Il risultato del referendum svizzero sui minareti non poteva lasciare indifferente la Germania, un paese che negli ultimi anni ha visto crescere il numero delle nuove moschee in maniera esponenziale, in particolare nel contesto della numerosa comunità turca e in stretta relazione con lo stato guidato dal presidente Abdullah Gül. Su iniziativa di movimenti spontanei di cittadini si sono moltiplicati anche i tentativi di porre argini all’”invasione”, anche nelle dimensioni degli edifici, oltre che nel numero (si vedano i casi più recenti di Colonia e Berlino), ma senza che si siano ottenuti particolari risultati. Nonostante i limiti denunciati da più parti (da ultimo c’ha provato il socialdemocratico Thilo Sarrazin, finendo con l’essere sottoposto ad un vero e proprio linciaggio mediatico) la versione tedesca del “multiculturalismo” continua a tenere banco. Tanto che si è intromesso nel dibattito perfino Gerhard Schröder, l’ex cancelliere SPD, che si è sentito in dovere di abbandonare per un attimo temi legati a gasdotti per scrivere un articolo apparso la settimana scorsa su “Die Zeit”, centrato non solo, com’era prevedibile, sulla critica agli svizzeri e sulla difesa del “multikulti”: “L’islam non è un’ideologia politica”, ha scritto, “è piuttosto una religione pacifica. Questo è quello che insegna il Corano”. Per dimostrarlo, ha poi ricordato, basterebbe ricordare che “lo scoppio delle due guerre mondiali del secolo passato non è certo attribuibile ad uno stato islamico”. A smascherare il tentativo maldestro di relativizzare la questione, messo in atto da Schröder e dalla lobby mediatica capeggiata dal settimanale diretto da Di Lorenzo, c’ha pensato la sociologa d’origine turca Necla Kelek, membro autorevole della Conferenza governativa sull’Islam voluta due anni fa dall’allora Ministro degli Interni Wolfgang Schäuble. Con un articolo apparso sulla “Frankfurter Allgemeine” ha ricordato anzitutto, a proposito di bellicismi, come “la guerra santa, inventata nel settimo secolo, sia stata la minaccia con la quale ha dovuto fare i conti l’Europa per un migliaio di anni, prima di essere fermata a Vienna, nel 1683, grazie ai polacchi”. Ancora più decisa è l’accusa di “relativismo” che la Kelek muove all’ex cancelliere a proposito delle odierne condizioni di vita nei paesi a maggioranza islamica: “L’islam è fede, cultura, visione del mondo e politica. La sua dottrina non conosce alcuna separazione tra stato e religione. Esso è incontestabilmente anche un’ideologia politica, anche se Schröder non vuole vederlo”. Il confronto con l’islam, chiede la Kelek, dev’essere sviluppato sulle questioni essenziali, come quella delle donne costrette a matrimoni forzati o lasciate al margine della società, come avviene nell’attuale Turchia governata dall’AKP di Erdogan: “Solo una quarto delle donne vive lì di un proprio lavoro”, ricorda la sociologa, e anche su questo Schröder non sembra essere molto aggiornato, se è vero che al riguardo scrive di “rari casi di costrizione”. Sia chiaro, la Kelek giudica l’esito del referendum svizzero “una decisione tragica”, poiché “i musulmani hanno diritto ad avere moschee e minareti” e certo “nessuno svizzero contesta ai musulmani il diritto a vivere la propria religione”. Il problema è la conoscenza di “ciò che vi è dietro”, di quella “società parallela” che le comunità musulmane, per loro natura, tendono a costruire: “La sfiducia degli svizzeri nei confronti delle associazioni che promuovono l’edificazione di moschee”, aggiunge la Kelek, “è causata anche dalla cospirazione che viene coltivata al loro interno. Le stesse autorità svizzere non sanno ciò che nelle moschee viene predicato”. Ora, rimarca, “le organizzazioni islamiche, il