L’attentato contro il volo della Northwest Airlines il giorno di Natale è riuscito anche se l’esplosione non è avvenuta per un difetto tecnico ancora da accertare. Certo ci sono i trecento passeggeri che si sono salvati e le loro famiglie che oggi possono proseguire la loro vita solo con un brutto ricordo, e non è particolare da poco. Ma gli effetti che Umar Farouk Abdulmutajab e i suoi mandanti volevano ottenere non sono molto diversi da quelli che si sarebbero prodotti con il pieno successo dell’attentato. Un giovane musulmano era pronto e addestrato per farsi esplodere in volo il giorno di Natale assieme a circa trecento cristiani su mandato di quel che resta di Al Qaeda. Già all’indomani gli aeroporti di mezzo mondo erano semiparalizzati dalle nuove (e probabilmente inutili) misure di sicurezza introdotte in fretta e furia. Passeggeri in fila per ore, voli cancellati, ritardi, forze di sicurezza sotto pressione: questo solo per dare un quadro delle 48 ore successive al mancato attentato. Negli Usa già si progetta l’introduzione su vasta scala dei “personal scanner”, un sistema che servirà a radiografare ogni singolo passeggero e che – sembra – sarebbe stato in grado di individuare l’esplosivo nelle mutande del giovane nigeriano. Il governo federale dovrà rassegnarsi a pagare miliardi di dollari per far fronte alle nuove misure di sicurezza e lo stesso toccherà ai governi europei. Il breve sogno dei voli low cost sarà fagocitato dall’impennarsi delle spese per proteggere la vita di passeggeri ed equipaggi. Viaggiare sarà più costoso, più faticoso, più rischioso e alla fine molti ci rinunceranno. Saremo tutti un po’ più spaventati, un po’ più isolati e un po’ meno liberi. Ecco il successo dell’attentato di Natale al di là dell’esplosione e dei morti. La costruzione di un mondo peggiore (relativisti permettendo). Ed è un successo ancora più insidioso perché come quasi tutto quello che ha a che fare con il terrorismo islamico facciamo fatica a vederlo. Dalle sue vacanze hawaiane, Barack Obama ha dovuto fare due pubblici discorsi relativi all’attentato ed è anche stato costretto ad usare le parole terrore e terrorismo ma si è guardato bene dal fare alcun riferimento all’Islam. Si tratta della stessa pericolosa rimozione che ha permesso a Nidal Malik Hasan, un ufficiale americano di origine palestinese, di uccidere 13 commilitoni e ferirne 30 nella base di Fort Hood in Texas all’inizio di novembre. Nessuno se l’era sentita di mettere in discussione o di sorvegliare la sua frequentazione di una moschea fondamentalista, i suoi legami con un imam iemenita, la sua ossessiva osservanza religiosa. Probabilmente i suoi superiori consideravano un'indelicatezza intromettersi nelle sue abitudini religiose, nelle sue scelte di preghiera, temevano forse di essere tacciati di islamofobia o di essere nemici del “dialogo”. Su un altro piano deve essere stata la stessa remora quella che ha frenato gli agenti della sicurezza della Casa Bianca a verificare meglio chi fossero Tareq Sahari e sua moglie, mentre questi si imbucavano alla cena di Stato offerta da Obama al primo ministro indiano. Sia mai rischiare un’accusa di discriminazione anti-islamica: meglio mettere a rischio la sicurezza del presidente che rischiare una gaffe del genere. Non parliamo dell’Italia dove parlare di scontro di civiltà ormai è quasi un reato e probabilmente i nostri paladini del “dialogo” sono convinti che Umar volasse il 25 dicembre perché le tariffe erano scontante. E al massimo sono rimasti sconcertati per il fatto che non provenisse da uno slum di derelitti ma la sua rabbia e il suo odio fosse nutrito nella migliore università inglese. Nel frattempo possiamo continuare a requisire lo shampoo e il dentifricio di chi viaggia in aereo, impedire ai passeggeri di mettersi la coperta sulle gambe durante il volo o a trattenere la pipì nell’ora prima dell’atterraggio. Ma se non ci sforziamo di riconoscere il nostro nemico, di capire cosa lo muove, se non ammettiamo che tra noi e l’Islam, moderato o meno, esiste – diciamo – un problema, tutto questo servirà a molto poco contro i terroristi e molto contro noi stessi.
