Il discorso è spinoso e, per definizione, “sbagliato”. In una politica avvelenata e faziosa, le parole non hanno mai un significato univoco, anzi non significano nulla, perché quello che conta è cosa c’è “dietro”, a costo di non vedere cosa c’è “davanti”. Quindi, scendere su di un terreno segnato inevitabilmente dall’equivoco è imprudente. Ma forse è anche doveroso, a questo punto. Sulla questione dei mandanti (morali, politici e perfino costituzionali) dell’aggressione al presidente del Consiglio, pensiamo che occorra prudenza, misura e pertinenza, senza nulla concedere al politicamente corretto (Repubblica non è la “libertà di stampa”), ma senza troppo lasciare alla tentazione di fare di tutta l’erba antiberlusconiana un unico fascio “terroristico”. Nella deriva “delegittimista” la sinistra italiana ha perduto il senso delle proprie ragioni e della propria prospettiva politica, ha sprecato miseramente i sette anni di governo che il quindicennio dell’alternanza le ha consegnato, continuando a discutere di cosa facesse Mangano a casa Berlusconi negli anni ‘70, anziché ragionare di cosa avrebbe dovuto fare la coalizione progressista vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Della parabola di una sinistra che ha unito il legalismo ideologico di Di Pietro, il perbenismo costituzionale di Scalfaro e il classismo anti-berlusconiano della sinistra massimalista si può (e, dal nostro punto di vista, si deve) dare un giudizio politico severo. Ma occorre farlo con onestà, senza denunciare nella retorica di questo moralismo resistenziale l’ombra di una violenza predicata come possibile o di una rottura rivoluzionaria indifferente alle forme della legalità repubblicana. All’album di famiglia di questa sinistra anti-berlusconiana che da un quindicennio si trascina nel vuoto fino a fare il vuoto dentro di sé, non appartiene l’immagine della “Resistenza tradita”, né l’illusione della violenza riparatrice. La retorica “armata” non appartiene al repertorio, spesso ignominioso, dell’antiberlusconismo politico e mediatico. Legare con una catena logica contorta gli editoriali di Mauro e di Travaglio ai gesti di Tartaglia e, potenzialmente, a quelli che qualche altro squilibrato o eversore professionale vorrà tentare in futuro, significa accettare che il giudizio su Berlusconi e sul berlusconismo sia legato alle vicende, alle fortune e alle disgrazie dei suoi più accessi avversari politici. Quindi, se succede qualcosa a Fini, la responsabilità morale è di Feltri? E se succede qualcosa a Travaglio, Di Pietro o a Ingroia, non ne avrà forse responsabilità il loro “nemico giurato”? Per tante ragioni, non di stile, ma di sostanza e di coerenza, sarebbe meglio non usare la logica di Travaglio contro Travaglio, il principio del sospetto contro i prìncipi del sospetto, il manganello della deduzione politica contro i manganellatori della deduzione giudiziaria. È opportuno uscire al più presto – con il peso di una maggioranza ampia, di un consenso certo e di una prospettiva lunga – da questa spirale di parole troppo forti e di pensieri troppo deboli.
giovedì 17 dicembre 2009
Perle di farefuturo (2)
Non usiamo la logica di Travaglio contro Travaglio. Quel discorso sbagliato sui mandanti morali di Carmelo Palma
Il discorso è spinoso e, per definizione, “sbagliato”. In una politica avvelenata e faziosa, le parole non hanno mai un significato univoco, anzi non significano nulla, perché quello che conta è cosa c’è “dietro”, a costo di non vedere cosa c’è “davanti”. Quindi, scendere su di un terreno segnato inevitabilmente dall’equivoco è imprudente. Ma forse è anche doveroso, a questo punto. Sulla questione dei mandanti (morali, politici e perfino costituzionali) dell’aggressione al presidente del Consiglio, pensiamo che occorra prudenza, misura e pertinenza, senza nulla concedere al politicamente corretto (Repubblica non è la “libertà di stampa”), ma senza troppo lasciare alla tentazione di fare di tutta l’erba antiberlusconiana un unico fascio “terroristico”. Nella deriva “delegittimista” la sinistra italiana ha perduto il senso delle proprie ragioni e della propria prospettiva politica, ha sprecato miseramente i sette anni di governo che il quindicennio dell’alternanza le ha consegnato, continuando a discutere di cosa facesse Mangano a casa Berlusconi negli anni ‘70, anziché ragionare di cosa avrebbe dovuto fare la coalizione progressista vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Della parabola di una sinistra che ha unito il legalismo ideologico di Di Pietro, il perbenismo costituzionale di Scalfaro e il classismo anti-berlusconiano della sinistra massimalista si può (e, dal nostro punto di vista, si deve) dare un giudizio politico severo. Ma occorre farlo con