Negli ultimi anni le classi dirigenti europee hanno usato e abusato di due termini-chiave per giustificare le loro sempre più evidenti difficoltà nella raccolta del consenso: «euroscetticismo» e «populismo». Il significato dei due termini, adoperati spesso insieme, è incerto. Ciò che invece si capisce subito è a che cosa serve il loro uso così insistito: ad assolvere preliminarmente le suddette classi dirigenti da ogni colpa o difetto, nonché ad esimerle da ogni esame spregiudicato della realtà. Dire «euroscetticismo» e «populismo» è come dire il maltempo o una malattia. Ci sono e basta: l’unica cosa certa è che noi non ne abbiamo colpa. Anche per spiegare (si fa per dire) i risultati delle ultime elezioni europee, in specie la rovinosa sconfitta della socialdemocrazia, si invocano adesso di nuovo i malefici effetti dell’ «euroscetticismo» e del «populismo». E’ giunta dunque l’ora di cercare di capire cosa si nasconda davvero dietro queste due parole. In realtà esse alludono, sia pure inconsapevolmente e travisandone grossolanamente il senso, a una drammatica cesura in atto nello scenario storico europeo. Sotto i nostri occhi finisce oggi, infatti, l’epoca apertasi nel 1945. Sono scomparsi o sono in crisi i meccanismi di legittimazione con cui i gruppi dirigenti socialisti e cristiani si affacciarono sulla scena del dopoguerra e costruirono la loro egemonia. Poniamo mente a qualche dato di fatto: da un lato è cessata la possibilità di lucrare sulla guerra fredda; dall’altro il carattere ormai problematico del rapporto con gli Stati Uniti, insieme al ritorno in gioco delle nazioni della parte orientale del continente, aprono un drammatico interrogativo epocale sul significato e sul futuro geopolitico dell’Europa; dal canto suo il Welfare State è ormai improponibile perlomeno nelle forme sin qui sperimentate, mentre dappertutto le economie europee sono afflitte da gravi problemi di tenuta e di competitività; contemporaneamente, su un altro fronte non meno importante, secolarizzazione e immigrazione vanno interpellando in modo radicale forme e contenuti delle nostre identità collettive. A un tale enorme ammasso di problemi le culture politiche e i gruppi sociali fin qui egemoni in Europa non si sono mostrati in grado di dare la minima risposta. Anzi hanno spesso cercato di negarli. Il loro armamentario intellettuale è apparso desolantemente vuoto, e proprio questa assenza ha reso sempre più evidente la prevalenza nelle classi dirigenti del continente di un carattere progressivamente asfittico, autoreferenziale, e alla fine oligarchico; ha sottolineato la loro perdita di rapporto con la realtà. Ciò riguarda non solo le élites politiche. Riguarda in eguale misura tutte le élites delle società europee (economiche, intellettuali, burocratiche), via via convertite tutte allo stesso modo, nell’azione sociale, a una miscela di mercato e di tassazione, di assistenzialismo e di meritocrazia, senza mai nessuna scelta coraggiosa, innovativa. Così come tutte si sono allo stesso modo accomodate culturalmente in un pensiero unico fatto di cautela, di misurata scaltrezza, di equilibrismi convenzionali, all’insegna di un’ossessiva banalità democratica, di un universalismo culturale che è solo tiepidezza, di un relativismo etico dominato da «ascolti» e «dialoghi». Ma dietro questo melting pot ideologico delle società europee le opinioni pubbliche non faticano a indovinare sempre più spesso il nulla. Il nulla e l’opportunismo. Questa sensazione di un nulla impastato di opportunismo che ormai di fatto domina l’azione dei partiti e l’intera sfera sociale è ciò che sta producendo un sentimento oscuro ma profondo di disistima e di ribellione, di delegittimazione, verso tutte le élites dominanti in Europa a partire dal ’45. Soprattutto di quelle di sinistra, come è ovvio, dal momento che proprio la sinistra è tradizionalmente ancora considerata da molti, nel nostro universo politico-simbolico, come l’ambito elettivo di personalità, progetti e valori «veri». È proprio questo, invece, che appare sempre più dubbio. Perché infatti un elettore di sinistra dovrebbe dare fiducia alla socialdemocrazia quando vede uno dei suoi più illustri esponenti storici, l’ex cancelliere Schröder, trasformarsi, nel più totale silenzio dei suoi ex compagni, in un danaroso procacciatore d’affari al servizio dello zar di tutte le Russie? E tanto per restare in Germania, perché mai un elettore del vecchio continente non dovrebbe diventare euroscettico vedendo – pure questa volta senza che nessuno abbia nulla da ridire – la signora Merkel preferire che la Opel vada a finire in mani russe (ancora!) e canadesi, anziché in quelle della Fiat?
