un'impresa edile realizzerà le opere con un po' di sconto: il valore dell'operazione supera i 200mila euro. Alcuni abitanti, tra cui Dalla Gassa che ha un figlio da sistemare, hanno già garantito l'acquisto degli alloggi: ne resta ancora uno da piazzare. Il centro culturale islamico ha riavuto i soldi versati ed entro l'anno troverà un accordo con il comune di Cornedo per una sistemazione alternativa, più grande, con un piazzale comodo per le auto, che non dia problemi di ordine pubblico. E sia lontana dal piccolo mondo antico dei Tomasoni.

domenica 20 giugno 2010

Deliri islamisti


Apprendiamo con un certo sgomento che un ayatollah iraniano ha emesso una fatwa contro la moda, sempre più imperante fra le giovani ragazze di Teheran, di avere un cagnolino da portare a spasso. Secondo i Revayat, i ‘detti’ attribuiti al Profeta Maometto, il cane sarebbe infatti un animale impuro da cui i buoni musulmani devono stare alla larga. La diffusione di questa moda, secondo il parere giuridico, altro non è che un pericoloso esempio di “cieca imitazione dell’Occidente”, dov’è risaputo che gli infedeli si accompagnano supinamente agli immondi quadrupedi. Già in passato, la polizia iraniana ha multato i trasgressori beccati a portare il cane a fare i bisognini.

A prima vista sembra assurdo che in un momento in cui l’Iran conosce una nefasta repressione del movimento giovanile scaturito dopo la rielezione tarocca del presidente Ahmadinejad – un anno di arresti, sparizioni senza giusta causa, processi farsa ed esecuzioni –, sulla stampa occidentale ci sia posto per notizie di “colore” come questa, che se faranno imbestialire gli animalisti evidentemente distolgono l’attenzione dalla vera battaglia che dovrebbe interessare la stampa, i governi e le opinioni pubbliche occidentali: appoggiare la campagna di protesta dell’Onda Verde per favorire un cambio di regime a Teheran.

Ma forse non tutte le bizzarrie vengono per nuocere. Difendere i diritti canini, in fondo, è un gesto di civiltà, quella stessa civiltà che ha creato i diritti umani e che sta profondamente sulle scatole ai mullocrati iraniani. Anzi non sarebbe una cattiva idea proteggere i nostri amici a quattro zampe contro un regime che si vanta di un divieto che, per inciso, non è neppure scritto nel Corano, ma appunto solo nei detti attribuiti al Profeta. Per l’occasione, vorremmo suggerire uno slogan ai ragazzi dell’Onda Verde che manifestano in piazza: “Mullah, mullah, un barboncino vi seppellirà!”.

Le idee (geniali) di Bersani


MILANO - L'articolo uno della Costituzione sancisce che la sovranità appartiene al popolo, ma secondo il leader del Pd Pierluigi Bersani il premier Silvio Berlusconi non se lo ricorda. «Si vede chiaro dai suoi messaggi che la sua memoria, che pure è vivida, non arriva al secondo comma», ha detto il segretario del Pd nel suo intervento alla manifestazione del Pd a Roma contro la manovra, «Allora glielo ricordiamo noi: quelle forme e quei limiti sono una magistratura indipendente, una libera informazione, e che tutti sono uguali di fronte alla legge». Ma, ha aggiunto, «tutto questo non si può cambiare e se non gli piace va a casa».

«MANOVRA: 2380 COMMI SENZA UNO STRACCIO DI IDEA» - L'esecutivo guidato da Silvio Berlusconi «è una macchina tarata per accumulare consenso, non per fare governo» ha aggiunto Bersani che ha poi attaccato anche la manovra: «Non abbiamo mai avuto una discussione sul che fare per la crisi, abbiamo avuto dieci mini manovre, dieci decreti, pilloline. Per chi passava il suo tempo a misurare le pagine del programma di Prodi, il record di Prodi lo ha battuto: 2.380 commi senza uno straccio di idee, senza direzione di marcia». «Con questa manovra - ha aggiunto Bersani - viene data una pistola agli enti locali perchè sparino al popolo. Perchè sparino al popolo non alle quaglie. Saremo punto e da capo tra qualche mese e avremo dato una botta ai redditi medio bassi. La manovra è depressiva. Riduce i consumi, lo dice anche la Banca d'Italia. In questa manovra pagano gli insegnanti, i bidelli i poliziotti ma quelli con il reddito di Berlusconi non pagano zero».

