giovedì 3 dicembre 2009

Minareti

Il voto sui minareti è 'la dichiarazione d’indipendenza della Svizzera'. Ma per Eurabia è il contrario.

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 03/12/2009, a pag. 12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Ma la religione non c'entra, i minareti sono simboli politici". Dal FOGLIO, a pag. 2, gli articoli di Giulio Meotti e Giorgio Israel titolati "Il voto sui minareti è “la dichiarazione d’indipendenza della Svizzera”" e "Dhimmitudine". La REPUBBLICA, invece, continua la sua difesa accorata dei minareti e della libertà di culto. E' curioso che, gli stessi che difendono con tanta ostinazione i minareti, non abbiano fatto altrettanto con i crocifissi, sempre in nome della libertà di culto, si capisce. Ed è altrettanto curioso che non protestino per l'impossibilità di professare religioni diverse dall'islam in paesi musulmani come il Pakistan, dove i cristiani vengono massacrati nell'indifferenza globale. REPUBBLICA cavalca il tema della libertà universale, ma quella che le interessa è per gli immigrati islamici. La libertà dei cittadini svizzeri di esprimere un parere contrario alla costruzione di nuovi minareti non deve esistere? Ecco gli articoli di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti, Giorgio Israel:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Ma la religione non c'entra, i minareti sono simboli politici"

Per parlare della decisione svizzera di bandire i minareti, innanzitutto avvertirò che nei miei anni come corrispondente da Gerusalemme ogni notte, alle 4, ben prima del gallo, dalla valle sotto casa mia ho dovuto subire il canto del muezzin da una vicina moschea, e non lontano da lui, l’eco di molte altre voci simili. Mai, tuttavia, ho pensato che quel muezzin dovesse star zitto. Nel suo villaggio non canta per farsi sentire anche da me, ma per chiamare i suoi alla preghiera. Questa è libertà religiosa, e Gerusalemme la dà a tutti. Pensare che laggiù cercasse di affermare un messaggio politico oltre che religioso significherebbe andare oltre ciò che è legittimo per una persona democratica, liberale, rispettosa della cultura, della religione altrui. Di fatto l’islamofobia, salvo per alcuni casi patologici, è un’invenzione dell’Onu quando nel 2004 il segretario Kofi Annan la definì ufficialmente causa della frustrazione di molti musulmani, senza dedicare una parola alla jihad che allora impazzava e ad altri immensi problemi. Infatti nella sua maggioranza l’Islam ufficiale, nei suoi luoghi d’origine e all’estero, non ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani, contrapponendovisi con altre come la Dichiarazione del Cairo che afferma «ognuno ha diritto a sostenere ciò che è giusto, e a mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio in conformità con la Sharia islamica». Al fondo della problematica che ha condotto gli svizzeri a rispondere di no a nuovi minareti non c’è una scarso