lunedì 15 giugno 2009

Obama e il dittatore

In Iran la dittatura ha dimostrato di saper riscuotere consenso, questo è il vero dramma

Tra le tante pessime conseguenze della prepotente vittoria di Mohammed Ahamdinejad in Iran, una delle più gravi è la conferma del sospetto che Barack Obama poco o nulla comprenda di Iran e delle dinamiche interne all’Islam. Il blocco sociale della rivoluzione Khomeinista ha trionfato, una dittatura feroce ha confermato la sua capacità di riscuotere consenso: questa e la tragica notizia che viene da Teheran. Invece, le parole pronunciate dal presidente americano alla vigilia del voto dimostrano invece due ecche incredibili: che non ha la minima idea del contesto iraniano e che non comprende per nulla la natura del regime iraniano. Obama, infatti si è arrischiato in un paragone da dilettante tra le elezioni iraniane e quelle libanesi e ingenuamente ha auspicato che la spinta al cambiamento che si è riflessa nell’appoggio di settori popolari assolutamente minoritari al perdente Moussavi, possa in qualche modo condizionare il vertice iraniano: “Quello che si è verificato in Libano e potrebbe succedere in Iran, dove vedete gente in cerca di nuovi spazi. Non importa chi vincerà in Iran, ma che ci sia stato un intenso dibattito che speriamo contribuisca a portarli in nuove direzioni”. Il trionfo di Ahmadinejiad è invece nel segno esplicito, dichiarato, del rifiuto della mano tesa di Obama e il modo con cui si è imposto – a partire dai più che prevedibili brogli - dimostrano invece esattamente l’opposto: che non era possibile nessuna replica della sconfitta di Hezbollah (provocata dal rifiuto dei cristiani di votare per il suo alleato Aoun, in una dinamica tutta locale) e che l’opposizione iraniana continua ad essere minoritaria e ininfluente. In un quadro che vede, con la riconferma di Ahmadinejad affermarsi l’egemonia assoluta del blocco di pasdaran e clero oltranzista che ha nell’esportazione aggressiva della rivoluzione nel mondo islamico la sua più alta aspirazione. Questo è il nodo che Obama si rifiuta caparbiamente di comprendere anche quando Hamas glielo spiega: “Queste elezioni mostrano un grande sostegno popolare alla politica di sfida di Ahmadinejad e che il suo governo è riuscito a mantenere le speranze del popolo proteggendolo dalle minacce dell'Occidente”. D’altronde, mentre Obama parlava dal Cairo all’Islam la Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, grande sponsor di Ahamadinejad, così lo ha irriso: “In questa regione i popoli odiano profondamente le amministrazioni Usa. Washington offre un sostegno completo all’ usurpatore Israele, si oppone al programma nucleare pacifico di Teheran e compie violenze contro i civili in Iraq e Afghanistan, comportandosi come i terroristi. Ma dove i terroristi uccidono una o due persone, gli Usa ne uccidono 100 o 150, ora vogliono dare una nuova immagine di se stessi. Ma i cambiamenti devono essere nei fatti e non solo a parole. Nemmeno cento discorsi basteranno”. Certo, Obama potrà cullarsi ancora per qualche mese nell’illusione di un dialogo con Ahmadinejad, che è dispostissimo a impaniarlo in quelle trattative estenuanti che già prolunga da anni con i “4 più 1”, ma intanto proseguirà i progetti atomici, e continuerà a destabilizzare ovunque potrà. Infine, il dramma dell’opposizione iraniana: è la terza volta, con Khatami, con Rafsanjani e ora con Moussavi che si schiera compatta dietro… un rappresentante ambiguo del regime stesso, chenon riesce a esprimere una sua leadership antagonista e sempre si butta generosamente, ma senza prospettive, a sostenere un leader che gli è fornito – intelligentemente - dallo stesso establishment per farla sfogare. Leader che – anche quando vince, come vinse Khatami- non crea nessun disturbo. Moussavi ha le mani grondanti di sangue, è stato premier durante le purghe che mandarono al patibolo decine di dirigenti di prima fila e della prima ora della rivoluzione di Khomeini, quando questi decise di sbarazzarsi di Banisadr e di tutti coloro che lavoravano a una società pluralista. Lo sconfitto è un trasformista, non un riformista e mai potrà costruire neanche una speranza sulla sua débacle.

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