La madonna nera di Tripoli, alias Muammar Gheddafi, è apparsa ieri a Roma. Dal presidente della Repubblica agli accademici, passando per i ministri e gli imprenditori, tutti si sono messi in fila per ottenere le grazie del dittatore della "Grande Jamahiriyya Araba Libica Popolare e Socialista". Unica eccezione il Senato, dove i capigruppo hanno cambiato in corsa il programma odierno. Hanno capito che far parlare l’imbarazzante colonnello nell’aula di palazzo Madama sarebbe stato un regalo eccessivo. Un po’ perché il rais nemmeno sa cosa siano democrazia e Parlamento. Un po’ perché il personaggio si è presentato nella capitale con l’aria di chi ha vinto una battaglia durata più di sessant’anni e con l’intenzione di rinfacciarci il nostro passato colonialista, testimoniata dalla foto dell’eroe nazionale anti-italiano, Omar al-Mukhtar, appiccicata sull’uniforme militare. Sarebbe stato antipatico vedere l’Italia messa sotto processo in un’aula del nostro Parlamento, per di più da un personaggio simile. E il rischio c’era. Per salvare capra e cavoli, gli si farà tenere il suo concione nella sala Zuccari, di solito riservata alle conferenze. Fa sempre parte del Senato, ma l’edificio è un altro. Qualunque cosa accada, l’emiciclo è salvo. E con esso l’orgoglio. Per il resto, è una gara a chi si esibisce nel miglior salamelecco. Ieri l’ex sponsor del terrorismo internazionale è stato ricevuto in pompa magna al Quirinale da Giorgio Napolitano. Poi ha visto Silvio Berlusconi a palazzo Chigi e quindi ha partecipato alla cena offerta dal premier a villa Madama. Oggi, dopo aver parlato ai senatori, sarà ospite d’onore alla Sapienza. Quindi, ricevimento in Campidoglio con il sindaco di Roma. E domani il programma prevede che incontri i vertici di Confindustria, un migliaio di «rappresentanti femminili delle istituzioni e della società civile» e infine il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Nessuno vuole perdersi un giro di valzer con il nuovo migliore amico dell’Italia. Le motivazioni ufficiali sono nobilissime e politicamente molto corrette: sul tavolo c’è nientemeno che la riconciliazione definitiva con la nostra ex colonia e l’abiura solenne delle conquiste fasciste davanti agli occhi del mondo. Come sempre in questi casi, però, le ragioni vere sono altre: Gheddafi è nei nostri cuori perché ha la mano destra sul rubinetto degli idrocarburi e la mano sinistra sul rubinetto degli immigrati. E per aprire il primo e chiudere il secondo si fa pagare a caro prezzo. Insomma, ci tiene metaforicamente per gli attributi. Lui lo sa. E, da quel bravo mercante beduino che è, non perde occasione per ricordarcelo e per far leva sui sensi di colpa di noialtri occidentali, inorriditi dal nostro passato. Sgradevole, certo. Ma in certi casi basta un poco di petrolio e la pillola va giù. Figuriamoci se il petrolio è tanto. E la Libia, guarda caso, oggi è il paese dal quale importiamo più greggio: a Tripoli dobbiamo il trenta per cento del nostro fabbisogno. E dal 2004, quando è entrato in funzione il gasdotto Green Stream, Gheddafi è diventato anche nostro fornitore di metano. Oggi è il terzo, dopo Algeria e Russia: il 12,5 per cento delle nostre importazioni di gas proviene dai suoi territori. Il secondo flusso, quello dei disperati che da tutta l’Africa arrivano nella terra di Gheddafi in cerca di un passaggio verso le coste italiane, ormai è politicamente importante quasi quanto il primo. Il leader libico ha giocato con il freno e l’acceleratore, chiudendo gli occhi sul traffico dei clandestini ogni volta in cui ha ritenuto necessario dare un segnale all’Italia. Alla fine, in cambio