INTERCETTAZIONI - Il leader del Pd ha poi affrontato il tema del ddl sulle intercettazioni: «Dicono che stanno riflettendo, bene. Vuol dire che hanno capito che vanno sul duro ma attenti, loro fanno così: fanno alt, non trovano la quadra e si rimettono l'elmetto e via con i voti di fiducia...». «Finora - ha osservato Bersani - hanno messo oltre 30 voti di fiducia e 50 decreti. Siamo a circa un voto di fiducia alla settimana di lavoro in Parlamento. Ma il Parlamento è il luogo della libertà di tutti e se si zittisce quel luogo non c'è più libertà per nessuno». «Mi chiedo quale sia la ragione di questa ossessione del premier sulla legge sulle intercettazioni. Ma il presidente del consiglio Berlusconi non ne ha altri pensieri?» aveva detto in precedenza anche la capogruppo dei senatori del Pd Anna Finocchiaro.

ANTIPOLITICA - Per Bersani inoltre bisogna lottare «contro gli effetti collaterali del berlusconismo, che creano antipolitica e il diffondersi della sfiducia». Effetti che «sono coltivati da Berlusconi per sguazzarci dentro. Sembrava che questo governo doveva cambiare tutto e invece non ha fatto niente. Nascondono i problemi col frastuono. È un meccanismo che rischia di fare diventare gli italiani frustrati e impotenti, ed ecco invece il nostro compito, il compito del Pd, difficile ma ineludibile - ha aggiunto -: trasformare la rabbia dei cittadini in energia fiduciosa per il cambiamento e per farlo mi rivolgo a tutte le forze di opposizione. Siamo un bel partito, una delle più grandi forze riformiste europee, dobbiamo solo essere più forti delle nostre debolezze».

LEGA - Poi Bersani attacca anche la Lega: «Vorrei mandare un messaggio a Bossi, un messaggio a Pontida per dirgli: guarda Umberto che con il "Va pensiero" o tifando Paraguay non si mangia mica nè si fa il federalismo. Questa Lega qua è dura sugli inni e sulla Nazionale di calcio ma con i miliardari è mollacciona».

RAI - Bersani ha successivamente affrontato anche il tema della Rai: «La Rai è pagata per lavorare contro se stessa. Dà fastidio che lo dico? Ma lo faccio carte alla mano - continuato Bersani - e con sullo sfondo il caso Santoro. Berlusconi, il governo, Tremonti vogliono la libertà di impresa? E allora Tremonti liberi la Rai, che è una azienda del Tesoro».

venerdì 18 giugno 2010

La memoria corta...


I post-it gialli che Repubblica va disseminando nelle sue pagine da giorni per ricordare ai lettori che «la legge-bavaglio nega ai cittadini il diritto di essere informati», forse andrebbero appiccicati agli occhiali di Walter Veltroni. Uno per lente. Tanto non gli servono per vedere che il limite del ridicolo, l’ex leader del Pd, lo ha già oltrepassato da un po’. L’ultima dichiarazione del fu sindaco di Roma in tema di intercettazioni porta la data del 10 giugno ed è un grido di dolore: «Il ddl è una ferita aperta e profonda, questa è una brutta giornata per il Paese». Una coscienza democratica lacerata, ancora risuona l’eco dello strappo irreparabile. A martirizzare la sensibilità civica di Veltroni, ovviamente, l’approvazione con fiducia - da parte del Senato - del provvedimento che limiterà le intercettazioni e soprattutto impedirà l’esondazione di atti secretati sulle pagine di tutti i giornali. Niente da dire, un atto barbarico. Peccato che lo stesso Veltroni abbia sostenuto la stessa identica soluzione per anni.

In realtà, a voler essere precisi, Veltroni quella sua linea non la sostenne soltanto, ma addirittura la mise nero su bianco. E mica su un post-it. No, sul suo programma elettorale alle Politiche 2008, quelle del «Si può fare» che faceva il verso all’obamiano «Yes, we can». Al punto 4 («Diritto alla giustizia giusta, in tempi ragionevoli»), comma b, Walter proponeva «il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia e di misura cautelare fino al termine dell’udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali». Il ddl attuale pari pari. Non solo, allo stesso comma, Veltroni aggiungeva: «È necessario ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali per renderle un’efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati». «Deterrenza», «ridurre drasticamente», «più severe»: roba da fargli una corona di post-it e mandarlo in giro come un monumento vivente alla giravolta. Eppure ai tempi nessuno disse nulla, neanche La Stampa, che magari poteva sottolineare in giallo quelle parti del programma, così come ora sottolinea quelle parti di articoli che non si potrebbero pubblicare con il nuovo ddl. Neanche i giornalisti Rai che ora protestano, inviati in quell’Africa tanto cara allo stesso Walter.