governo turco e infine Schröder sostengono che con quella scelta sia stata rifiutata la libertà religiosa, che sia in atto una discriminazione verso una minoranza. In questo modo si è data loro l’opportunità di non discutere dell’islam, ma solo, come sempre, di una colpa di cui si sarebbe macchiata l’Europa”. Nel frattempo in Germania è sotto gli occhi di tutti il risultato di un sondaggio condotto nei giorni scorsi dall’autorevole istituto di ricerca DIMAP sul tema islamizzazione: il 36% dei tedeschi interpellati si è detto “molto preoccupato” per la diffusione dell’islam. Ad esso si è aggiunta un’inchiesta svolta a Berlino dal quotidiano “Berliner Morgenpost”, il cui esito ha visto prevalere con appena il 53% il rifiuto del risultato referendario svizzero (il 40% si è dichiarato favorevole mentre il 7% non si è voluto esprimere). Insomma, che esista un disagio è un fatto indiscutibile. Tanto più che in Germania sono in costruzione oggi 150 moschee, per lo più repliche triviali di quella ottomana di Sinan, come ce ne sono a migliaia in Anatolia. E così i tedeschi sono sempre meno certi di conoscere il vero significato di questo loro proliferare.
domenica 20 dicembre 2009
Contro la svizzera
Un articolo dell'ex cancelliere su Die Zeit. I multikulti arruolano Schröder contro il referendum svizzero sui minareti di Vito Punzi
Il risultato del referendum svizzero sui minareti non poteva lasciare indifferente la Germania, un paese che negli ultimi anni ha visto crescere il numero delle nuove moschee in maniera esponenziale, in particolare nel contesto della numerosa comunità turca e in stretta relazione con lo stato guidato dal presidente Abdullah Gül. Su iniziativa di movimenti spontanei di cittadini si sono moltiplicati anche i tentativi di porre argini all’”invasione”, anche nelle dimensioni degli edifici, oltre che nel numero (si vedano i casi più recenti di Colonia e Berlino), ma senza che si siano ottenuti particolari risultati. Nonostante i limiti denunciati da più parti (da ultimo c’ha provato il socialdemocratico Thilo Sarrazin, finendo con l’essere sottoposto ad un vero e proprio linciaggio mediatico) la versione tedesca del “multiculturalismo” continua a tenere banco. Tanto che si è intromesso nel dibattito perfino Gerhard Schröder, l’ex cancelliere SPD, che si è sentito in dovere di abbandonare per un attimo temi legati a gasdotti per scrivere un articolo apparso la settimana scorsa su “Die Zeit”, centrato non solo, com’era prevedibile, sulla critica agli svizzeri e sulla difesa del “multikulti”: “L’islam non è un’ideologia politica”, ha scritto, “è piuttosto una religione pacifica. Questo è quello che insegna il Corano”. Per dimostrarlo, ha poi ricordato, basterebbe ricordare che “lo scoppio delle due guerre mondiali del secolo passato non è certo attribuibile ad uno stato islamico”. A smascherare il tentativo maldestro di relativizzare la questione, messo in atto da Schröder e dalla lobby mediatica capeggiata dal settimanale diretto da Di Lorenzo, c’ha pensato la sociologa d’origine turca Necla Kelek, membro autorevole della Conferenza governativa sull’Islam voluta due anni fa dall’allora Ministro degli Interni Wolfgang Schäuble. Con un articolo apparso sulla “Frankfurter Allgemeine” ha ricordato anzitutto, a proposito di bellicismi, come “la guerra santa, inventata nel settimo secolo, sia stata la minaccia con la quale ha dovuto fare i conti l’Europa per un migliaio di anni, prima di essere fermata a Vienna, nel 1683, grazie ai polacchi”. Ancora più decisa è l’accusa di “relativismo” che la Kelek muove all’ex cancelliere a proposito delle odierne condizioni di vita nei paesi a maggioranza islamica: “L’islam è fede, cultura, visione del mondo e