della sua collaborazione, è riuscito a ottenere ciò che voleva: un "trattato d’amicizia", siglato a Bengasi nell’agosto dello scorso anno, che in realtà è un vero e proprio trattato d’affari che consegna alla Libia cinque miliardi di dollari dei contribuenti italiani per i prossimi vent’anni. Soldi che, in teoria, dovrebbero essere usati per dotare il suo Paese di quelle infrastrutture che, a causa dei perfidi colonialisti italiani, non ha mai avuto (così almeno vuole la vulgata terzomondista, secondo la quale se non ci fosse stato il maresciallo Rodolfo Graziani la Libia sarebbe oggi una specie di Svizzera). La speranza degli imprenditori è che le commesse per la realizzazione di tali opere siano affidate alle nostre aziende. Questo giustifica il prostrarsi del malridotto capitalismo tricolore davanti al colonnello. Il resto si spiega con la liquidità in mano ai fondi sovrani libici, accreditati di un patrimonio cash di cento miliardi di dollari: in tempo di crisi, chi cerca investitori deve bussare col piattino in mano ai titolari delle rendite petrolifere e metanifere. E se sono la feccia della comunità internazionale, pazienza: pecunia non olet.
giovedì 11 giugno 2009
La riflessione (2)
Tutti in ginocchio da Gheddafi di Fausto Carioti
La madonna nera di Tripoli, alias Muammar Gheddafi, è apparsa ieri a Roma. Dal presidente della Repubblica agli accademici, passando per i ministri e gli imprenditori, tutti si sono messi in fila per ottenere le grazie del dittatore della "Grande Jamahiriyya Araba Libica Popolare e Socialista". Unica eccezione il Senato, dove i capigruppo hanno cambiato in corsa il programma odierno. Hanno capito che far parlare l’imbarazzante colonnello nell’aula di palazzo Madama sarebbe stato un regalo eccessivo. Un po’ perché il rais nemmeno sa cosa siano democrazia e Parlamento. Un po’ perché il personaggio si è presentato nella capitale con l’aria di chi ha vinto una battaglia durata più di sessant’anni e con l’intenzione di rinfacciarci il nostro passato colonialista, testimoniata dalla foto dell’eroe nazionale anti-italiano, Omar al-Mukhtar, appiccicata sull’uniforme militare. Sarebbe stato antipatico vedere l’Italia messa sotto processo in un’aula del nostro Parlamento, per di più da un personaggio simile. E il rischio c’era. Per salvare capra e cavoli, gli si farà tenere il suo concione nella sala Zuccari, di solito riservata alle conferenze. Fa sempre parte del Senato, ma l’edificio è un altro. Qualunque cosa accada, l’emiciclo è salvo. E con esso l’orgoglio. Per il resto, è una gara a chi si esibisce nel miglior salamelecco. Ieri l’ex sponsor del terrorismo internazionale è stato ricevuto in pompa magna al Quirinale da Giorgio Napolitano. Poi ha visto Silvio Berlusconi a palazzo Chigi e quindi ha partecipato alla cena offerta dal premier a villa Madama. Oggi, dopo aver parlato ai senatori, sarà ospite d’onore alla Sapienza. Quindi, ricevimento in Campidoglio con il sindaco di Roma. E domani il programma prevede che incontri i vertici di Confindustria, un migliaio di «rappresentanti femminili delle istituzioni e della società civile» e infine il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Nessuno vuole perdersi un giro di valzer con il nuovo migliore amico dell’Italia. Le motivazioni ufficiali sono nobilissime e politicamente molto corrette: sul tavolo c’è nientemeno che la riconciliazione definitiva con la nostra ex colonia e l’abiura solenne delle conquiste fasciste davanti agli occhi del mondo. Come sempre in questi casi, però, le ragioni vere sono altre: Gheddafi è nei nostri cuori perché ha la mano destra sul rubinetto degli idrocarburi