sabato 13 giugno 2009
Unione europea
Europa, la fine di un ciclo di Ernesto Galli Della Loggia
Negli ultimi anni le classi dirigenti europee hanno usato e abusato di due termini-chiave per giustificare le loro sempre più evidenti difficoltà nella raccolta del consenso: «euroscetticismo» e «populismo». Il significato dei due termini, adoperati spesso insieme, è incerto. Ciò che invece si capisce subito è a che cosa serve il loro uso così insistito: ad assolvere preliminarmente le suddette classi dirigenti da ogni colpa o difetto, nonché ad esimerle da ogni esame spregiudicato della realtà. Dire «euroscetticismo» e «populismo» è come dire il maltempo o una malattia. Ci sono e basta: l’unica cosa certa è che noi non ne abbiamo colpa. Anche per spiegare (si fa per dire) i risultati delle ultime elezioni europee, in specie la rovinosa sconfitta della socialdemocrazia, si invocano adesso di nuovo i malefici effetti dell’ «euroscetticismo» e del «populismo». E’ giunta dunque l’ora di cercare di capire cosa si nasconda davvero dietro queste due parole. In realtà esse alludono, sia pure inconsapevolmente e travisandone grossolanamente il senso, a una drammatica cesura in atto nello scenario storico europeo. Sotto i nostri occhi finisce oggi, infatti, l’epoca apertasi nel 1945. Sono scomparsi o sono in crisi i meccanismi di legittimazione con cui i gruppi dirigenti socialisti e cristiani si affacciarono sulla scena del dopoguerra e costruirono la loro egemonia. Poniamo mente a qualche dato di fatto: da un lato è cessata la possibilità di lucrare sulla guerra fredda; dall’altro il carattere ormai problematico del rapporto con gli Stati Uniti, insieme al ritorno in gioco delle nazioni della parte orientale del continente, aprono un drammatico interrogativo epocale sul significato e sul futuro geopolitico dell’Europa; dal canto suo il Welfare State è ormai improponibile perlomeno nelle forme sin qui sperimentate, mentre dappertutto le economie europee sono afflitte da gravi problemi di tenuta e di competitività; contemporaneamente, su un altro fronte non meno importante, secolarizzazione e immigrazione vanno interpellando in modo radicale forme e contenuti delle nostre identità collettive. A un tale enorme ammasso di problemi le culture politiche e i gruppi sociali fin qui egemoni in Europa non si sono mostrati in grado di dare la minima risposta. Anzi hanno spesso cercato di negarli. Il loro armamentario intellettuale è apparso desolantemente vuoto, e proprio questa assenza ha reso sempre più evidente la prevalenza nelle classi dirigenti del continente di un carattere progressivamente asfittico, autoreferenziale, e alla fine oligarchico; ha sottolineato la loro perdita di rapporto con la realtà. Ciò riguarda non solo le élites politiche. Riguarda in eguale misura tutte le élites delle società europee (economiche, intellettuali, burocratiche), via via convertite tutte allo stesso modo, nell’azione sociale, a una miscela di mercato e di tassazione, di assistenzialismo e di meritocrazia, senza mai nessuna scelta coraggiosa, innovativa. Così come tutte si sono allo stesso modo accomodate culturalmente in un pensiero unico fatto di cautela, di misurata scaltrezza, di equilibrismi convenzionali, all’insegna di un’ossessiva banalità democratica, di un universalismo culturale che è solo tiepidezza, di un relativismo etico dominato da «ascolti» e «dialoghi». Ma dietro questo melting pot ideologico delle società europee le opinioni pubbliche non faticano a indovinare sempre più spesso il nulla. Il nulla e l’opportunismo. Questa sensazione di un nulla impastato di opportunismo che ormai di fatto domina l’azione dei partiti e l’intera sfera sociale è ciò che sta producendo un sentimento oscuro ma profondo di disistima e di ribellione, di delegittimazione, verso tutte le élites dominanti in Europa a partire dal ’45. Soprattutto di quelle di sinistra, come è ovvio, dal momento che proprio la sinistra è tradizionalmente ancora considerata da molti, nel nostro universo politico-simbolico, come l’ambito elettivo di personalità, progetti e valori «veri». È proprio questo, invece, che appare sempre più dubbio. Perché infatti un elettore di sinistra dovrebbe dare fiducia alla socialdemocrazia quando vede uno dei suoi più illustri esponenti storici, l’ex cancelliere Schröder, trasformarsi, nel più totale silenzio dei suoi ex compagni, in un danaroso procacciatore d’affari al servizio dello zar di tutte le Russie? E tanto per restare in Germania, perché mai un elettore del vecchio continente non dovrebbe diventare euroscettico vedendo – pure questa volta senza che nessuno abbia nulla da ridire – la signora Merkel preferire che la Opel vada a finire in mani russe (ancora!) e canadesi, anziché in quelle della Fiat?