onestà, senza denunciare nella retorica di questo moralismo resistenziale l’ombra di una violenza predicata come possibile o di una rottura rivoluzionaria indifferente alle forme della legalità repubblicana. All’album di famiglia di questa sinistra anti-berlusconiana che da un quindicennio si trascina nel vuoto fino a fare il vuoto dentro di sé, non appartiene l’immagine della “Resistenza tradita”, né l’illusione della violenza riparatrice. La retorica “armata” non appartiene al repertorio, spesso ignominioso, dell’antiberlusconismo politico e mediatico. Legare con una catena logica contorta gli editoriali di Mauro e di Travaglio ai gesti di Tartaglia e, potenzialmente, a quelli che qualche altro squilibrato o eversore professionale vorrà tentare in futuro, significa accettare che il giudizio su Berlusconi e sul berlusconismo sia legato alle vicende, alle fortune e alle disgrazie dei suoi più accessi avversari politici. Quindi, se succede qualcosa a Fini, la responsabilità morale è di Feltri? E se succede qualcosa a Travaglio, Di Pietro o a Ingroia, non ne avrà forse responsabilità il loro “nemico giurato”? Per tante ragioni, non di stile, ma di sostanza e di coerenza, sarebbe meglio non usare la logica di Travaglio contro Travaglio, il principio del sospetto contro i prìncipi del sospetto, il manganello della deduzione politica contro i manganellatori della deduzione giudiziaria. È opportuno uscire al più presto – con il peso di una maggioranza ampia, di un consenso certo e di una prospettiva lunga – da questa spirale di parole troppo forti e di pensieri troppo deboli.
Il discorso è spinoso e, per definizione, “sbagliato”. In una politica avvelenata e faziosa, le parole non hanno mai un significato univoco, anzi non significano nulla, perché quello che conta è cosa c’è “dietro”, a costo di non vedere cosa c’è “davanti”. Quindi, scendere su di un terreno segnato inevitabilmente dall’equivoco è imprudente. Ma forse è anche doveroso, a questo punto. Sulla questione dei mandanti (morali, politici e perfino costituzionali) dell’aggressione al presidente del Consiglio, pensiamo che occorra prudenza, misura e pertinenza, senza nulla concedere al politicamente corretto (Repubblica non è la “libertà di stampa”), ma senza troppo lasciare alla tentazione di fare di tutta l’erba antiberlusconiana un unico fascio “terroristico”. Nella deriva “delegittimista” la sinistra italiana ha perduto il senso delle proprie ragioni e della propria prospettiva politica, ha sprecato miseramente i sette anni di governo che il quindicennio dell’alternanza le ha consegnato, continuando a discutere di cosa facesse Mangano a casa Berlusconi negli anni ‘70, anziché ragionare di cosa avrebbe dovuto fare la coalizione progressista vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Della parabola di una sinistra che ha unito il legalismo ideologico di Di Pietro, il perbenismo costituzionale di Scalfaro e il classismo anti-berlusconiano della sinistra massimalista si può (e, dal nostro punto di vista, si deve) dare un giudizio politico severo. Ma occorre farlo con onestà, senza denunciare nella retorica di questo moralismo resistenziale l’ombra di una violenza predicata come possibile o di una rottura rivoluzionaria indifferente alle forme della legalità repubblicana. All’album di famiglia di questa sinistra anti-berlusconiana che da un quindicennio si trascina nel vuoto fino a fare il vuoto dentro di sé, non appartiene l’immagine della “Resistenza tradita”, né l’illusione della violenza riparatrice. La retorica “armata” non appartiene al repertorio, spesso ignominioso, dell’antiberlusconismo politico e mediatico. Legare con una catena logica contorta gli editoriali di Mauro e di Travaglio ai gesti di Tartaglia e, potenzialmente, a quelli che qualche altro squilibrato o eversore professionale vorrà tentare in futuro, significa accettare che il giudizio su Berlusconi e sul berlusconismo sia legato alle vicende, alle fortune e alle disgrazie dei suoi più accessi avversari politici. Quindi, se succede qualcosa a Fini, la responsabilità morale è di Feltri? E se succede qualcosa a Travaglio, Di Pietro o a Ingroia, non ne avrà forse responsabilità il loro “nemico giurato”? Per tante ragioni, non di stile, ma di sostanza e di coerenza, sarebbe meglio non usare la logica di Travaglio contro Travaglio, il principio del sospetto contro i prìncipi del sospetto, il manganello della deduzione politica contro i manganellatori della deduzione giudiziaria. È opportuno uscire al più presto – con il peso di una maggioranza ampia, di un consenso certo e di una prospettiva lunga – da questa spirale di parole troppo forti e di pensieri troppo deboli.
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