Tutti parlano di Binyam Mohamed, il primo detenuto di Guantanamo che sarà riconsegnato al governo inglese in ossequio al nuovo corso legalista del presidente Obama. Mohamed ha detto che in questi anni è stato torturato con “metodi medievali”. Non è nostra intenzione minimizzare la serietà degli abusi che il cittadino di origine etiopica può aver ricevuto durante la sua detenzione. Se è stato sottoposto al trattamento che descrive dobbiamo chiamarla con il suo nome. Tortura. Il “Weekly Standard” scrive che Mohamed è stato tagliuzzato con rasoi e coltelli in “aree sensibili” del corpo. La rivista americana avrebbe potuto risparmiarsi questo giro di parole per chiamare la parte ‘sensibile’ con il suo nome e cognome: il pene, il petto, lo stomaco. Ed è anche un po' meschino addossare tutta la colpa delle torture al Marocco, visto che gli avvocati del prigioniero hanno fatto sapere che il momento peggiore – per il loro assistito – fu quando si accorse che i suoi carceriere avevano ricevuto documenti e richieste precise dal governo inglese e da quello americano. Non possiamo verificare quanto siano fantasiose le memorie del prigioniero. Ma dobbiamo ricordare perché Mohamed è stato arrestato, trasportato da un carcere all’altro, sottoposto a pressioni, interrogatori ed eventuali torture. Ci sono buone ragioni per ritenere che, prima della cattura, stava preparando un attacco sul suolo americano. Adesso sarà libero di fare propaganda a Londra, ma fino a qualche anno fa si aggirava al confine tra Pakistan e Afghanistan, preparandosi al Jihad. E chissà che in futuro non ci ripensi. Apprendiamo che Mohamed, nell’estate del 2001, raggiunse l’Afghanistan per disintossicarsi dalla scimmia di eroina. Questo l’alibi fornito in un primo momento agli investigatori. Quanto sia verosimile che un drogato scelga di recarsi nella patria dell’oppio per disintossicarsi è un mistero. In realtà, come ha ammesso sotto interrogatorio, era andato in Afghanistan per essere addestrato nei campi di Al Qaeda. Non era partito con l’intenzione di uccidere americani ma per ricevere un’istruzione militare per la guerra in Cecenia. Un suo avvocato ha detto che “Mohamed desiderava vedere con i suoi occhi i campi dei Talebani”. Il campo di al Farouq era uno dei centri di smistamento del terrorismo quaedista. Qui venivano educati i martiri per gli attacchi contro l’Occidente ed è da qui che passarono alcuni membri della cellula di Amburgo prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Bin Laden visitava spesso il campo insieme a Khaled Sheik Mohammed che si occupava del reclutamento e di finanziare le missioni dei kamikaze all’estero, fornendogli qualche migliaio di dollari. Khaled Sheik Mohammed non è stato rilasciato. E’ ancora rinchiuso a Guantanamo. Qualche settimana fa ha dichiarato di voler essere condannato a morte: “Il mio sarà il primo Jihad giudiziario contro l’America”. Tornando al Mohamed che sarà liberato, è chiaro che nel campo non si veniva addestrati soltanto alla guerriglia in Cecenia ma anche, e soprattutto, a condurre operazioni contro gli Stati Uniti e i loro alleati. Lo stesso Bin Laden avrebbe avvertito Mohamed nell’estate del 2001: “Sta per succedere qualcosa di grosso”. Lasciato il campo, il giovane continuò a fare esperienza in Afghanistan combattendo a fianco dei Taliban contro l’Alleanza del Nord guidata dal generale Massud. Al suo ritorno a Kabul, avrebbe frequentato una scuola di perfezionamento sull’uso degli esplosivi, incrociandosi con Richard Reid, altra firma storica del terrorismo bombarolo. Infine, l’incontro con Abu Zubaydah. Secondo il governo americano, il gruppo di fuoco messo in piedi da Zubaydah – di cui faceva anche parte Mohamed – aveva come obiettivo di colpire per la seconda volta gli Usa dopo l’11/9. L’accusa parla di una “bomba sporca”, fatta di esplosivo e radiazioni, destinata al popolo americano. Durante il training, Mohamed avrebbe proposto l’idea di “attaccare le stazioni delle metropolitane americane”. Pensiamoci un attimo. La gravità di questi piani viene riportata difficilmente dai media, dai giornali e dalle agenzie stampa che stanno seguendo la notizia della liberazione di Mohamed. Ovviamente i suoi difensori controbattono che la confessione è stata estorta sotto tortura e quindi non vale niente. Eppure Mohamed ha conosciuto Khaled Sheik. Non era capitato per caso in Afganistan. Sottoposto ad interrogatorio tramite waterboarding, Khaled Sheik ha ammesso che esisteva un piano per colpire le metropolitane degli Usa e che ne aveva discusso proprio con Zubaydah e lo stesso Mohamed.
