Il consolato egiziano di Milano? Ha qualche problema con gli abusivi. Non solo tra gli emigrati che ogni giorno chiedono assistenza e informazioni, ma anche dietro gli sportelli, tra i funzionari che dovrebbero garantire il pieno di rispetto delle leggi. Già, perché l’ufficio di rappresentanza diplomatica del Cairo tende ad assumere il personale locale in nero. Poco importa che si tratti di italiani o di egiziani: chi è reclutato direttamente a Milano, e dunque non è in trasferta dal Cairo, quasi mai ottiene di essere messo a norma, benché gli accordi tra i due governi prevedano l’equiparazione con i contratti della Farnesina. E non da ieri, a quanto pare è una consuetudine che dura da trent’anni. Basta recarsi in tribunale per averne conferma. L’elenco dei dipendenti che negli ultimi anni hanno fatto causa al consolato è lungo e risponde, tra gli altri, ai nomi di Mohammed Idris, Said Hashem, Mohammed Hafifi, Ashuad Awad, nonché di cittadini italiani, persino di una domestica filippina. L’ultimo caso è quello di Ehab Khalil ed è clamoroso. Fino allo scorso settembre quest’uomo di mezza età dall’aspetto mite e i modi cortesi - che ha accettato di raccontare la sua storia al Giornale - aveva il compito di mantenere i rapporti con le questure del Nord Italia e con le magistrature per i procedimenti penali che riguardano cittadini egiziani. E quando, lo scorso luglio, il presidente Mubarak venne in visita a Milano, gli fu affidato il coordinamento con le autorità di polizia italiane e con i servizi segreti egiziani per la sicurezza nei tre alberghi occupati dalla delegazione egiziana. Il giorno della partenza accompagnò addirittura in aeroporto i piloti del jet personale del presidente. Un insospettabile, un uomo degno della massima fiducia e di incarichi di grande responsabilità. Eppure, per quanto incredibile, un irregolare. «Il consolato mi aveva assunto a giugno e all’inizio sembrava che fosse tutto normale. Mi avevano chiesto il permesso di soggiorno, il codice fiscale, la tessera Asl, eccetera per regolarizzare la mia posizione», racconta. Khalil conosce bene le norme italiane. È residente nel nostro Paese dall’89 e per vent’anni ha lavorato come broker turistico. L’assunzione al consolato sembrava l’occasione della vita. «Il primo mese mi consegnarono lo stipendio in contanti, dentro una busta, ma mi pregarono di pazientare un po’, perché per formalizzare l’incarico dovevano ricevere il via libera dal Cairo e i tempi della burocrazia erano lunghi. Non me ne preoccupai troppo, pensai che, non appena risolto questo inghippo, avrebbero versato gli arretrati all’Inps». E invece le settimane passarono senza che nulla accadesse. Al mattino Khalil firmava il registro di entrata del consolato, in zona Loreto, alla sera quello di uscita. Ma alla fine dei mesi di luglio e di agosto anziché ricevere il regolare cedolino con versamento dello stipendio in banca, si vide consegnare la solita busta piena di banconote. Poi in settembre, la sorpresa. Benché avesse ricevuto molti apprezzamenti per il suo comportamento durante la visita di Mubarak e per la professionalità dimostrata nello sbrigare altre pratiche consolari, gli annunciarono il licenziamento, maturato pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo console. Questione di costi. «Non dipende da noi», gli dissero. Traduzione: il governo del Cairo ci impone di risparmiare. «Ma non era vero, perché al mio posto hanno inviato dall’Egitto un funzionario del ministero, prossimo alla pensione, che non parla italiano, non conosce le leggi del vostro Paese e che, essendo in missione all’estero, costa molto più di me», racconta Khalil, che se ne sarebbe fatta una ragione se perlomeno il consolato lo avesse messo in regola con l’Inps, riconoscendogli i diritti previsti dalla legge italiana. «E invece mi hanno allontanato su due piedi, dandomi, sempre in contanti, un solo stipendio come liquidazione». Khalil ha denunciato la rappresentanza diplomatica. E ha scoperto che la sua non era affatto un’eccezione. Negli ultimi dieci anni solo un funzionario è stato messo in regola. Le cause dei suoi ex colleghi fioccano, ma soltanto a fine rapporto, perché chi osa prima viene licenziato in tronco e si ritrova senza tutela, in quanto irregolare, come ben sa il povero Khalil, che è disperato, senza sussidio di disoccupazione, senza lavoro. Oggi due dei tre dipendenti assunti dal consolato egiziano con (ipotetico) contratto locale sono costretti a lavorare in nero. Un’anomalia, un paradosso, che fa sorgere, a noi italiani, un dubbio. Come possiamo pretendere dagli immigrati egiziani il rispetto delle nostre leggi, se a violarle è proprio il loro consolato?