giovedì 31 dicembre 2009
Per l'imam Tettamanzi
L'attentato di Natale è riuscito anche se la bomba non è esplosa di Giancarlo Loquenzi
L’attentato contro il volo della Northwest Airlines il giorno di Natale è riuscito anche se l’esplosione non è avvenuta per un difetto tecnico ancora da accertare. Certo ci sono i trecento passeggeri che si sono salvati e le loro famiglie che oggi possono proseguire la loro vita solo con un brutto ricordo, e non è particolare da poco. Ma gli effetti che Umar Farouk Abdulmutajab e i suoi mandanti volevano ottenere non sono molto diversi da quelli che si sarebbero prodotti con il pieno successo dell’attentato. Un giovane musulmano era pronto e addestrato per farsi esplodere in volo il giorno di Natale assieme a circa trecento cristiani su mandato di quel che resta di Al Qaeda. Già all’indomani gli aeroporti di mezzo mondo erano semiparalizzati dalle nuove (e probabilmente inutili) misure di sicurezza introdotte in fretta e furia. Passeggeri in fila per ore, voli cancellati, ritardi, forze di sicurezza sotto pressione: questo solo per dare un quadro delle 48 ore successive al mancato attentato. Negli Usa già si progetta l’introduzione su vasta scala dei “personal scanner”, un sistema che servirà a radiografare ogni singolo passeggero e che – sembra – sarebbe stato in grado di individuare l’esplosivo nelle mutande del giovane nigeriano. Il governo federale dovrà rassegnarsi a pagare miliardi di dollari per far fronte alle nuove misure di sicurezza e lo stesso toccherà ai governi europei. Il breve sogno dei voli low cost sarà fagocitato dall’impennarsi delle spese per proteggere la vita di passeggeri ed equipaggi. Viaggiare sarà più costoso, più faticoso, più rischioso e alla fine molti ci rinunceranno. Saremo tutti un po’ più spaventati, un po’ più isolati e un po’ meno liberi. Ecco il successo dell’attentato di Natale al di là dell’esplosione e dei morti. La costruzione di un mondo peggiore (relativisti permettendo). Ed è un successo ancora più insidioso perché come quasi tutto quello che ha a che fare con il terrorismo islamico facciamo fatica a vederlo. Dalle sue vacanze hawaiane, Barack Obama ha dovuto fare due pubblici discorsi relativi all’attentato ed è anche stato costretto ad usare le parole terrore e terrorismo ma si è guardato bene dal fare alcun riferimento all’Islam. Si tratta della stessa pericolosa rimozione che ha permesso a Nidal Malik Hasan, un ufficiale americano di origine palestinese, di uccidere 13 commilitoni e ferirne 30 nella base di Fort Hood in Texas all’inizio di novembre. Nessuno se l’era sentita di mettere in discussione o di sorvegliare la sua frequentazione di una moschea fondamentalista, i suoi legami con un imam iemenita, la sua ossessiva osservanza religiosa. Probabilmente i suoi superiori consideravano un'indelicatezza intromettersi nelle sue abitudini religiose, nelle sue scelte di preghiera, temevano forse di essere tacciati di islamofobia o di essere nemici del “dialogo”. Su un altro piano deve essere stata la stessa remora quella che ha frenato gli agenti della sicurezza della Casa Bianca a verificare meglio chi fossero Tareq Sahari e sua moglie, mentre questi si imbucavano alla cena di Stato offerta da Obama al primo ministro indiano. Sia mai rischiare un’accusa di discriminazione anti-islamica: meglio mettere a rischio la sicurezza del presidente che rischiare una gaffe del genere. Non parliamo dell’Italia dove parlare di scontro di civiltà ormai è quasi un reato e probabilmente i nostri paladini del “dialogo” sono convinti che Umar volasse il 25 dicembre perché le tariffe erano scontante. E al massimo sono rimasti sconcertati per il fatto che non provenisse da uno slum di derelitti ma la sua rabbia e il suo odio fosse nutrito nella migliore università inglese. Nel frattempo possiamo continuare a requisire lo shampoo e il dentifricio di chi viaggia in aereo, impedire ai passeggeri di mettersi la coperta sulle gambe durante il volo o a trattenere la pipì nell’ora prima dell’atterraggio. Ma se non ci sforziamo di riconoscere il nostro nemico, di capire cosa lo muove, se non ammettiamo che tra noi e l’Islam, moderato o meno, esiste – diciamo – un problema, tutto questo servirà a molto poco contro i terroristi e molto contro noi stessi.