Negli ultimi anni le classi dirigenti europee hanno usato e abusato di due termini-chiave per giustificare le loro sempre più evidenti difficoltà nella raccolta del consenso: «euroscetticismo» e «populismo». Il significato dei due termini, adoperati spesso insieme, è incerto. Ciò che invece si capisce subito è a che cosa serve il loro uso così insistito: ad assolvere preliminarmente le suddette classi dirigenti da ogni colpa o difetto, nonché ad esimerle da ogni esame spregiudicato della realtà. Dire «euroscetticismo» e «populismo» è come dire il maltempo o una malattia. Ci sono e basta: l’unica cosa certa è che noi non ne abbiamo colpa. Anche per spiegare (si fa per dire) i risultati delle ultime elezioni europee, in specie la rovinosa sconfitta della socialdemocrazia, si invocano adesso di nuovo i malefici effetti dell’ «euroscetticismo» e del «populismo». E’ giunta dunque l’ora di cercare di capire cosa si nasconda davvero dietro queste due parole. In realtà esse alludono, sia pure inconsapevolmente e travisandone grossolanamente il senso, a una drammatica cesura in atto nello scenario storico europeo. Sotto i nostri occhi finisce oggi, infatti, l’epoca apertasi nel 1945. Sono scomparsi o sono in crisi i meccanismi di legittimazione con cui i gruppi dirigenti socialisti e cristiani si affacciarono sulla scena del dopoguerra e costruirono la loro egemonia. Poniamo mente a qualche dato di fatto: da un lato è cessata la possibilità di lucrare sulla guerra fredda; dall’altro il carattere ormai problematico del rapporto con gli Stati Uniti, insieme al ritorno in gioco delle nazioni della parte orientale del continente, aprono un drammatico interrogativo epocale sul significato e sul futuro geopolitico dell’Europa; dal canto suo il Welfare State è ormai improponibile perlomeno nelle forme sin qui sperimentate, mentre dappertutto le economie europee sono afflitte da gravi problemi di tenuta e di competitività; contemporaneamente, su un altro fronte non meno importante, secolarizzazione e immigrazione vanno interpellando in modo radicale forme e contenuti delle nostre identità collettive. A un tale enorme ammasso di problemi le culture politiche e i gruppi sociali fin qui egemoni in Europa non si sono mostrati in grado di dare la minima risposta. Anzi hanno spesso cercato di negarli. Il loro armamentario intellettuale è apparso desolantemente vuoto, e proprio questa assenza ha reso sempre più evidente la prevalenza nelle classi dirigenti del continente di un carattere progressivamente asfittico, autoreferenziale, e alla fine oligarchico; ha sottolineato la loro perdita di rapporto con la realtà. Ciò riguarda non solo le élites politiche. Riguarda in eguale misura tutte le élites delle società europee (economiche, intellettuali, burocratiche), via via convertite tutte allo stesso modo, nell’azione sociale, a una miscela di mercato e di tassazione, di assistenzialismo e di meritocrazia, senza mai nessuna scelta coraggiosa, innovativa. Così come tutte si sono allo stesso modo accomodate culturalmente in un pensiero unico fatto di cautela, di misurata scaltrezza, di equilibrismi convenzionali, all’insegna di un’ossessiva banalità democratica, di un universalismo culturale che è solo tiepidezza, di un relativismo etico dominato da «ascolti» e «dialoghi». Ma dietro questo melting pot ideologico delle società europee le opinioni pubbliche non faticano a indovinare sempre più spesso il nulla. Il nulla e l’opportunismo. Questa sensazione di un nulla impastato di opportunismo che ormai di fatto domina l’azione dei partiti e l’intera sfera sociale è ciò che sta producendo un sentimento oscuro ma profondo di disistima e di ribellione, di delegittimazione, verso tutte le élites dominanti in Europa a partire dal ’45. Soprattutto di quelle di sinistra, come è ovvio, dal momento che proprio la sinistra è tradizionalmente ancora considerata da molti, nel nostro universo politico-simbolico, come l’ambito elettivo di personalità, progetti e valori «veri». È proprio questo, invece, che appare sempre più dubbio. Perché infatti un elettore di sinistra dovrebbe dare fiducia alla socialdemocrazia quando vede uno dei suoi più illustri esponenti storici, l’ex cancelliere Schröder, trasformarsi, nel più totale silenzio dei suoi ex compagni, in un danaroso procacciatore d’affari al servizio dello zar di tutte le Russie? E tanto per restare in Germania, perché mai un elettore del vecchio continente non dovrebbe diventare euroscettico vedendo – pure questa volta senza che nessuno abbia nulla da ridire – la signora Merkel preferire che la Opel vada a finire in mani russe (ancora!) e canadesi, anziché in quelle della Fiat?
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