rispetto della libertà religiosa. Non c’è nemmeno la perdita di identità che ora ci fa correre, sbagliando, a chiedere di mettere una croce sulla bandiera. Non c’entra nulla. C’è una quantità di semplici ragioni di diffidenza che impediscono di desiderare l’allargamento dell’Islam. Né si deve immaginare che la scelta inviti i musulmani all’estremismo: ben altre ragioni guidano lo jihadismo, che è nutrito solo da sé stesso, dalla decisione indefettibile di convertire il mondo. Gli svizzeri vedono la TV e si preoccupano: la sharia porta alla pena di morte, all’impiccagione di omosessuali, alla lapidazione. In generale, nei paesi islamici, vige la dittatura, i dissidenti soffrono, muoiono. I cristiani sono perseguitati, gli ebrei poi non se ne parla nemmeno. I gruppi e i Paesi che più forte gridano la loro fede sono anche i più evidenti, e certo sia l’Iran di Ahmadinejad che gli Hezbollah o Hamas o Al Qaida rappresentano modelli negativi, terroristi. Certo, non tutto l’Islam è così. Ma parliamone, esaminando i problemi senza censure con accuse di islamofobia; abbiamo un problema, che lo si risolva guardando negli occhi l’immigrazione islamica, o alla prima occasione la preoccupazione si trasformerà in rifiuto. E non vale a calmare la pubblica opinione l’idea che comunque il vero Islam è altrove rispetto alla jihad: sono pochi e minoritari gli episodi in cui una voce islamica valorosa si levi per garantirci il rispetto della democrazia, della sessualità altrui, dei convertiti, dei dissidenti. La negazione politically correct, quella sì che lascia fiorire la jihad: in Svizzera dopo l’arresto di otto persone sospettate di aver collaborato in alcuni attentati suicidi in Arabia Saudita la reazione del capo di un gruppo musulmano locale, fu che «il problema non è l’aumento dell’integralismo islamico ma l’intensificarsi dell’islamofobia». Anche negli Usa si è ripetuto lo stesso per l’episodio di Fort Hood. È proibito ridere di vignette che parlano dell’Islam, è proibito occuparsi della terrificante oppressione delle donne, è abbietto notare che fra Islam e regimi autoritari sussiste un’evidente identificazione, è orrido sollevare il tema del delitto d’onore, della poligamia che ci trascinano decenni indietro, e soprattutto è generico parlare della jihad, e allora visto che tutto ciò che è concreto è vietato la reazione si concentra sui simboli dell’islam. Esistono milioni di moschee senza minareto nei paesi islamici. Ma se si costruiscono vicino alle chiese, sono generalmente più alti, orgogliosi, potenti. La costruzione del luogo di culto islamico ha in sé una serie di espliciti significati secolari che sempre ribadiscono la santa competizione dell’Islam per conquistare il mondo. Molte moschee sorgono su antichi templi ebraici e cristiani. Una rivolta contro il politically correct sull’Islam può avvenire ovunque, e la molla non sarà l’intolleranza religiosa: non è nostra, né Svizzera, né europea.

