venerdì 11 dicembre 2009

Punti di vista

"Zerlenga spiega perché vietare i minareti è come (non) farsi una doccia" di Christian Rocca

New York. Del Frisco’s, gran bisteccheria sulla Quarantonevesima strada di Manhattan, all’angolo con la Sesta avenue. Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga, già professore di Storia dell’islam alla New York University e poliedrico operatore culturale della città, ordina un filetto e un’insalata verde e racconta di aver partecipato, sabato scorso, a una manifestazione downtown contro la decisione dell’Amministrazione Obama di processare in una Corte penale federale di New York Khaled Sheik Mohammed, l’architetto degli attacchi islamisti all’America dell’11 settembre. “Eravamo quasi tutti liberal – dice Zerlenga che è democratico da una vita ed è stato elettore, finanziatore e sostenitore di Barack Obama – Ma anche noi liberal non ci vogliamo arrendere al ritorno alla mentalità da 10 settembre. Non siamo tutti come gli editorialisti del New York Times”. Zerlenga ce l’ha con molti, si fa fatica a contenerlo. Si comincia con l’attorney general Eric Holder, l’uomo dell’Amministrazione che ha deciso di processare KSM a New York: “Sono d’accordo con chi, sul palco, lo ha ridicolizzato ricordando le risposte evasive che ha dato al Senato. Com’è possibile che questo sia davvero il nostro attorney general?”. Zerlenga tende a non prendersela troppo con Obama, anche se gli imputa a denti stretti di voler evitare lo scontro diretto con quella che il pensatore newyorchese considera la vera minaccia dell’umanità: l’islam. Al presidente, però, Zerlenga ha scritto una lettera: “Obama dice che bisogna rispettare l’islam. Vorrei sapere che cosa dobbiamo rispettare dell’islam: gli stupri delle bambine? Le teste mozzate? Vorrei saperlo. Dice anche che l’islam vero è un’altra cosa. Ecco dica qual è l’altra cosa”. Il terzo obiettivo polemico di Zerlenga sono i repubblicani, secondo lui anch’essi incapaci di ribellarsi all’imperante ideologia del politicamente corretto sul caso KSM. L’ex vicepresidente Dick Cheney, ovviamente, non sarebbe d’accordo, ma Zerlenga dice che se i repubblicani avessero voluto davvero opporsi alla decisione di processare il capo terrorista con tutti i diritti garantiti al cittadino americano avrebbero potuto chiedere l’impeachment del ministro della Giustizia Holder. Il quarto obiettivo di Zerlenga è, come si può immaginare, il New York Times. Secondo il prof. italo-americano, il giornalone liberal della città nei giorni scorsi ha pubblicato “un editoriale indegno” a commento del referendum svizzero sui minareti. “Sono ignoranti – comincia Zerlenga – non sanno nemmeno che i minareti non sono luoghi di culto, ma le torri da cui il muezzin cinque volte al giorno chiama i fedeli alla preghiera. Sono come i campanili, sono stati copiati dall’impero bizantino. Nessuno ha vietato ai musulmani svizzeri le moschee. E, in ogni caso, le moschee non sono luoghi di culto, sono nate come luoghi sociali dove tra le altre cose si prega. Le moschee non sono come le chiese cristiane, i musulmani possono pregare ovunque, basta che si rivolgano verso la Mecca”. Zerlenga è difficile da contenere su questo tema: “Mia moglie è svizzera e mi racconta che lì, dopo le 10 di sera, è vietato farsi la doccia perché lo scarico dell’acqua disturba gli inquilini del piano di sotto. Gli svizzeri sono fatti così. Vogliono vivere in pace, senza essere disturbati. Il muezzin che canta cinque volte al giorno dà fastidio come la doccia. Non si capisce perché il New York Times inviti sempre a rispettare e comprendere la cultura islamica, ma non gliene freghi niente delle abitudini degli svizzeri”. Senza dimenticare, aggiunge Zerlenga, “che non si può rispettare la democrazia soltanto quando produce risultati politicamente corretti”. Il pensatore newyorchese ricorda, inoltre, che anche in Italia le chiese e i sindaci si mettono d’accordo per non disturbare i cittadini con le campane: “Se uno vuole sapere a che ora c’è la preghiera, accende il computer e lo scopre su Internet. Non c’è bisogno che ce lo ricordi un muezzin, specie se i paesi musulmani non garantiscono la reciprocità. Il New York Times, per esempio, si occupi dei tanti filippini cattolici che lavorano in Arabia Saudita, a cui è impedito pregare”.

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