mercoledì 23 dicembre 2009
Senza regole
Consolato egiziano: lavoro per tutti. Ma dev'essere rigorosamente in nero di Marcello Foa
Il consolato egiziano di Milano? Ha qualche problema con gli abusivi. Non solo tra gli emigrati che ogni giorno chiedono assistenza e informazioni, ma anche dietro gli sportelli, tra i funzionari che dovrebbero garantire il pieno di rispetto delle leggi. Già, perché l’ufficio di rappresentanza diplomatica del Cairo tende ad assumere il personale locale in nero. Poco importa che si tratti di italiani o di egiziani: chi è reclutato direttamente a Milano, e dunque non è in trasferta dal Cairo, quasi mai ottiene di essere messo a norma, benché gli accordi tra i due governi prevedano l’equiparazione con i contratti della Farnesina. E non da ieri, a quanto pare è una consuetudine che dura da trent’anni. Basta recarsi in tribunale per averne conferma. L’elenco dei dipendenti che negli ultimi anni hanno fatto causa al consolato è lungo e risponde, tra gli altri, ai nomi di Mohammed Idris, Said Hashem, Mohammed Hafifi, Ashuad Awad, nonché di cittadini italiani, persino di una domestica filippina. L’ultimo caso è quello di Ehab Khalil ed è clamoroso. Fino allo scorso settembre quest’uomo di mezza età dall’aspetto mite e i modi cortesi - che ha accettato di raccontare la sua storia al Giornale - aveva il compito di mantenere i rapporti con le questure del Nord Italia e con le magistrature per i procedimenti penali che riguardano cittadini egiziani. E quando, lo scorso luglio, il presidente Mubarak venne in visita a Milano, gli fu affidato il coordinamento con le autorità di polizia italiane e con i servizi segreti egiziani per la sicurezza nei tre alberghi occupati dalla delegazione egiziana. Il giorno della partenza accompagnò addirittura in aeroporto i piloti del jet personale del presidente. Un insospettabile, un uomo degno della massima fiducia e di incarichi di grande responsabilità. Eppure, per quanto incredibile, un irregolare. «Il consolato mi aveva assunto a giugno e all’inizio sembrava che fosse tutto normale. Mi avevano chiesto il permesso di soggiorno, il codice fiscale, la tessera Asl, eccetera per regolarizzare la mia posizione», racconta. Khalil conosce bene le norme italiane. È residente nel nostro Paese dall’89 e per vent’anni ha lavorato come broker turistico. L’assunzione al consolato sembrava l’occasione della vita. «Il primo mese mi consegnarono lo stipendio in contanti, dentro una busta, ma mi pregarono di pazientare un po’, perché per formalizzare l’incarico dovevano ricevere il via libera dal Cairo e i tempi della burocrazia erano lunghi. Non me ne preoccupai troppo, pensai che, non appena risolto questo inghippo, avrebbero versato gli arretrati all’Inps». E invece le settimane passarono senza che nulla accadesse. Al mattino Khalil firmava il registro di entrata del consolato, in zona Loreto, alla sera quello di uscita. Ma alla fine dei mesi di luglio e di agosto anziché ricevere il regolare cedolino con versamento dello stipendio in banca, si vide consegnare la solita busta piena di banconote. Poi in settembre, la sorpresa. Benché avesse ricevuto molti apprezzamenti per il suo comportamento durante la visita di Mubarak e per la professionalità dimostrata nello sbrigare altre pratiche consolari, gli annunciarono il licenziamento, maturato pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo console. Questione di costi. «Non dipende da noi», gli dissero. Traduzione: il governo del Cairo ci impone di risparmiare. «Ma non era vero, perché al mio posto hanno inviato dall’Egitto un funzionario del ministero, prossimo alla pensione, che non parla italiano, non conosce le leggi del vostro Paese e che, essendo in missione all’estero, costa molto più di me», racconta Khalil, che se ne sarebbe fatta una ragione se perlomeno il consolato lo avesse messo in regola con l’Inps, riconoscendogli i diritti previsti dalla legge italiana. «E invece mi hanno allontanato su due piedi, dandomi, sempre in contanti, un solo stipendio come liquidazione». Khalil ha denunciato la rappresentanza diplomatica. E ha scoperto che la sua non era affatto un’eccezione. Negli ultimi dieci anni solo un funzionario è stato messo in regola. Le cause dei suoi ex colleghi fioccano, ma soltanto a fine rapporto, perché chi osa prima viene licenziato in tronco e si ritrova senza tutela, in quanto irregolare, come ben sa il povero Khalil, che è disperato, senza sussidio di disoccupazione, senza lavoro. Oggi due dei tre dipendenti assunti dal consolato egiziano con (ipotetico) contratto locale sono costretti a lavorare in nero. Un’anomalia, un paradosso, che fa sorgere, a noi italiani, un dubbio. Come possiamo pretendere dagli immigrati egiziani il rispetto delle nostre leggi, se a violarle è proprio il loro consolato?