Si potrebbero anche segnalare gli ulteriori, successivi interventi di Veltroni sul tema. Era il novembre 2008 e lui tuonava: «Ci vogliono meccanismi per impedire che le intercettazioni finiscano sui giornali, in un sistema in cui la vita dei cittadini è presa, palleggiata e sbattuta contro un muro». Certo, se i cittadini sono democratici. Se sono popolari o libertari possiamo pure rimbalzarli tra escort, Salaria Sport Village e compagnia finché non si sgonfiano. Toni ancor più netti nel febbraio 2009: «Non devono uscire sui giornali, questo è un fatto di civiltà, un’elementare norma di privacy (...). Le intercettazioni possono essere limitate nel tempo».

E allora discutiamone, di questa civiltà, di questo «elementare Walter». Perché un anno e spicci fa le intercettazioni dovevano rimanere blindate fuori dai giornali e ora invece, se qualcuno si adopera per dare due mandate e buttar via la chiave, si parla di «ferita»? E ancora: quando Veltroni scriveva il suo ponderoso programma elettorale, dov’erano tutti gli esponenti del Pd che ora levano pugnaci gli scudi come indomiti spartani davanti a Serse? Quel Bersani che ora invita le truppe a «combattere con tutte le forze», due anni fa mica era parlamentare del Partito dei pensionati cecoslovacchi. No, era nel direttivo del Pd. Non era della corrente veltroniana, ma se Walter fosse stato eletto premier, quello sarebbe stato anche il suo programma di governo. Com’è questa storia? Allora si poteva fare e ora non si può più fare?

La realtà è che a sinistra le intercettazioni sono come gli acquazzoni estivi: piacciono solo se non siamo noi a essere in ferie. E così tutti a ringhiare se nel marasma indifferenziato della pubblicazione-spazzatura ci finiscono D’Alema o Consorte, Prodi o la giunta Iervolino. Tutti a difendere la facoltà di sparlare, invece, se a finire in prima pagina sono le chiacchierate - magari assolutamente private - di gente comune, meglio ancora se legata al centrodestra.

Resta che la capacità camaleontica di Veltroni è quasi patologica. Quasi da mosaicismo, quella particolare condizione per la quale in un individuo convivono diverse linee genetiche. Ecco, Veltroni - e il suo proverbiale ma-anchismo lo conferma - ha dna giustizialista quando governa Berlusconi, dna garantista quando nei casini c’è gente del Pd. Custodiamolo con cura, roba da clonare in futuro: mai visto un politico in grado di adattarsi così bene a tutti i climi.