L'accordo fra Berlusconi e Obama. Chi sono i tunisini di Guantanamo che molto presto torneranno in Italia di Roberto Santoro
Per ricostruire la storia di Abu Doujana e di Abou Nassim, i due detenuti di Guantanamo che Berlusconi ha promesso di “custodire” in Italia, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di vent’anni. Cioè quando scoppia la guerra civile algerina fra il governo, i vecchi terroristi del FIS (poi GIA) e la nuova leva jihadista del “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento”. Una carneficina con decine e decine di migliaia di vittime fra la popolazione civile. Algeria, Marocco e Tunisia, vengono investite dal Jihad mentre i mujaheddin veterani dell’Afghanistan tornano in nordafrica dopo la vittoriosa guerra contro i sovietici. Da qui la rete terrorista si dipana in mezza Europa inseguendo il progetto del nuovo califfato globale. Fino a raggiungere Milano, tra piazza Vetra e la Moschea di Viale Jenner. In piazza Vetra si spaccia hashish per finanziare la guerra santa, nella moschea gli imam inneggiano all’odio contro l’Occidente. Il lavaggio del cervello trasforma giovani immigrati nordafricani in shahid e miliziani indottrinati, pronti a spacciare soldi falsi, passaporti e permessi di soggiorno contraffatti. Verso la fine degli anni Novanta la polizia e la magistratura milanesi sono sulle loro tracce. Li seguono, li intercettano, stringono il cerchio intorno alle moschee e ai centri culturali islamici. Scoprono le case in cui si riuniscono e le società di facciata aperte come copertura ai loro traffici. Ma a quell’epoca Abu Doujana e Abou Nassim sono già in Afghanistan. Il primo è diventato il capo della “casa dei tuninisi” di Jalalabad, il secondo di quella pakistana a Peshawar. Aspettano che arrivi carne fresca dall’Italia da addestrare mentalmente e praticamente al martirio nei campi di addestramento di Al Qaeda a Farouk e Kalden. Qui s’impara a usare kalashnikov e missili Sam, razzi RGP e bombe artigianali. Il “corso” prevede anche la visione di un numero indefinito di cassette sulla Guerra in Cecenia e in Bosnia che servono a motivare le reclute. Il messaggio è semplice: l’America è il nemico, la vita terrena è fatta di miserie, violenza e astinenza, quella ultraterrena sarà colma di ricchezze e di piaceri. Grazie alle confessioni di pentiti come Riadh Jelassi e Tlili Lazhar, il giudice Salvini riesce a smascherare la colonna dei jihadisti milanesi. Per farlo è necessario adattare la legislazione antiterrorismo italiana – che ci permise di sconfiggere le BR – al nuovo e micidiale pericolo rappresentato dal salafismo. Salvini mostra che la cellula ha scelto l’Italia come base logistica per i suoi attacchi, finanziando il martirio, tracciandone le rotte, propagando i sermoni, diffondendo materiale audio e video per le “conversioni” al jihad. Gli arrestati avevano in mente di colpire obiettivi sul suolo italiano, se fosse stato necessario: la base militare di Mondragone a Caserta, la caserma dei Carabinieri di via Moscova, la Questura e la Stazione Centrale di Milano. Si comprende meglio anche il significato del termine “Jihad”, che non è solo lo sforzo compiuto sulla via di Allah dal singolo credente per il benessere della comunità islamica, ma anche una “azione militare religiosamente giustificata al fine di creare un ambiente universale islamico” come scrivono gli inquirenti. “Guerra difensiva” secondo i militanti che si battono contro l’Occidente colpevole di aver depredato e colonizzato il mondo islamico, guerra offensiva per chi indaga su di loro: una guerra che non fa differenza tra civili e militari e che ha come obiettivo primario quello di seminare il terrore fra i “kafir”, gli infedeli, per asservirli al proprio credo. A un cento punto, fra Abu Doujana e Abu Nassim scoppia un’insanabile rivalità. La coppia gestiva la manovalanza nei campi di addestramento di Al Qaeda e di conseguenza un sacco di dollari. Così si mettono a litigare selvaggiamente e finiscono per essere sostituiti. Dopo l’11 Settembre le loro tracce si perdono. Vengono catturati dagli americani e sottoposti a “rendition”. Interrogati non si sa bene dove e soprattutto come. Rispuntano nelle liste di Camp Delta a Guantanamo. I loro confratelli sono andati a immolarsi in Algeria (con la sigla Al Qaeda del Maghreb islamico), in Iraq e in Afghanistan. Altri ancora hanno provato l’ebbrezza dell’addestramento e poi sono tornati a casa rinnegando la Causa. Almeno 20 jihadisti della colonna italiana hanno raggiunto l’Afghanistan preparandosi al martirio e alla Guerra Santa. Il governo Berlusconi ha accettato che i due tunisini prigionieri a Guantanamo tornino in Italia. Pende sulla loro testa una ordinanza di custodia cautelare per terrorismo e altri reati legati all’immigrazione clandestina. Dovrebbero essere rinchiusi in regime di massima sicurezza in attesa della sentenza definitiva, sempre che qualche buco nel nostro sistema giudiziario non gli consenta di farla franca. I reati di cui devono rispondere davanti alle autorità italiane potrebbero cadere in prescrizione, oppure, ma è meno probabile, la magistratura potrebbe valutare che i tempi di detenzione “illegali” (secondo il nostro ordinamento) a Guantanamo debbano essere scalati dalla custodia cautelare in Italia. Le rispettive diplomazie si stanno muovendo per chiarire i dettagli tecnici dell’accordo; per adesso sappiamo che i prigionieri non verranno estradati ma consegnati dalle autorità americane e quelle italiane – visto che Guantanamo è un carcere militare su cui il ministero della giustizia americana non ha competenza. La nostra giustizia ha saputo scovare questi terroristi, ha ricostruito la rete che avevano messo in piedi nel nostro Paese, i suoi collegamenti con il nordafrica e il resto dell’Europa. I giudici hanno mostrato cos’era diventata la Moschea di Viale Jenner a ridosso dell’11 Settembre. Tutto eccetto che un luogo di preghiera. Adesso dovremo custodirli e magari strappargli altre preziose informazioni da condividere con i nostri alleati. A modo nostro, s’intende.
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