politica. La sua dottrina non conosce alcuna separazione tra stato e religione. Esso è incontestabilmente anche un’ideologia politica, anche se Schröder non vuole vederlo”. Il confronto con l’islam, chiede la Kelek, dev’essere sviluppato sulle questioni essenziali, come quella delle donne costrette a matrimoni forzati o lasciate al margine della società, come avviene nell’attuale Turchia governata dall’AKP di Erdogan: “Solo una quarto delle donne vive lì di un proprio lavoro”, ricorda la sociologa, e anche su questo Schröder non sembra essere molto aggiornato, se è vero che al riguardo scrive di “rari casi di costrizione”. Sia chiaro, la Kelek giudica l’esito del referendum svizzero “una decisione tragica”, poiché “i musulmani hanno diritto ad avere moschee e minareti” e certo “nessuno svizzero contesta ai musulmani il diritto a vivere la propria religione”. Il problema è la conoscenza di “ciò che vi è dietro”, di quella “società parallela” che le comunità musulmane, per loro natura, tendono a costruire: “La sfiducia degli svizzeri nei confronti delle associazioni che promuovono l’edificazione di moschee”, aggiunge la Kelek, “è causata anche dalla cospirazione che viene coltivata al loro interno. Le stesse autorità svizzere non sanno ciò che nelle moschee viene predicato”. Ora, rimarca, “le organizzazioni islamiche, il governo turco e infine Schröder sostengono che con quella scelta sia stata rifiutata la libertà religiosa, che sia in atto una discriminazione verso una minoranza. In questo modo si è data loro l’opportunità di non discutere dell’islam, ma solo, come sempre, di una colpa di cui si sarebbe macchiata l’Europa”. Nel frattempo in Germania è sotto gli occhi di tutti il risultato di un sondaggio condotto nei giorni scorsi dall’autorevole istituto di ricerca DIMAP sul tema islamizzazione: il 36% dei tedeschi interpellati si è detto “molto preoccupato” per la diffusione dell’islam. Ad esso si è aggiunta un’inchiesta svolta a Berlino dal quotidiano “Berliner Morgenpost”, il cui esito ha visto prevalere con appena il 53% il rifiuto del risultato referendario svizzero (il 40% si è dichiarato favorevole mentre il 7% non si è voluto esprimere). Insomma, che esista un disagio è un fatto indiscutibile. Tanto più che in Germania sono in costruzione oggi 150 moschee, per lo più repliche triviali di quella ottomana di Sinan, come ce ne sono a migliaia in Anatolia. E così i tedeschi sono sempre meno certi di conoscere il vero significato di questo loro proliferare.
Il risultato del referendum svizzero sui minareti non poteva lasciare indifferente la Germania, un paese che negli ultimi anni ha visto crescere il numero delle nuove moschee in maniera esponenziale, in particolare nel contesto della numerosa comunità turca e in stretta relazione con lo stato guidato dal presidente Abdullah Gül. Su iniziativa di movimenti spontanei di cittadini si sono moltiplicati anche i tentativi di porre argini all’”invasione”, anche nelle dimensioni degli edifici, oltre che nel numero (si vedano i casi più recenti di Colonia e Berlino), ma senza che si siano ottenuti particolari risultati. Nonostante i limiti denunciati da più parti (da ultimo c’ha provato il socialdemocratico Thilo Sarrazin, finendo con l’essere sottoposto ad un vero e proprio linciaggio mediatico) la versione tedesca del “multiculturalismo” continua a tenere banco. Tanto che si è intromesso nel dibattito perfino Gerhard Schröder, l’ex cancelliere SPD, che si è sentito in dovere di abbandonare per un attimo temi legati a gasdotti per scrivere un articolo apparso la settimana scorsa su “Die Zeit”, centrato non solo, com’era prevedibile, sulla critica agli svizzeri e sulla difesa del “multikulti”: “L’islam non