e la mano sinistra sul rubinetto degli immigrati. E per aprire il primo e chiudere il secondo si fa pagare a caro prezzo. Insomma, ci tiene metaforicamente per gli attributi. Lui lo sa. E, da quel bravo mercante beduino che è, non perde occasione per ricordarcelo e per far leva sui sensi di colpa di noialtri occidentali, inorriditi dal nostro passato. Sgradevole, certo. Ma in certi casi basta un poco di petrolio e la pillola va giù. Figuriamoci se il petrolio è tanto. E la Libia, guarda caso, oggi è il paese dal quale importiamo più greggio: a Tripoli dobbiamo il trenta per cento del nostro fabbisogno. E dal 2004, quando è entrato in funzione il gasdotto Green Stream, Gheddafi è diventato anche nostro fornitore di metano. Oggi è il terzo, dopo Algeria e Russia: il 12,5 per cento delle nostre importazioni di gas proviene dai suoi territori. Il secondo flusso, quello dei disperati che da tutta l’Africa arrivano nella terra di Gheddafi in cerca di un passaggio verso le coste italiane, ormai è politicamente importante quasi quanto il primo. Il leader libico ha giocato con il freno e l’acceleratore, chiudendo gli occhi sul traffico dei clandestini ogni volta in cui ha ritenuto necessario dare un segnale all’Italia. Alla fine, in cambio della sua collaborazione, è riuscito a ottenere ciò che voleva: un "trattato d’amicizia", siglato a Bengasi nell’agosto dello scorso anno, che in realtà è un vero e proprio trattato d’affari che consegna alla Libia cinque miliardi di dollari dei contribuenti italiani per i prossimi vent’anni. Soldi che, in teoria, dovrebbero essere usati per dotare il suo Paese di quelle infrastrutture che, a causa dei perfidi colonialisti italiani, non ha mai avuto (così almeno vuole la vulgata terzomondista, secondo la quale se non ci fosse stato il maresciallo Rodolfo Graziani la Libia sarebbe oggi una specie di Svizzera). La speranza degli imprenditori è che le commesse per la realizzazione di tali opere siano affidate alle nostre aziende. Questo giustifica il prostrarsi del malridotto capitalismo tricolore davanti al colonnello. Il resto si spiega con la liquidità in mano ai fondi sovrani libici, accreditati di un patrimonio cash di cento miliardi di dollari: in tempo di crisi, chi cerca investitori deve bussare col piattino in mano ai titolari delle rendite petrolifere e metanifere. E se sono la feccia della comunità internazionale, pazienza: pecunia non olet.
La madonna nera di Tripoli, alias Muammar Gheddafi, è apparsa ieri a Roma. Dal presidente della Repubblica agli accademici, passando per i ministri e gli imprenditori, tutti si sono messi in fila per ottenere le grazie del dittatore della "Grande Jamahiriyya Araba Libica Popolare e Socialista". Unica eccezione il Senato, dove i capigruppo hanno cambiato in corsa il programma odierno. Hanno capito che far parlare l’imbarazzante colonnello nell’aula di palazzo Madama sarebbe stato un regalo eccessivo. Un po’ perché il rais nemmeno sa cosa siano democrazia e Parlamento. Un po’ perché il personaggio si è presentato nella capitale con l’aria di chi ha vinto una battaglia durata più di sessant’anni e con l’intenzione di rinfacciarci il nostro passato colonialista, testimoniata dalla foto dell’eroe nazionale anti-italiano, Omar al-Mukhtar, appiccicata sull’uniforme militare. Sarebbe stato antipatico vedere l’Italia messa sotto processo in un’aula del nostro Parlamento, per di più da un personaggio simile. E il rischio c’era. Per salvare capra e cavoli, gli si farà tenere il suo concione nella sala Zuccari, di solito riservata alle conferenze. Fa sempre parte del Senato, ma l’edificio è un altro. Qualunque