Il consolato egiziano di Milano? Ha qualche problema con gli abusivi. Non solo tra gli emigrati che ogni giorno chiedono assistenza e informazioni, ma anche dietro gli sportelli, tra i funzionari che dovrebbero garantire il pieno di rispetto delle leggi. Già, perché l’ufficio di rappresentanza diplomatica del Cairo tende ad assumere il personale locale in nero. Poco importa che si tratti di italiani o di egiziani: chi è reclutato direttamente a Milano, e dunque non è in trasferta dal Cairo, quasi mai ottiene di essere messo a norma, benché gli accordi tra i due governi prevedano l’equiparazione con i contratti della Farnesina. E non da ieri, a quanto pare è una consuetudine che dura da trent’anni. Basta recarsi in tribunale per averne conferma. L’elenco dei dipendenti che negli ultimi anni hanno fatto causa al consolato è lungo e risponde, tra gli altri, ai nomi di Mohammed Idris, Said Hashem, Mohammed Hafifi, Ashuad Awad, nonché di cittadini italiani, persino di una domestica filippina. L’ultimo caso è quello di Ehab Khalil ed è clamoroso. Fino allo scorso settembre quest’uomo di mezza età dall’aspetto mite e i modi cortesi - che ha accettato di raccontare la sua storia al Giornale - aveva il compito di mantenere i rapporti con le questure del Nord Italia e con le magistrature per i procedimenti penali che riguardano cittadini egiziani. E quando, lo scorso luglio, il presidente Mubarak venne in visita a Milano, gli fu affidato il coordinamento con le autorità di polizia italiane e con i servizi segreti egiziani per la sicurezza nei tre alberghi occupati dalla delegazione egiziana. Il giorno della partenza accompagnò addirittura in aeroporto i piloti del jet personale del presidente. Un insospettabile, un uomo degno della massima fiducia e di incarichi di grande responsabilità. Eppure, per quanto incredibile, un irregolare. «Il consolato mi aveva assunto a giugno e all’inizio sembrava che fosse tutto normale. Mi avevano chiesto il permesso di soggiorno, il codice fiscale, la tessera Asl, eccetera per regolarizzare la mia posizione», racconta. Khalil conosce bene le norme italiane. È residente nel nostro Paese dall’89 e per vent’anni ha lavorato come broker turistico. L’assunzione al consolato sembrava l’occasione della vita. «Il primo mese mi consegnarono lo stipendio in contanti, dentro una busta, ma mi pregarono di pazientare un po’, perché per formalizzare l’incarico dovevano ricevere il via libera dal Cairo e i tempi della burocrazia erano lunghi. Non me ne preoccupai troppo, pensai che, non appena risolto questo inghippo, avrebbero versato gli arretrati all’Inps». E invece le settimane passarono senza che nulla accadesse. Al mattino Khalil firmava il registro di entrata del consolato, in zona Loreto, alla sera quello di uscita. Ma alla fine dei mesi di luglio e di agosto anziché ricevere il regolare cedolino con versamento dello stipendio in banca, si vide consegnare la solita busta piena di banconote. Poi in settembre, la sorpresa. Benché avesse ricevuto molti apprezzamenti per il suo comportamento durante la visita di Mubarak e per la professionalità dimostrata nello sbrigare altre pratiche consolari, gli annunciarono il licenziamento, maturato pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo console. Questione di costi. «Non dipende da noi», gli dissero. Traduzione: il governo del Cairo ci impone di risparmiare. «Ma non era vero, perché al mio posto hanno inviato dall’Egitto un funzionario del ministero, prossimo alla pensione, che non parla italiano, non conosce le leggi del vostro Paese e che, essendo in missione all’estero, costa molto più di me», racconta Khalil, che se ne sarebbe fatta una ragione se perlomeno il consolato lo avesse messo in regola con l’Inps, riconoscendogli i diritti previsti dalla legge italiana. «E invece mi hanno allontanato su due piedi, dandomi, sempre in contanti, un solo stipendio come liquidazione». Khalil ha denunciato la rappresentanza diplomatica. E ha scoperto che la sua non era affatto un’eccezione. Negli ultimi dieci anni solo un funzionario è stato messo in regola. Le cause dei suoi ex colleghi fioccano, ma soltanto a fine rapporto, perché chi osa prima viene licenziato in tronco e si ritrova senza tutela, in quanto irregolare, come ben sa il povero Khalil, che è disperato, senza sussidio di disoccupazione, senza lavoro. Oggi due dei tre dipendenti assunti dal consolato egiziano con (ipotetico) contratto locale sono costretti a lavorare in nero. Un’anomalia, un paradosso, che fa sorgere, a noi italiani, un dubbio. Come possiamo pretendere dagli immigrati egiziani il rispetto delle nostre leggi, se a violarle è proprio il loro consolato?
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