«Sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto fra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta». È una questione innanzitutto di metodo, quella che - con echi confuciani (“Governare è innanzitutto rettificare le parole”) – pone oggi Benedetto Della Vedova, deputato del Popolo della libertà, sul Secolo d’Italia. Si parla molto di immigrazione, meno di integrazione. Si parla di “emergenza” e mai di “normalità” di un processo storico, geografico, economico e sociale ineludibile. Un dato di fatto da affrontare, più che con grida d’allarme o con tentazioni “protezioniste”, con serietà, moderazione e aderenza alla vera natura delle cose. Un’aderenza che si fa ancora più difficile, nel nostro esagitato dibattito politico, quando dalla gestione dei flussi migratori si passa a parlare di cittadinanza. Ecco che, scrive ancora Della Vedova, «vengono al pettine i nodi, allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un “leghista di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica». E a dar forma alla discussione ci pensa la paura, con tutto ciò che ne consegue. I toni si esasperano, le distanze si fanno inconciliabili, si adottano toni da questione “di vita o di morte”. Tutto viene fagocitato dal problema della “sicurezza in casa nostra”. Servirebbero toni diversi, un pizzico di pragmatismo, e più correttezza. Insomma, il termine giusto è proprio “moralità politica”, per tornare alle parole dell’intervento citato. E poi, dopo il metodo, i contenuti. Che, per quanto ci riguarda, possono e devono essere contenuti “di destra”, senza cedere a complessi di inferiorità (come se ad avere voce in capitolo, quando si tratta di integrazione, potesse essere solo la tradizione “di sinistra”) e senza cedere neanche alla tentazione di dipingersi, in modo caricaturale, seguendo i cliché che vogliono una destra tutta muscoli e difesa intransigente del territorio. Un “discorso di destra”: il che significa «parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile, non contrapponendo a un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico»; significa ritenere la cittadinanza «un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del paese»; significa «ripartire dal “no taxation without representation”»; significa «reagire politicamente e con intransigenza alla sfida dell’integralismo etnicista e religioso». Un percorso necessario per evitare «che gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra», scrive Della Vedova concludendo la sua riflessione. Una road map di metodo e di merito, insomma. Una road map “di destra”, ragionata e ragionevole. Perché quella disconnessione fra un paese reale e i suoi cittadini è ingiusta e sbagliata. E, soprattutto, non possiamo permettercela.
domenica 27 dicembre 2009
Perle di farefuturo
Proposte di metodo e di merito che arrivano dal Pdl. Ma la “vera destra” pensa all'integrazione di Federico Brusadelli
«Sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto fra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta». È una questione innanzitutto di metodo, quella che - con echi confuciani (“Governare è innanzitutto rettificare le parole”) – pone oggi Benedetto Della Vedova, deputato del Popolo della libertà, sul Secolo d’Italia. Si parla molto di immigrazione, meno di integrazione. Si parla di “emergenza” e mai di “normalità” di un processo storico, geografico, economico e sociale ineludibile. Un dato di fatto da affrontare, più che con grida d’allarme o con tentazioni “protezioniste”, con serietà, moderazione e aderenza alla vera natura delle cose. Un’aderenza che si fa ancora più difficile, nel nostro esagitato dibattito politico, quando dalla gestione dei flussi migratori si passa a parlare di cittadinanza. Ecco che, scrive ancora Della Vedova, «vengono al pettine i nodi, allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un “leghista di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica». E a dar forma alla discussione ci pensa la paura, con tutto ciò che ne consegue. I toni si esasperano, le distanze si fanno inconciliabili, si adottano toni da questione “di vita o di morte”. Tutto viene fagocitato dal problema della “sicurezza in casa nostra”. Servirebbero toni diversi, un pizzico di pragmatismo, e più correttezza. Insomma, il termine giusto è proprio “moralità politica”, per tornare alle parole dell’intervento citato. E poi, dopo il metodo, i contenuti. Che, per quanto ci riguarda, possono e devono essere contenuti “di destra”, senza cedere a complessi di inferiorità (come se ad avere voce in capitolo, quando si tratta di integrazione, potesse essere solo la tradizione “di sinistra”) e senza cedere neanche alla tentazione di dipingersi, in modo caricaturale, seguendo i cliché che vogliono una destra tutta muscoli e difesa intransigente del territorio. Un “discorso di destra”: il che significa «parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile, non contrapponendo a un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico»; significa ritenere la cittadinanza «un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del paese»; significa «ripartire dal “no taxation without representation”»; significa «reagire politicamente e con intransigenza alla sfida dell’integralismo etnicista e religioso». Un percorso necessario per evitare «che gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra», scrive Della Vedova concludendo la sua riflessione. Una road map di metodo e di merito, insomma. Una road map “di destra”, ragionata e ragionevole. Perché quella disconnessione fra un paese reale e i suoi cittadini è ingiusta e sbagliata. E, soprattutto, non possiamo permettercela.
«Sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto fra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta». È una questione innanzitutto di metodo, quella che - con echi confuciani (“Governare è innanzitutto rettificare le parole”) – pone oggi Benedetto Della Vedova, deputato del Popolo della libertà, sul Secolo d’Italia. Si parla molto di immigrazione, meno di integrazione. Si parla di “emergenza” e mai di “normalità” di un processo storico, geografico, economico e sociale ineludibile. Un dato di fatto da affrontare, più che con grida d’allarme o con tentazioni “protezioniste”, con serietà, moderazione e aderenza alla vera natura delle cose. Un’aderenza che si fa ancora più difficile, nel nostro esagitato dibattito politico, quando dalla gestione dei flussi migratori si passa a parlare di cittadinanza. Ecco che, scrive ancora Della Vedova, «vengono al pettine i nodi, allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un “leghista di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica». E a dar forma alla discussione ci pensa la paura, con tutto ciò che ne consegue. I toni si esasperano, le distanze si fanno inconciliabili, si adottano toni da questione “di vita o di morte”. Tutto viene fagocitato dal problema della “sicurezza in casa nostra”. Servirebbero toni diversi, un pizzico di pragmatismo, e più correttezza. Insomma, il termine giusto è proprio “moralità politica”, per tornare alle parole dell’intervento citato. E poi, dopo il metodo, i contenuti. Che, per quanto ci riguarda, possono e devono essere contenuti “di destra”, senza cedere a complessi di inferiorità (come se ad avere voce in capitolo, quando si tratta di integrazione, potesse essere solo la tradizione “di sinistra”) e senza cedere neanche alla tentazione di dipingersi, in modo caricaturale, seguendo i cliché che vogliono una destra tutta muscoli e difesa intransigente del territorio. Un “discorso di destra”: il che significa «parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile, non contrapponendo a un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico»; significa ritenere la cittadinanza «un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del paese»; significa «ripartire dal “no taxation without representation”»; significa «reagire politicamente e con intransigenza alla sfida dell’integralismo etnicista e religioso». Un percorso necessario per evitare «che gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra», scrive Della Vedova concludendo la sua riflessione. Una road map di metodo e di merito, insomma. Una road map “di destra”, ragionata e ragionevole. Perché quella disconnessione fra un paese reale e i suoi cittadini è ingiusta e sbagliata. E, soprattutto, non possiamo permettercela.
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