domenica 14 giugno 2009

Iran e Obama

In Iran il vero sconfitto è Obama

Il presidente Usa sperava di avere come interlocutore una persona diversa da Ahmadinejad. La speranza di una primavera iraniana è durata poco, quanto durano i sogni. E la vittoria di Mah­moud Ahmadinejad, malgrado la delusione e l’inedi­ta protesta antibrogli dei giovani di Teheran, promet­te ora di modificare in profondità l’infuocato panora­ma mediorientale. Per cominciare è opportuno, ora che conosciamo il nome del vincitore, identificare quel­lo del vero perdente. Che non si chiama Hossein Mousavi, bensì Barack Obama. Il presi­dente statunitense, con una scelta a nostro avviso giusta do­po il troppo tempo perso dal­l’incomunicabilità bushiana, ha offerto a Teheran un dialo­go senza precondizioni finaliz­zato al superamento della que­stione nucleare. Il messaggio è stato indirizzato al presidente in carica Ahmadinejad e alla «guida suprema» Khamenei. Ma è evidente che la Casa Bian­ca, pur facendo attenzione a non interferire nella vicenda elettorale iraniana, sperava che dalle urne uscisse un segno di discontinuità. Sperava di avere per contro­parte una persona diversa da Ahmadinejad, magari dura, ma­gari anch’essa favorevole al pro­getto nucleare, ma non mac­chiata dalla negazione dell’Olo­causto e dalle minacce all’esi­stenza dello Stato di Israele. Una persona con la quale fosse più agevole, anche e soprattut­to sul fronte interno america­no, avviare il negoziato appena messo in cantiere. Ora questa speranza è svanita, e se anche Ahmadinejad fosse colto da un improvviso soprassalto di mo­derazione (il che non è probabi­le) il confronto politico con lui appare destinato ad avere vita difficilissima. Così, reale o truccato che sia, il verdetto elettorale iraniano ha le potenzialità necessarie per mettere in crisi il più ambi­zioso e il più coraggioso dei progetti espressi dalla nuova politica estera di Washington. Perdenti sono anche, in pie­no contrasto con la soddisfazio­ne di Hamas e di Hezbollah, gli Stati arabi sunniti. Dall’Egitto all’Arabia Saudita costoro non hanno mai nascosto i loro timo­ri verso la crescente potenza e influenza dell’Iran sciita, e nel­la loro ottica un cambio della guardia a Teheran sarebbe sta­to, se non una polizza di assicu­razione, almeno un forte moti­vo di sollievo. Con Ahmadi­nejad confermato, invece, le pa­ure sono destinate a crescere soprattutto nella cruciale area del Golfo. E non si può esclude­re che esse si traducano in una catastrofica quanto incontrolla­bile proliferazione nucleare. Poi c’è Israele. Comprensibil­mente preoccupato dalle impli­cazioni minacciose del respon­so di Teheran, ma non sconfit­to. Tutt’altro. Gerusalemme ha sempre considerato il dialogo con Teheran una pericolosa opera­zione di facciata. Non ha mai creduto che un progetto nazio­nale strategico come quello nu­cleare potesse dipendere dalla personalità del presidente ira­niano. Non ha mai pensato che si tratti di un programma civile e pacifico, come sostiene an­che Ahmadinejad. Ha invece sempre insistito sul fatto che la minaccia iraniana, intollerabi­le per Israele, riguarda il mon­do intero. Ha messo in conto una certa tensione con il gran­de alleato americano pur di af­fermare che la questione irania­na viene prima di quella palesti­nese e che Teheran va fermata per tempo, con ogni mezzo ne­cessario. Ebbene, la conferma di Mah­moud Ahmadinejad sembra fat­ta su misura per rafforzare le ar­gomentazioni israeliane pro­prio mentre indebolisce quelle di Obama. Anche nell’ipotesi futuribile ma non irrealistica di un ricorso alla forza contro le centrali iraniane, Israele potrà contare sulla complicità ogget­tiva che più gli serve: quella di Ahmadinejad e della sua conti­nuamente ribadita strategia della tensione. Quali seguiti avrà in Iran la protesta senza paura delle po­polazioni urbane meno disere­date? Cosa resterà della stagio­ne polemica e dunque liberta­ria che la società iraniana ha co­nosciuto durante la campagna elettorale? Fino a che punto l’uomo forte Alì Khamenei vor­rà tener a freno Ahmadinejad o imporgli una linea diversa? So­no, questi, interrogativi ai qua­li da domani bisognerà cercare risposta. Quel che sappiamo sin da oggi è che le urne irania­ne, invece di avvicinare una prospettiva di pace, l’hanno al­lontanata.

Franco Venturini

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