Il FOGLIO - Giulio Meotti: "Il voto sui minareti è “la dichiarazione d’indipendenza della Svizzera”"

Roma. Mentre Egemen Bagis, ministro turco per gli Affari europei, invita i musulmani a non depositare più il denaro nei conti correnti in Svizzera, su al Jazeera il predicatore dei Fratelli musulmani Yusuf Qaradawi condanna così il referendum che ha bocciato la costruzione di nuovi minareti nella confederazione elvetica: “E’ razzismo, si tratta della negazione della carta dei diritti dell’uomo, va contro la libertà religiosa e il multiculturalismo”. Intanto si parla già di un impatto negativo sull’export svizzero verso i paesi islamici e sul turismo, che attira molti visitatori dal mondo arabo, specie dal Golfo persico. Il precedente è quello della Danimarca dopo le vignette su Maometto del quotidiano Jyllands-Posten che infiammarono il mondo islamico. Mireille Valette è una storica intellettuale femminista e una celebre studiosa svizzera dalle impeccabili credenziali di sinistra. Un anno fa, scuotendo il dibattito ancora acerbo sui minareti e l’islam, Valette ha pubblicato un libro che ha avuto un enorme successo nel suo paese, dal titolo “Islamofobia o legittima difesa”. Si tratta di micidiale atto d’accusa neoilluminista contro l’islamizzazione dell’Elvezia. “Penso che nessun paese abbia mai avuto la possibilità di esprimersi tramite un voto simile, soltanto in Svizzera si è data alla popolazione la possibilità di farlo”, dice Valette al Foglio. “Nessuno sa cosa succederebbe in altri paesi. Molti svizzeri non hanno votato contro i minareti, ma contro il fondamentalismo islamico che i minareti rappresentano. Nessun partito aveva sostenuto finora questa battaglia contro l’estremismo islamista. In Svizzera c’è un problema di fondamentalismo, anche se i musulmani si integrano molto bene e non c’è alcuna paura dell’altro, come scrivono i giornali in questi giorni. Nessuna violenza o intolleranza ai danni dei musulmani. La Svizzera è all’inizio di un processo di islamizzazione, come Olanda e Inghilterra. Non c’è alcuna discriminazione dei musulmani. Ci sono sempre più donne velate, piscine separate, certificati medici di verginità, poligamia, apostasia, giustificazione della lapidazione, la gente non è cieca e quando le è stata data la possibilità di esprimersi, ha detto no all’islamismo. Qui gli imam ufficiali sono fondamentalisti tranne a Zurigo. Abbiamo voluto dare un limite a tutto questo. Siamo un paese libero e tollerante, abbiamo anche noi gli xenofobi, ma il 57 per cento degli svizzeri che ha votato contro i minareti non è fascista o razzista, siamo soltanto un piccolo paese alle prese con l’islamizzazione. L’élite politica dovrà fare i conti con il problema grazie al referendum. Questo voto è la nostra dichiarazione d’indipendenza”. Valette rigetta l’accusa di islamofobia, che il filosofo inglese Roger Scruton ha paragonato all’accusa di anticomunismo durante la Guerra fredda, una sorta di “caccia alle streghe intellettuale”. “L’islam è oggi parte dell’Europa, ma una visione fondamentalista della religione ha creato una situazione drammatica che sta destabilizzando le democrazie”, dice Valette. “Basta osservare come l’islam sta penetrando nelle istituzioni: preghiere nelle aziende e nelle scuole, cibo speciale nelle mense, rifiuto di corsi e materie scolastiche come letteratura e Olocausto, declino dell’eguaglianza uomo e donna. A Rotterdam ci sono avvocati che si rifiutano di alzarsi di fronte alla corte e nei teatri si riservano posti per sole donne in nome della sharia. La libertà d’espressione sull’islam e i musulmani, per i giornalisti, gli scrittori, gli artisti, i musulmani laici, è oggi in serio pericolo. Questa situazione, associata alla cecità di politica e intellettuale, lascia crescere la destra in Europa”. Valette fa un esempio dell’islamizzazione. “L’imam di Ginevra, Youssef Ibram, ha scritto un libro di fatwe in cui spiega che le donne sono inferiori agli uomini, che le donne devono obbedire ai mariti e che andare in bicicletta mette a rischio la verginità e quindi è proibito. Questa ‘Recueil de fatwas’, per le edizioni Tawid, ha la prefazione di Tariq Ramadan”. E’ l’intellettuale ginevrino, legato ai Fratelli musulmani, che ha accusato la Svizzera di intolleranza e ha riempito anche i giornali italiani di strali sull’islamofobia. “Per me il referendum significa che siamo in grado di porre un freno all’integralismo islamico, di difendere i nostri valori di libertà, specialmente la libertà d’espressione, restando la più antica democrazia europea e un modello per gli altri paesi che vogliono resistere”.

Il FOGLIO - Giorgio Israel: "Dhimmitudine"

