sabato 13 giugno 2009

Europa

L'europa e l'astensionismo. Il messaggio del non voto

Una buona regola di sociologia politica sarebbe di guardare all'esito delle elezioni, anche, se non soprattutto, dal lato della società (la struttura), delle scelte degli elettori, invece che solo, come si tende a fare, da quello del potere (la sovrastruttura), dei rapporti di forza che ne scaturiscono. Forse, sia il mondo della politica, sia quello dell'informazione ne capirebbero meglio il senso anche per il futuro. L'astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione. E' un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è rimasto al popolo sovrano. E' in crisi la democrazia rappresentativa. Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a «esercitare» il potere di governare — che rimane formalmente del popolo — ma governino ignorandone la sovranità e le domande. E' — non necessariamente un male — una nuova, e pacifica, forma di rivoluzione; che, però, potrebbe degenerare se la politica non ne tenesse conto. La stragrande maggioranza degli europei non ha ancora capito che cosa sia, e che cosa faccia, l'Europa; gode volentieri, come un fatto acquisito, dei benefici che essa offre — caduta delle frontiere fra un Paese e l'altro, moneta unica che facilita gli scambi e la libertà di movimento, stabilità finanziaria — e soffre, contemporaneamente, di tutto ciò che essa percepisce come un «sistematico abuso della Ragione», quello stesso abuso che ha generato i mostri del XX secolo: vocazione tecnocratica, pianificatoria, dirigista. La cui metafora è la barretta di cioccolato, con la quantità standard di cacao per tutta Europa decisa a Bruxelles. Non sa se l'Europa convenga o no; se sia al servizio della gente o se la gente sia al suo servizio. Nessuno lo dice; non perché sia difficile dirlo, bensì perché — questo pensano molti europei — prevale la retorica di maniera sulle «dure repliche della storia» (le sconfitte di un processo realmente federalista), sul senso comune (la realtà come è, non come si vorrebbe che fosse) e, forse, perché neppure conviene prendere atto che l'«Europa dei popoli» non è nata e, al suo posto, c'è un compromesso fra quella dei governi e l'eurocrazia di Bruxelles. Tutto ciò che vale, in negativo, per l'Europa vale per le situazioni nazionali. Con le sole eccezioni della Grecia e della Slovenia, i partiti socialisti o genericamente collettivisti, statalisti, dirigisti, keynesiani, escono sconfitti dalle elezioni. Eppure, classe politica, intellettuali, media, avevano attribuito al mercato la crisi economica fino al giorno prima, e invocato più Stato; che, poi, nella percezione della gente, che già ne soffre gli eccessi, vorrebbe dire più spesa pubblica, più sprechi, più parassitismo, più privilegi per la classe politica, più tasse. Il popolo si è rivelato più saggio dei suoi governanti. «E' la democrazia, bellezza», direbbe Humphrey Bogart.

di Piero Ostellino

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