Milioni di iraniani invadono le strade delle loro città per sfidare una dittatura teocratica che tra tante 'qualità' si dichiara nemico degli Usa e della tolleranza e delle libertà che essi rappresentano. I manifestanti si battono da soli, ma è lecito che si aspettino un qualche cenno da parte dell'America. E invece cosa hanno udito dal presidente degli Stati Uniti? Silenzio. E anche peggio, se si può. Giorni fa, il presidente ha reso pubblico il suo pensiero a riguardo: “dialogo” continuato con la leadership dei chierici iraniani. Dialogo con un regime che taglia teste, che spara sui manifestanti, che espelle giornalisti, che arresta attivisti. Un impegno, quello statunitense nei confronti dei vertici iraniani, che inevitabilmente gli conferisce anche una certa legittimità, tornati al potere in un processo elettorale che ha avuto inizio con un farsa (solo quattro candidati selezionati su un totale di 476 candidature) e che oggi finisce in aperto broglio elettorale. E poi, dopo aver trattato questa rivoluzione popolare come un inconveniente rispetto ai negoziati sottobanco tra Obama e Khamenei, il presidente ha parlato favorevolmente di una “qualche iniziale reazione da parte del Leader Supremo che avrebbe infine compreso che gli iraniani hanno profonde preoccupazioni circa l'esito delle elezioni”. Da dove incominciamo? Dal 'Leader Supremo'? Da notare l'abietta sollecitudine con la quale il presidente americano conferisce questa onorificenza a un dittatore clericale che non lesina ai suoi tirapiedi – quelli che prendono di mira i manifestanti – qualche prebenda in un distretto elettorale, aggiustamenti che non faranno altro che aumentare la fraudolenza delle elezioni in questione. Inoltre, questa rivoluzione incipiente non ha più nulla a che fare con le elezioni. Obama ha completamente perso di vista il problema. Le elezioni hanno allargato lo spazio politico e messo in condizione l'avverarsi di una scintilla, di un fervore anti-dittatoriale che è rimasto sottotraccia per anni e che attendeva solo il suo momento. Ma sia chiaro: le persone non stanno morendo per strada perché vogliono la riconta di alcune schede nulle nella provincia di Isfahan. Vogliono abbattere una teocrazia tirannica, misogina e corrotta, che si è imposta grazie agli stessi picchiatori col manganello che oggi attaccano i dimostranti. Tutto è iniziato con le frodi elettorali. Ma come tutte le rivoluzioni, le sue origini affondano le proprie radici molto più in profondità. Ciò che è in palio oggi è la intrinseca legittimità di quel regime e, più in generale, il futuro dell'intero Medio Oriente. Questa rivoluzione potrebbe concludersi tanto con una Tienanmen (una “calda” Tienanmen con una massiccia e sanguinosa repressione, oppure con una “fredda” Tienanmen che si avvarrà di una più sottile combinazione di brutalità e cooptazione) oppure con una vera e propria rivoluzione che farebbe crollare la Repubblica islamica. Sia chiaro, quest'ultima possibilità è improbabile ma, per la prima volta da trent'anni a questa parte, non sembra impossibile. Si immaginino per un momento le ripercussioni che l'avverarsi di una tale eventualità comporterebbe. Comporterebbe finalmente l'implosione definitiva del radicalismo islamico, di cui oggi l'Iran non è solo modello e bandiera, ma anche finanziatore e fornitore di armi. Comporterebbe per l'islamismo ciò che il collasso dell'Unione Sovietica rappresentò per il comunismo, ovvero discredito e perdita di spendibilità. Nella regione aprirebbe la strada a una seconda Primavera araba. La prima, quella del 2005 (si ricorderà l'espulsione della Siria dal Libano, le prime elezioni in Iraq e una iniziale liberalizzazione degli Stati del Golfo e dell'Egitto) abortì sotto i colpi di un'aspra controffensiva delle forze reazionarie e repressive, guidate e finanziate dall'Iran. Oggi, con Hezbollah uscito perdente dalle ultime elezioni in Libano e con un Iraq in piena fase di consolidamento delle sue giovani istituzioni democratiche, la caduta della dittatura islamica ingenererebbe un effetto a catena. L'eccezione (Iraq e Libano) diverrebbe regola. E nulla potrebbe impedire un'ondata democratica. La Siria rimarrebbe isolata; Hezbollah e Hamas senza padrone. L'intera traiettoria della regione sarebbe alterata. Tutto rimane incerto, però. Il regime di Khamenei sta valutando l'opportunità di trasformare queste elezioni in una Tienanmen oppure no. E su questo fronte, che posizione assume l'amministrazione Obama? Nessuna. Eccezion fatta per il desiderio che il “vigoroso dibattito” (tanto per ricordare lo sgraziato eufemismo impiegato dal portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs) sulle irregolarità delle elezioni non intralci la via dei negoziati tra Usa e Iran sul dossier del nucleare militare. Anche volendo prendere in considerazione la questione dall'angusto punto di vista del dossier nucleare, il calcolo geopolitico dell'amministrazione è assurdo. Non vi è infatti alcuna possibilità che questi negoziati conducano l'Iran alla denuclearizzazione. Lunedì scorso il presidente Ahmadinejad ha avuto modo di dichiarare ancora un volta che il “dossier nucleare è chiuso, per sempre”. La sola speranza che possa offrire una soluzione alla questione del nucleare è un cambio di regime che (se solo il successore di tale regime fosse malleabile quanto lo furono i predecessori dell'Iran khomeinista) potrebbe determinare tanto una interruzione totale del programma nucleare, quanto una sua gestione in una forma più malleabile e non minacciosa. Questo è il nostro interesse fondamentale. E i nostri valori fondamentali richiedono che l'America stia dalla parte di coloro che manifestano e che si oppongono a un regime che è semplicemente l'antitesi di ciò in cui crediamo. E il nostro presidente che fa? Ha paura di “intromettersi”. Timoroso com'é di prendere posizione tra tagliatori di teste, schiavisti di donne ed esportatori di terrore – da una parte – e la gente nelle strade che anela alla libertà. Un presidente che dichiara di voler restaurare la posizione morale dell'America nel mondo.
Tratto da Washington Post - Traduzione di Edoardo Ferrazzani
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