giovedì 17 giugno 2010

Unesco e dittatori


Roma. Dal Premio Stalin al Premio Obiang. Che l’Unesco accetti tre milioni di dollari all’anno per un premio scientifico è un’idea eccellente, commenta il New York Times. Ma lo è molto meno il fatto che il suo benefattore sia un tiranno corrotto e sanguinario. Dopo trent’anni di dittatura e repressione, il presidente della Guinea equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, aveva deciso di darsi una bella ripulita. Quale mezzo migliore di un fondo Unesco intitolato a suo nome e dedicato alla scienza? Tre milioni di dollari all’anno per cinque anni provenienti dall’ex colonia spagnola ricchissima di petrolio. Una nazione passata dalla dittatura del filosovietico Macìas Nguema, che faceva bollire vivi nella pece gli oppositori politici, a quella del nipote Teodoro Obiang, al potere dal 1979 e che si calcola abbia fatto uccidere quarantamila oppositori. Un perfetto “outpost of tyranny”, un avamposto della tirannia. Mentre scriviamo la delegazione americana all’Unesco ha chiesto di ritirare il premio e in tutto il mondo sono in corso proteste delle organizzazioni dei diritti umani contro l’agenzia dell’Onu per la cultura, diretta dalla bulgara Irina Bokova. La prima edizione del premio si terrà alla fine di giugno, a Parigi, e si chiamerà “Unesco-Obiang International Prize for Research in the Life Sciences”. Contro l’Unesco si sono schierate più di quaranta associazioni che militano per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Global Witness, ma anche diversi scrittori e premi Nobel, come il francese Claude Cohen-Tannoudji, Nobel per la Fisica nel 1997, e il canadese John Polanyi, Nobel per la Chimica nel 1986. “La reputazione dell’Unesco sarà oscurata se l’organizzazione dovesse permettere a un tiranno di usare l’organizzazione per migliorare la sua immagine”, affermano le associazioni in un comunicato. I quotidiani americani hanno definito il filantropo dell’Unesco “il peggior dittatore d’Africa, peggio di Mugabe”. Malgrado la facciata pluralista, il suo partito ha 99 dei 100 seggi in Parlamento, il 90 per cento dei leader oppositori è in esilio e almeno 550 di loro sono stati vittime di processi politici, alcuni sono stati uccisi. Il culto della personalità di Obiang, che vanta anche un centinaio di figli, è arrivato a tal punto che molti suoi cittadini portano vestiti con la sua faccia impressa. Secondo Forbes ha ammassato una fortuna di 600 milioni di dollari a spese dello stato. Mezzo miliardo è stato da lui depositato a Washington “per evitare di indurre in tentazione di corruzione i funzionari”. Un paese apparentemente molto prospero il suo. E’ la seconda economia più ricca al mondo, dopo il Lussemburgo e prima degli Emirati Arabi. Ma nel paese più piccolo dell’Africa continentale, che è anche quello apparentemente più ricco, la maggior parte della popolazione vive con meno di un euro al giorno, e scarseggiano acqua corrente ed elettricità. Nel luglio del 2003 la stazione radio nazionale bloccò ogni trasmissione. Poi l’annuncio che Teodoro Obiang era diventato il “Dio” della Guinea equatoriale e che da quell’anno in poi avrebbe avuto “il diritto di uccidere senza dovere rendere conto a nessuno e senza andare all’inferno”. Nelle parole dell’ex ambasciatore americano John Bennett, “il regime di Obiang non è davvero un governo, ma piuttosto un’interrotta cospirazione criminale a carattere familiare”. Non esattamente la miglior cassa filantropica per la prestigiosa organizzazione che per conto dell’Onu deve promuovere la cultura e la scienza in tutto il mondo. Si calcola che sotto il regime del suo predecessore, Macías Nguema, fu sterminato un terzo della popolazione del paese. “Meglio” di Pol Pot in Cambogia e del genocidio in Rwanda. Giovane colonnello esecutore del genocidio era il nipote del satrapo, l’attuale presidente Obiang, il più generoso patrono della scienza che l’Unesco abbia mai conosciuto.

martedì 15 giugno 2010

Spagna e burqa

Peccato però che in spagna c'è Zapatero...


MADRID— Barcellona sarà la prima grande città spagnola a vietare il velo integrale negli uffici pubblici, nei mercati comunali, negli asili e in alcune scuole. Lo ha annunciato ieri il sindaco socialista Jordi Hereu precisando che «non si tratta di questioni religiose ma di sicurezza: non può essere permesso a nessuno di entrare in un edificio pubblico senza essere identificato». Oltre al velo che copre interamente il viso, «burqa» afghano o «niqab» mediorientale che sia, sono infatti già vietati in questi luoghi i caschi integrali da motociclista o da sciatore. In Spagna, dove i musulmani hanno superato il milione su 47 milioni di abitanti, è dalla fine di maggio che alcune città minori hanno decretato il divieto di «burqa». Altre di maggior importanza, come Tarragona e Gerona, hanno annunciato che seguiranno l’esempio. In Francia e in Belgio leggi nazionali sono in via di approvazione.

Femministe e politically correctness


Le femministe rispondono con queste parole alle accuse di Souad Sbai: "chiunque può capire che non siamo negli anni Settanta e che la frammentazione del movimento rende difficile far sentire in modo univoco la voce delle donne in casi come questo di Sanaa. Ma non è vero che siccome non c’è il coro allora niente si muove". Nascondersi dietro la presunta frammentazione del movimento è ridicolo. E in ogni caso, ciò che viene rimproverato è il loro silenzio, la loro totale indifferenza di fronte all'assassinio di una ragazza uccisa perchè troppo 'occidentale'. Non era richiesta una parata con roghi coreografici di reggiseni e slogan evocativi, ma almeno una condanna del fondamentalismo islamico maschilista, questo sì. Non era necessario coordinarsi per farlo.