L’attentato contro il volo della Northwest Airlines il giorno di Natale è riuscito anche se l’esplosione non è avvenuta per un difetto tecnico ancora da accertare. Certo ci sono i trecento passeggeri che si sono salvati e le loro famiglie che oggi possono proseguire la loro vita solo con un brutto ricordo, e non è particolare da poco. Ma gli effetti che Umar Farouk Abdulmutajab e i suoi mandanti volevano ottenere non sono molto diversi da quelli che si sarebbero prodotti con il pieno successo dell’attentato. Un giovane musulmano era pronto e addestrato per farsi esplodere in volo il giorno di Natale assieme a circa trecento cristiani su mandato di quel che resta di Al Qaeda. Già all’indomani gli aeroporti di mezzo mondo erano semiparalizzati dalle nuove (e probabilmente inutili) misure di sicurezza introdotte in fretta e furia. Passeggeri in fila per ore, voli cancellati, ritardi, forze di sicurezza sotto pressione: questo solo per dare un quadro delle 48 ore successive al mancato attentato. Negli Usa già si progetta l’introduzione su vasta scala dei “personal scanner”, un sistema che servirà a radiografare ogni singolo passeggero e che – sembra – sarebbe stato in grado di individuare l’esplosivo nelle mutande del giovane nigeriano. Il governo federale dovrà rassegnarsi a pagare miliardi di dollari per far fronte alle nuove misure di sicurezza e lo stesso toccherà ai governi europei. Il breve sogno dei voli low cost sarà fagocitato dall’impennarsi delle spese per proteggere la vita di passeggeri ed equipaggi. Viaggiare sarà più costoso, più faticoso, più rischioso e alla fine molti ci rinunceranno. Saremo tutti un po’ più spaventati, un po’ più isolati e un po’ meno liberi. Ecco il successo dell’attentato di Natale al di là dell’esplosione e dei morti. La costruzione di un mondo peggiore (relativisti permettendo). Ed è un successo ancora più insidioso perché come quasi tutto quello che ha a che fare con il terrorismo islamico facciamo fatica a vederlo. Dalle sue vacanze hawaiane, Barack Obama ha dovuto fare due pubblici discorsi relativi all’attentato ed è anche stato costretto ad usare le parole terrore e terrorismo ma si è guardato bene dal fare alcun riferimento all’Islam. Si tratta della stessa pericolosa rimozione che ha permesso a Nidal Malik Hasan, un ufficiale americano di origine palestinese, di uccidere 13 commilitoni e ferirne 30 nella base di Fort Hood in Texas all’inizio di novembre. Nessuno se l’era sentita di mettere in discussione o di sorvegliare la sua frequentazione di una moschea fondamentalista, i suoi legami con un imam iemenita, la sua ossessiva osservanza religiosa. Probabilmente i suoi superiori consideravano un'indelicatezza intromettersi nelle sue abitudini religiose, nelle sue scelte di preghiera, temevano forse di essere tacciati di islamofobia o di essere nemici del “dialogo”. Su un altro piano deve essere stata la stessa remora quella che ha frenato gli agenti della sicurezza della Casa Bianca a verificare meglio chi fossero Tareq Sahari e sua moglie, mentre questi si imbucavano alla cena di Stato offerta da Obama al primo ministro indiano. Sia mai rischiare un’accusa di discriminazione anti-islamica: meglio mettere a rischio la sicurezza del presidente che rischiare una gaffe del genere. Non parliamo dell’Italia dove parlare di scontro di civiltà ormai è quasi un reato e probabilmente i nostri paladini del “dialogo” sono convinti che Umar volasse il 25 dicembre perché le tariffe erano scontante. E al massimo sono rimasti sconcertati per il fatto che non provenisse da uno slum di derelitti ma la sua rabbia e il suo odio fosse nutrito nella migliore università inglese. Nel frattempo possiamo continuare a requisire lo shampoo e il dentifricio di chi viaggia in aereo, impedire ai passeggeri di mettersi la coperta sulle gambe durante il volo o a trattenere la pipì nell’ora prima dell’atterraggio. Ma se non ci sforziamo di riconoscere il nostro nemico, di capire cosa lo muove, se non ammettiamo che tra noi e l’Islam, moderato o meno, esiste – diciamo – un problema, tutto questo servirà a molto poco contro i terroristi e molto contro noi stessi.
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