è un’ideologia politica”, ha scritto, “è piuttosto una religione pacifica. Questo è quello che insegna il Corano”. Per dimostrarlo, ha poi ricordato, basterebbe ricordare che “lo scoppio delle due guerre mondiali del secolo passato non è certo attribuibile ad uno stato islamico”. A smascherare il tentativo maldestro di relativizzare la questione, messo in atto da Schröder e dalla lobby mediatica capeggiata dal settimanale diretto da Di Lorenzo, c’ha pensato la sociologa d’origine turca Necla Kelek, membro autorevole della Conferenza governativa sull’Islam voluta due anni fa dall’allora Ministro degli Interni Wolfgang Schäuble. Con un articolo apparso sulla “Frankfurter Allgemeine” ha ricordato anzitutto, a proposito di bellicismi, come “la guerra santa, inventata nel settimo secolo, sia stata la minaccia con la quale ha dovuto fare i conti l’Europa per un migliaio di anni, prima di essere fermata a Vienna, nel 1683, grazie ai polacchi”. Ancora più decisa è l’accusa di “relativismo” che la Kelek muove all’ex cancelliere a proposito delle odierne condizioni di vita nei paesi a maggioranza islamica: “L’islam è fede, cultura, visione del mondo e politica. La sua dottrina non conosce alcuna separazione tra stato e religione. Esso è incontestabilmente anche un’ideologia politica, anche se Schröder non vuole vederlo”. Il confronto con l’islam, chiede la Kelek, dev’essere sviluppato sulle questioni essenziali, come quella delle donne costrette a matrimoni forzati o lasciate al margine della società, come avviene nell’attuale Turchia governata dall’AKP di Erdogan: “Solo una quarto delle donne vive lì di un proprio lavoro”, ricorda la sociologa, e anche su questo Schröder non sembra essere molto aggiornato, se è vero che al riguardo scrive di “rari casi di costrizione”. Sia chiaro, la Kelek giudica l’esito del referendum svizzero “una decisione tragica”, poiché “i musulmani hanno diritto ad avere moschee e minareti” e certo “nessuno svizzero contesta ai musulmani il diritto a vivere la propria religione”. Il problema è la conoscenza di “ciò che vi è dietro”, di quella “società parallela” che le comunità musulmane, per loro natura, tendono a costruire: “La sfiducia degli svizzeri nei confronti delle associazioni che promuovono l’edificazione di moschee”, aggiunge la Kelek, “è causata anche dalla cospirazione che viene coltivata al loro interno. Le stesse autorità svizzere non sanno ciò che nelle moschee viene predicato”. Ora, rimarca, “le organizzazioni islamiche, il governo turco e infine Schröder sostengono che con quella scelta sia stata rifiutata la libertà religiosa, che sia in atto una discriminazione verso una minoranza. In questo modo si è data loro l’opportunità di non discutere dell’islam, ma solo, come sempre, di una colpa di cui si sarebbe macchiata l’Europa”. Nel frattempo in Germania è sotto gli occhi di tutti il risultato di un sondaggio condotto nei giorni scorsi dall’autorevole istituto di ricerca DIMAP sul tema islamizzazione: il 36% dei tedeschi interpellati si è detto “molto preoccupato” per la diffusione dell’islam. Ad esso si è aggiunta un’inchiesta svolta a Berlino dal quotidiano “Berliner Morgenpost”, il cui esito ha visto prevalere con appena il 53% il rifiuto del risultato referendario svizzero (il 40% si è dichiarato favorevole mentre il 7% non si è voluto esprimere). Insomma, che esista un disagio è un fatto indiscutibile. Tanto più che in Germania sono in costruzione oggi 150 moschee, per lo più repliche triviali di quella ottomana di Sinan, come ce ne sono a migliaia in Anatolia. E così i tedeschi sono sempre meno certi di conoscere il vero significato di questo loro proliferare.
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