martedì 8 dicembre 2009

Gli sbagli del vaticano

Il commento. La Chiesa sbaglia, l’accoglienza a ogni costo non è integrazione

La Chiesa si trova oggi in una situazione difficilissima, di cui, però, sembra non rendersi conto. La crisi interna, che ha drasticamente ridotto, a partire dal Concilio Vaticano II in poi, il numero degli appartenenti agli Ordini religiosi, sia uomini che donne, non ha influito soltanto sulle attività immediatamente legate al culto, come per esempio la gestione delle parrocchie; ma ha reso in qualche modo «invisibile» la vita stessa della Chiesa come organismo diverso dal corpo dei fedeli nella sua spiritualità e che un tempo era socialmente fortissimo, con la presenza ovunque dei Francescani, dei Domenicani, dei Cappuccini, dei Salesiani e delle loro opere. Lo scarso clero rimasto dimostra spesso, purtroppo, di essere culturalmente e intellettualmente povero; tanto più povero in quanto, perlomeno in Occidente, o ripete stanche parole di prediche sempre uguali che non servono a nulla; oppure, rinunciando agli argomenti religiosi, si immette nella discussione dei temi del giorno, quelli che tormentano la nostra vita quotidiana e che non possono essere risolti con il semplicismo della carità. Anzi, diciamolo chiaramente: la Chiesa è venuta meno, ormai da diversi anni, al compito della carità, perché questa richiede una profonda visione delle cause della miseria che affligge tante parti del mondo e una severa, chiarissima condanna dei comportamenti che l’hanno provocata e la provocano. La crisi dell’agricoltura in America Latina e in Africa, tanto per fare un solo esempio, è dovuta al liberalismo sfrenato del commercio che ha messo fuori dal giro le produzioni meno pregiate e quegli agricoltori non in grado di affrontare il mercato globale. L’Unione Europea è stata una delle prime cause della fame africana, non appena ha cominciato a stabilire quali dovessero essere le misure della frutta e degli ortaggi per poter accedere ai suoi mercati. Non abbiamo, però, mai sentito la Chiesa alzare neanche una voce di condanna sulle spietate regole del mercato. Le migrazioni dei popoli sono dovute, almeno in parte, proprio alle conseguenze del primato dell’economia su qualsiasi altro valore e c’è soltanto un modo per far sì che milioni di persone non debbano abbandonare il proprio paese riversandosi in Europa: ripristinare i mercati locali, senza costringere i limoni a viaggiare dall’Argentina fino all’Italia, come succede oggi, cosa che servirebbe anche a far diminuire l’inquinamento di cui tanto si parla in questi giorni. Certamente non sono i «preti d’assalto» che possono o sanno riflettere su queste cose; ma la Chiesa si deve convincere che non è con i preti d’assalto che servirà i poveri e, tanto meno, che aumenterà la sua autorità in Occidente. Senza l’Occidente, però, cosa ne sarà della Chiesa? Sono molti i laici, credenti e non credenti, che se lo chiedono con preoccupazione perché vedono sempre più un cristianesimo «morbido», a poco a poco sommerso dall’ebraismo, dall’islamismo, o da quella tolleranza che si vuole far diventare la religione universale. Questa è, infatti, la verità: mischiando i popoli di diverse culture e religioni, si crede di poter giungere ad una coabitazione che scolori le tinte più vivide lasciando alla vista soltanto un comodo grigio. Ma i politici che lo credono, o che fingono di credervi, si sbagliano, così come si sbaglia la Chiesa se spera che un tale atteggiamento possa risparmiare i conflitti lasciando sopravvivere le credenze di tutti. Ne sono una prova evidente proprio quei «rom» che da tanti anni cerchiamo di «sistemare» senza riuscirci. I rom non si sono integrati. La loro «cultura» è morta ormai da moltissimo tempo. Se non ci fosse il «tabù» che vieta di affrontare questa «morte» con il normale buon senso, aiuteremmo davvero i rom inducendoli a riconoscere che vivere su una casa «con le ruote» non significa essere «nomadi», che la cultura «nomade» non ha possibilità di esprimersi fingendo che un accampamento in città sia una tenda nella prateria, che rubare automobili sia prendere al laccio cavalli selvaggi... Fingono loro, pretendendo di «accamparsi» in una metropoli di milioni di abitanti come Milano, e fingiamo noi che sappiamo benissimo che si tratta di una ridicola, ma purtroppo anche tragica, finzione. Come dimostra la polemica di questi giorni fra la Lega e l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, accusato di non difendere il crocifisso e di fare appelli solo per l’accoglienza. Perché la Chiesa, dunque, non aiuta sia loro che noi a vivere nella «verità»? Sarebbe questo il suo compito, perché questa è l’essenza del messaggio di Gesù. Non può esserci carità senza verità.

2 commenti:

demiurgo77 ha detto...

Magnifico articolo: era da tanto che meditavo sugli stessi concetti, partendo dal titolo dell'ultima enciclica caritas in veritate.
Non capisco come mai si invochi la scienza sempre e comunque, tranne quando si tratta di solidarietà e di azioni umanitarie. Il concetto espresso dal sintagma caritas in veritate è sublime, poichè riporta l'uomo nella giusta posizione rispetto alla scienza: il suo fine, non il suo mezzo; suo oggetto di studio per meglio capirne i bisogni, non per sezionarlo clinicamente come un cadavere. E a questo punto la prospettiva si capovolge: una volta capita la necessità di caritas in veritate, è imprescindibile che la scienza, rinnovata nello spirito, si ponga a strumento di sostegno, colonna portante della solidarietà. Veritas in caritate.
Ed ecco come la prospettiva enunciata da Tettamanzi, minimizzando e riducendo le accuse leghiste (grottesche fin che si vuole) ad eresia, perde il proposito di carità, ritorna cieca condanna aprioristica di controriformistica memoria. La rinuncia alla verità è il primo sintomo della malafede: e se è necessario porre carità nella ricerca della verità, un'elisione ideologica della verità nel proclamare la carità è un ossimoro ipocrita. Lo stesso presente nelle dichiarazioni di ieri del presidente della Camera: nel presepe non c'è nemmeno un extracomunitario: di fronte a Cristo nato, al primo annuncio della patria celeste, non c'è straniero. Ma, se è vero che il Suo regno non è di questo mondo (cosa che peraltro non ci esime dal camminare, già ora, sulle vie del Regno), è anche vero che le singole comunità statali e i singoli popoli (il quod Caesaris) hanno dei problemi e dei diritti che non possono essere negati e tacitati da un presbite sentimentalismo culturalmente debole.

Eleonora ha detto...

Chapeau a te.