Afferma Dario Franceschini che d’ora in avanti il Pd può lavorare con serenità al proprio futuro perché i ballottaggi segnalano, finalmente, un’«inversione di tendenza». Non è per fare i guastafeste. Ma un simile giudizio non è solo troppo ottimistico. È sbagliato. E, a prenderlo alla lettera, anche pericoloso. Intendiamoci. Questo voto — come quello per il Parlamento europeo, e assai più di quello per il primo turno delle amministrative — dimostra che anche il centrodestra (un centrodestra che pure ha messo le sue radici in molte realtà locali dove tradizionalmente era assente o balbettava) incontra le sue difficoltà, maggiori di quanto si potesse ritenere alla vigilia: e la più grave tra queste risiede senza dubbio nell’appannamento, chiamiamolo così, del profilo del suo leader, sin qui indiscusso e indiscutibile. Si capisce bene, dunque, perché il segretario del Pd tira un sospiro di sollievo. Il suo partito non è uscito schiantato dalla prova, come molti temevano, anzi, ha dato persino qualche segno di imprevista vitalità; e l’avversario ha guadagnato sì una quantità di comuni e di province, ma ha perso qualcosa di quell’aura di invincibilità che lo circondava e gettava l’opposizione in uno stato di frustrazione almeno all’apparenza inguaribile. In molti casi (non in tutti) il Pd e i suoi partner sono riusciti a rimobilitare per il secondo turno il proprio elettorato più e meglio di quanto sia riuscito a farlo il centrodestra: anche questo è un segnale, e per nulla scontato. Qualcosa si muove. Viste le condizioni di partenza, e le aspettative diffuse nell’uno e nell’altro fronte, non è poco. Fare ricorso al lessico politico della nostra giovinezza per parlare di «inversione di tendenza», però, è onestamente un po’ troppo. Sempre che, si capisce, per «inversione di tendenza» si intenda, oggi come allora, un mutamento percettibile negli orientamenti di fondo del Paese; l’incrinarsi di un’egemonia; uno spostamento da un campo all’altro di forze e di voti, ancora limitato sì, ma comunque visibile ad occhio nudo; un accenno di cambiamento del clima politico. Di tutto questo, spiace doverlo ricordare a Franceschini, non c’è ancora traccia. E anzi ci sono indizi pesanti che continuano a parlare in senso contrario, e si chiamano, tanto per fare degli esempi, Sassuolo, Orvieto o Prato, città in cui fino a qualche tempo fa non si sapeva esattamente che cosa fosse la destra e che adesso dalla destra sono governate. Fossimo nei panni del segretario del Pd, lasceremmo perdere le inversioni di tendenza. E prenderemmo atto della realtà: i ballottaggi sottolineano, come è ovvio, che la partita politica non è ufficialmente riaperta, ma ci dicono pure (ecco la novità) che non è neanche irrimediabilmente chiusa come si poteva pensare e come, in effetti, un po’ tutti pensavano. Cercare di riaprirla agli occhi dell’opinione pubblica e degli elettori, provandosi a dimostrare che un cambiamento è nello stesso tempo possibile e auspicabile, spetta in tutta evidenza all’opposizione, e in primo luogo al Partito democratico. Ieri, nonostante il parere contrario di Sergio Chiamparino, il Pd ha confermato che rispetterà i tempi previsti dal suo statuto, e in autunno terrà congresso e primarie. Benissimo. Tutto sta a vedere quale congresso e quali primarie i democratici vorranno e sapranno fare. Non sappiamo se il Pd coltivi ancora una sua (indimostrata e indimostrabile) vocazione maggioritaria o stia per cominciare a ragionare di nuovo in termini di alleanze: questo dovrebbe dircelo, se ci sarà, quello che un tempo si chiamava il dibattito congressuale. Ma in ogni caso a un grande partito di opposizione che si candida a governare non si chiede di chiudersi in se stesso smontando e rimontando alleanze interne più o meno sotterranee, più o meno trasversali, per meglio giocare al totosegretario. Si chiede prima di tutto di indicare un’idea di Italia un programma e un leader che questo Paese domani possa governarlo, considerando che stavolta ben difficilmente potrà essere Romano Prodi a cavare le castagne dal fuoco. È a dir poco dubbio che il Pd possa accingersi a una simile impresa. Ma, se non è in grado neanche di provarci, farebbe meglio a prendere atto che il progetto non tiene, e cercare altre strade.
Paolo Franchi
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