mercoledì 24 giugno 2009

Pd

Il Pd al bivio. L’inversione di tendenza che non c’è. La tentazione di tornare alle alleanze

Afferma Dario Franceschini che d’ora in avanti il Pd può lavorare con serenità al proprio futuro perché i ballottaggi segnalano, finalmente, un’«inversione di tendenza». Non è per fare i guastafeste. Ma un simile giudizio non è solo troppo ottimistico. È sbagliato. E, a prenderlo alla lettera, anche pericoloso. Intendiamoci. Questo voto — come quello per il Parlamen­to europeo, e assai più di quello per il pri­mo turno delle amministrative — dimostra che anche il centrodestra (un centrodestra che pure ha messo le sue radici in molte re­altà locali dove tradizionalmente era assen­te o balbettava) incontra le sue difficoltà, maggiori di quanto si potesse ritenere alla vigilia: e la più grave tra queste risiede sen­za dubbio nell’appannamento, chiamiamo­lo così, del profilo del suo leader, sin qui in­discusso e indiscutibile. Si capisce bene, dunque, perché il segretario del Pd tira un sospiro di sollievo. Il suo partito non è usci­to schiantato dalla prova, come molti teme­vano, anzi, ha dato persino qualche segno di imprevista vitalità; e l’avversario ha gua­dagnato sì una quantità di comuni e di pro­vince, ma ha perso qualcosa di quell’aura di invincibilità che lo circondava e gettava l’opposizione in uno stato di frustrazione al­meno all’apparenza inguaribile. In molti ca­si (non in tutti) il Pd e i suoi partner sono riusciti a rimobilitare per il secondo turno il proprio elettorato più e meglio di quanto sia riuscito a farlo il centrodestra: anche questo è un segnale, e per nulla scontato. Qualcosa si muove. Viste le condizioni di partenza, e le aspettative diffuse nell’uno e nell’altro fronte, non è poco. Fare ricorso al lessico politico della nostra giovinezza per parlare di «inversione di tendenza», però, è onestamente un po’ troppo. Sempre che, si capisce, per «inversione di tendenza» si intenda, oggi come allora, un mutamento percettibile negli orientamenti di fondo del Paese; l’incrinarsi di un’egemonia; uno spo­stamento da un campo all’altro di forze e di voti, ancora limitato sì, ma comunque visi­bile ad occhio nudo; un accenno di cambia­mento del clima politico. Di tutto questo, spiace doverlo ricordare a Franceschini, non c’è ancora traccia. E anzi ci sono indizi pesanti che continuano a parlare in senso contrario, e si chiamano, tanto per fare de­gli esempi, Sassuolo, Orvieto o Prato, città in cui fino a qualche tempo fa non si sape­va esattamente che cosa fosse la destra e che adesso dalla destra sono governate. Fossimo nei panni del segretario del Pd, lasceremmo perdere le inversioni di tenden­za. E prenderemmo atto della realtà: i ballot­taggi sottolineano, come è ovvio, che la par­tita politica non è ufficialmente riaperta, ma ci dicono pure (ecco la novità) che non è neanche irrimediabilmente chiusa come si poteva pensare e come, in effetti, un po’ tutti pensavano. Cercare di riaprirla agli oc­chi dell’opinione pubblica e degli elettori, provandosi a dimostrare che un cambia­mento è nello stesso tempo possibile e au­spicabile, spetta in tutta evidenza all’opposi­zione, e in primo luogo al Partito democrati­co. Ieri, nonostante il parere contrario di Sergio Chiamparino, il Pd ha confermato che rispetterà i tempi previsti dal suo statu­to, e in autunno terrà congresso e primarie. Benissimo. Tutto sta a vedere quale congres­so e quali primarie i democratici vorranno e sapranno fare. Non sappiamo se il Pd colti­vi ancora una sua (indimostrata e indimo­strabile) vocazione maggioritaria o stia per cominciare a ragionare di nuovo in termini di alleanze: questo dovrebbe dircelo, se ci sarà, quello che un tempo si chiamava il di­battito congressuale. Ma in ogni caso a un grande partito di opposizione che si candi­da a governare non si chiede di chiudersi in se stesso smontando e rimontando alleanze interne più o meno sotterranee, più o meno trasversali, per meglio giocare al totosegre­tario. Si chiede prima di tutto di indicare un’idea di Italia un programma e un leader che questo Paese domani possa governarlo, considerando che stavolta ben difficilmen­te potrà essere Romano Prodi a cavare le ca­stagne dal fuoco. È a dir poco dubbio che il Pd possa accingersi a una simile impresa. Ma, se non è in grado neanche di provarci, farebbe meglio a prendere atto che il proget­to non tiene, e cercare altre strade.

Paolo Franchi

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