cosa accada, l’emiciclo è salvo. E con esso l’orgoglio. Per il resto, è una gara a chi si esibisce nel miglior salamelecco. Ieri l’ex sponsor del terrorismo internazionale è stato ricevuto in pompa magna al Quirinale da Giorgio Napolitano. Poi ha visto Silvio Berlusconi a palazzo Chigi e quindi ha partecipato alla cena offerta dal premier a villa Madama. Oggi, dopo aver parlato ai senatori, sarà ospite d’onore alla Sapienza. Quindi, ricevimento in Campidoglio con il sindaco di Roma. E domani il programma prevede che incontri i vertici di Confindustria, un migliaio di «rappresentanti femminili delle istituzioni e della società civile» e infine il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Nessuno vuole perdersi un giro di valzer con il nuovo migliore amico dell’Italia. Le motivazioni ufficiali sono nobilissime e politicamente molto corrette: sul tavolo c’è nientemeno che la riconciliazione definitiva con la nostra ex colonia e l’abiura solenne delle conquiste fasciste davanti agli occhi del mondo. Come sempre in questi casi, però, le ragioni vere sono altre: Gheddafi è nei nostri cuori perché ha la mano destra sul rubinetto degli idrocarburi e la mano sinistra sul rubinetto degli immigrati. E per aprire il primo e chiudere il secondo si fa pagare a caro prezzo. Insomma, ci tiene metaforicamente per gli attributi. Lui lo sa. E, da quel bravo mercante beduino che è, non perde occasione per ricordarcelo e per far leva sui sensi di colpa di noialtri occidentali, inorriditi dal nostro passato. Sgradevole, certo. Ma in certi casi basta un poco di petrolio e la pillola va giù. Figuriamoci se il petrolio è tanto. E la Libia, guarda caso, oggi è il paese dal quale importiamo più greggio: a Tripoli dobbiamo il trenta per cento del nostro fabbisogno. E dal 2004, quando è entrato in funzione il gasdotto Green Stream, Gheddafi è diventato anche nostro fornitore di metano. Oggi è il terzo, dopo Algeria e Russia: il 12,5 per cento delle nostre importazioni di gas proviene dai suoi territori. Il secondo flusso, quello dei disperati che da tutta l’Africa arrivano nella terra di Gheddafi in cerca di un passaggio verso le coste italiane, ormai è politicamente importante quasi quanto il primo. Il leader libico ha giocato con il freno e l’acceleratore, chiudendo gli occhi sul traffico dei clandestini ogni volta in cui ha ritenuto necessario dare un segnale all’Italia. Alla fine, in cambio della sua collaborazione, è riuscito a ottenere ciò che voleva: un "trattato d’amicizia", siglato a Bengasi nell’agosto dello scorso anno, che in realtà è un vero e proprio trattato d’affari che consegna alla Libia cinque miliardi di dollari dei contribuenti italiani per i prossimi vent’anni. Soldi che, in teoria, dovrebbero essere usati per dotare il suo Paese di quelle infrastrutture che, a causa dei perfidi colonialisti italiani, non ha mai avuto (così almeno vuole la vulgata terzomondista, secondo la quale se non ci fosse stato il maresciallo Rodolfo Graziani la Libia sarebbe oggi una specie di Svizzera). La speranza degli imprenditori è che le commesse per la realizzazione di tali opere siano affidate alle nostre aziende. Questo giustifica il prostrarsi del malridotto capitalismo tricolore davanti al colonnello. Il resto si spiega con la liquidità in mano ai fondi sovrani libici, accreditati di un patrimonio cash di cento miliardi di dollari: in tempo di crisi, chi cerca investitori deve bussare col piattino in mano ai titolari delle rendite petrolifere e metanifere. E se sono la feccia della comunità internazionale, pazienza: pecunia non olet.
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