MILANO— «Sono rammaricata». Non è la prima volta che succede e Souad sa bene che non sarà l’ultima. Però ci tiene lo stesso a farlo notare: «Mi dispiace sono rammaricata di vedere ancora una volta la pressoché totale assenza delle femministe. Tutta l’Italia si deve schierare dalla parte delle donne e di Sanaa. Oggi siamo tutte Sanaa». Da parlamentare pdl o da presidente dell’associazione delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai ha già seguito decine di casi simili a quello di Sanaa, magari non così tragici ma comunque storie di sopraffazioni, di donne che soccombono, che soffrono, che a volte si arrendono alla violenza di un marito, un padre, un fratello. E ogni volta che ha potuto, Souad ha fatto presente quell’assenza: le femministe.

«Peccato che il femminismo non sia un gruppo di presenza, non si muova come i carabinieri. È un movimento», le risponde stizzita Ritanna Armeni, giornalista e scrittrice nonché convinta femminista da sempre. «Che cosa miserabile questo modo strumentale per attaccare il femminismo di sinistra... — se la prende —. E poi mi fa specie che venga da persone che ritengono vetero le manifestazioni, folli i cortei, sbagliata la piazza... Vogliamo ricordare che il femminismo ha imposto le leggi contro la violenza?». E che sia chiaro: «Se il ministro Carfagna o un gruppo di femministe è al processo di Sanaa dico che è una cosa buona, certo. Ma se non c’è non è una cosa cattiva. Lo so dove si vuole arrivare: dire che le donne di sinistra non sono femministe quando si tratta di colpire un islamico. Una teoria che non si può sentire».

Inascoltabile anche per Carmen Leccardi, docente di Sociologia della cultura e delegata per le pari opportunità dell’università Bicocca di Milano. «Più che le femministe — ragiona — io direi che il vero problema è che la società civile tutta assieme stenta a far sentire la sua voce. E poi chiunque può capire che non siamo negli anni Settanta e che la frammentazione del movimento rende difficile far sentire in modo univoco la voce delle donne in casi come questo di Sanaa. Ma non è vero che siccome non c’è il coro allora niente si muove».

Paolo Di Stefano: "Per Hina e Sanaa lo stesso ergastolo, ma si diffonde l'indifferenza"

Quando, nell'agosto 2006 in provincia di Brescia, Hina Saleem, una ventenne pakistana fu sgozzata dal padre (e sepolta nel giardino di casa) perché «si comportava da occidentale e rischiava di diventare come le ragazze di qui», l'opinione pubblica rimase sconvolta con tanto di mobilitazione del dibattito culturale sullo scontro o confronto di civiltà tra Islam e Occidente. Al delitto si aggiunse l'agghiacciante dichiarazione della madre di Hina, che dava ragione al marito: «Mohammed ha fatto giustizia».

Tre anni dopo, e cioè nel settembre scorso, a Pordenone, un destino analogo è toccato a Sanaa Dafani, una diciottenne marocchina, uccisa dal padre che (esattamente come il padre di Hina) pretendeva di disporre della vita della figlia e non accettava la sua relazione con un ragazzo italiano. Ieri il tribunale ha emesso la stessa sentenza di tre anni fa: ergastolo. Il delitto d'onore, per fortuna, è punito dalla nostra legge.

Giustamente, la deputata Souad Sbai, presidente delle donne marocchine in Italia, si è rammaricata del fatto che il processo è stato disertato dalle femministe, che neanche si sono dichiarate parte civile in difesa della povera Sanaa.

Ma forse, a ben pensarci, ci sarebbero ragioni di rammarico più sottile e forse più gravi. Non da ultimo la sensazione che mentre in passato si restava indignati e increduli di fronte a queste forme di violenza tribale, oggi si sia passati a una sorta di generale indifferenza. Che può essere tranquillamente assimilata ad altri tipi di assuefazione che si manifestano in presenza delle ordinarie follie cui assistiamo quasi quotidianamente e che non hanno nessuna coloritura etnica o religiosa: insensate stragi familiari, carneficine di provincia, regolamenti di conti tra vicini e lontani. Ma viceversa la stessa indifferenza si può interpretare anche come una alzata di spalle di fronte a fenomeni che tutto sommato ci appaiono (erroneamente!) estranei. Un modo per dire: «In fondo sono fatti loro!». Tra complicità e autolesionismo.