La lettura delle dichiarazioni al Foglio di padre Giovanni Sale, redattore della Civiltà Cattolica, desta sconcerto. Se padre Sale si limitasse a dire che il messaggio cristiano non può che essere di amore disinteressato, senza contropartite, per offrire un esempio da seguire, si potrebbe non condividere tale approccio ma non vi sarebbe incoerenza. Il problema nasce quando si debbono fare i conti con il principio di reciprocità auspicato da Benedetto XVI. Qui l’affermazione che tale auspicio non può essere rivolto alle religioni, e quindi non attiene al dialogo interreligioso, bensì attiene alle relazioni tra stati e alla diplomazia, è una piroetta che va contro la logica e il buon senso. Che cosa si vuol dire? Che se nei paesi islamici i cristiani vengono oppressi, se chi legge la Bibbia o porta una croce al collo finisce in galera, se è vietato costruire chiese e sinagoghe, è una questione che deve essere gestita dai governi o magari dall’Onu? E se uno stuolo di musulmani si mette a pregare sul sagrato del duomo di Milano, compiendo quello che, reciprocamente, verrebbe considerato come un indicibile atto di profanazione, chi se ne deve occupare: il governo italiano? “Sarebbe bello che gli stati si accordassero per lasciare piena libertà di espressione a tutti”, ma se non accade non è affare dei religiosi e delle religioni. Nel dialogo interreligioso, dice padre Sale, ci si occupa della vita e della concezione dell’uomo e della persona. In che modo? Come esercizio teorico e accademico? Tra le questioni che riguardano le persone vi è il loro diritto di praticare la propria fede. Se questo tema viene schivato il dialogo interreligioso altro non è che una gigantesca manifestazione di ipocrisia. “Che problema fa un uomo che prega?”. Nessuno, se quest’uomo non impedisce agli altri di pregare, se non manifesta disprezzo per la fede altrui, se non mira a costruire “enclaves” in cui imporre le proprie leggi anche in dispregio di quelle vigenti nella comunità che lo ospita. Viene comunemente considerato un esercizio di razionalità non condannare a priori i comportamenti altrui, bensì innanzitutto approfondirne le cause. E’ singolare che chi pratica, fino all’eccesso, questo approccio lo abbandoni completamente in casi come questo. Dice padre Sale che il voto in Svizzera sembra dettato dalla paura. Appunto. Ma non sarebbe corretto cercare di comprendere le ragioni di questa paura invece di limitarsi a condannarla? Perché mai la comprensione per le ragioni altrui deve valere in un senso soltanto? Non sarebbe il caso di chiedersi – e non dovrebbero chiederselo le comunità musulmane invece di limitarsi a deprecare – se tanti comportamenti e tanti atti concreti non siano all’origine di questa paura e del rifiuto di moltiplicare situazioni come quelle che dilagano in Olanda, in Francia e in Inghilterra? In fin dei conti, malgrado il persistere di sentimenti antisemiti, non risulta che vi sia mai stata opposizione alla costruzione di nuove sinagoghe in Europa, né di chiese cattoliche o protestanti nei paesi a maggioranza religiosa contraria. L’allarme (rinnegato) di Boris Johnson Nel 2005 il deputato britannico Boris Johnson sosteneva che l’introduzione di una legge contro l’odio razziale e religioso avrebbe “implicato obbligatoriamente il divieto di lettura – pubblica o privata – di un gran numero di passaggi del Corano”. Nel 2006 diceva: “Ad ogni lettore non musulmano del Corano l’islamofobia, la paura dell’islam, sembra una reazione naturale e, di fatto, è quel che il testo provoca. Giudicando soltanto sulle sue scritture sacre, per non dire di quel che si predica nelle moschee, l’islam è la religione più viziosamente settaria di tutte per la sua insensibilità verso i non credenti. Come ha dichiarato l’assassino di Theo van Gogh alla madre della sua vittima, questa settimana in un tribunale olandese, egli non poteva preoccuparsi di lei né provare per lei compassione perché non era musulmana”. Come avrebbe votato questo Boris Johnson in Svizzera? Oggi egli è sindaco di Londra e, come tale, è passato da queste dure affermazioni alla richiesta grottesca ai non musulmani di digiunare durante il Ramadan al fine di meglio capire i musulmani. Non si è mai sentito nessuno invitare a digiunare il giorno di Kippur o durante la Quaresima per meglio capire ebrei e cristiani. Altro che reciprocità, qui siamo passati alla più servile dhimmitudine. Come quella di chi, contro il voto svizzero, vuole rivolgersi allo stesso tribunale europeo che ha vietato il crocifisso. A questo andazzo bisognerebbe riflettere, invece di fare piroette concettuali. Bisognerebbe riflettere a quella che Luigi Amicone ha definito “la distanza siderale tra gli ‘illuminati’ e il ‘volgo disperso che nome non ha’”. Prima che arrivino altri risvegli come quelli del voto svizzero, di fronte ai quali sarà derisorio stracciarsi irrazionalmente le vesti.

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