mercoledì 2 dicembre 2009

Ancora opinioni

Il referendum elvetico ha bloccato l'islamizzazione della Svizzera

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/12/2009, a pag. I, gli articoli di Giulio Meotti e Angelo Mellone titolati "Quel che il Vaticano non ha ancora detto" e "Islam in garage". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 14, l'articolo di Ian Buruma dal titolo "Europa, la paura dei musulmani nasce da quell’identità che non c’è più" e, a pag. 19, l'articolo di Maria Serena Natale dal titolo "Minareti, l’Onu accusa: «Un voto discriminatorio»" preceduti dai nostri commenti. Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Giulio Meotti : "Quel che il Vaticano non ha ancora detto"

Nel referendum sui minareti che si è svolto nella più antica democrazia europea, la Svizzera, la Santa Sede ha assunto la stessa posizione di chi, come i Verdi e la sinistra europea, alla Corte dei diritti umani di Strasburgo ha patrocinato la causa contro i crocefissi nelle scuole italiane. Mentre la stampa italiana sposava la tesi xenofoba, urlava contro i “fascisti alpini” ed eleggeva l’islamista sul libro paga dell’Iran, Tariq Ramadan, a difensore della libera spiritualità interreligiosa, era sconfortante notare come il Vaticano, per bocca dell’Osservatore romano e del Pontificio consiglio per i migranti, avesse adottato la stessa interpretazione della maggioranza degli opinionisti più conformisti. Come Tahar Ben Jelloun, con i suoi infingimenti sulla convivenza che vogliono far credere ai lettori che in Svizzera la libertà religiosa è stata messa al bando e che non è più possibile professare come prima l’islam. E’ grottesco pensare a come l’episcopato abbia usato le stesse parole dell’Organizzazione della Conferenza islamica e di Izzedin Elzir, portavoce dell’Ucoii, l’organizzazione dei Fratelli musulmani. Pochissime le voci di dissenso cattolico. Il celebre arabista Samir K. Samir, esprimendo scetticismo sui minareti in Europa, dice che i musulmani devono vivere tra di noi “in una situazione di accoglienza, ma anche di minoranza. Ed essendo una minoranza, non possono comportarsi in tutto come nei paesi islamici dove essi sono la maggioranza”. E dove di cristiani ed ebrei non c’è quasi più traccia e le chiese più “moderne” sono quelle costruite nel dominio coloniale. Parlando con il Foglio, si è smarcato dal correttismo anche il dottor Nazir Bhatti, presidente del Pakistan Christian Congress e direttore del Pakistan Christian Post, originario di un paese dove i cristiani sono spesso arsi vivi. “Le manifestazioni cristiane sono bandite nel mio paese, ma nessun musulmano ha mai detto nulla, mentre ora protestano contro la Svizzera. Gli attivisti dei diritti umani dovrebbero alzare la voce e fare pressione sui regimi islamici perché autorizzino la costruzione di chiese e concedano libertà ai cristiani. C’è un doppio metro di misura, lo scandalo sulla Svizzera e il silenzio sulle minoranze nell’islam”. La Santa Sede ha fatto finta di credere, quando questa verità la sta vivendo nell’estinzione di tutte le comunità cristiane del medio oriente, che l’islam è pura fede, e non anche e soprattutto un sistema politico con un obiettivo grandioso: la conquista degli “infedeli”, in nome di quella esiziale e poderosa divisione del mondo in due parti: il “dar al islam”, il territorio dell’islam, e il “dar al harb”, il territorio della guerra. Valga, per tutti, il commento del premier turco Erdogan: “I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri caschi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito”. Uno dei primi atti di revanscismo islamico di Erdogan contro il kemalismo è stata proprio la reintroduzione degli altoparlanti sui minareti, in moschee dove si insegna che ebrei e cristiani sono nel migliore dei casi “invitati” (misafir) e nel peggiore “infedeli” (gavour). La chiesa cattolica, anziché invocare la messa al bando di fatwe che ancora oggi giudicano illecita la vendita della terra “sacra ad Allah” ai non musulmani, ha proferito rassicuranti affermazioni di circostanza, come fosse Amnesty International. Con il voto sui minareti, la chiesa avrebbe dovuto porre il tema della reciprocità, prima che sia troppo tardi e come aveva fatto Benedetto XVI nel recente incontro con l’ambasciatore marocchino. Sempre che tardi non lo sia già. I territori palestinesi erano in origine al venti per cento cristiani, oggi al cinque. Un secolo fa in Turchia c’erano due milioni di cristiani, ne rimangono solo alcune migliaia. I cristiani erano un terzo della popolazione siriana, oggi meno del dieci per cento. Erano il 55 per cento in Libano, oggi sono sotto la soglia del 30. Il referendum in Svizzera era volto a impedire la costruzione di nuovi minareti in un paese dove, al momento, ne esistono quattro. Questo non ha nulla a che vedere con la libertà di professare la religione in luoghi di culto. La libertà religiosa è il grande, meraviglioso abisso che separa le democrazie liberali, l’occidente tutto, dai regimi islamici più o meno “moderati”. In Svizzera esistono duecento moschee e, nel referendum, non si menzionava né l’opzione di eliminarle, né l’opzione di bloccare la costruzione di nuove. Il messaggio arrivato dalla Svizzera è chiaro: siamo una storica patria di esuli e perseguitati, a nessuno sarà interdetto il diritto di culto, ma basta con questo sistema di dominio collaudato da quattordici secoli e che nei minareti ha i propri vessilli scenici e nella sharia un programma di governo. Con il loro patriottismo referendario gli elvetici, in modo pulito, non violento, democratico e liberalem, hanno detto no alla resa all’islamizzazione. Il celebre islamologo americano Daniel Pipes ha paragonato il referendum alla fatwa contro Salman Rushdie per l’impatto che potrà avere sull’Europa e l’islam. Nonostante le poco confortanti rassicurazioni del presidente svizzero Hans-Rudolf Merz, la costruzione dei minareti sarebbe stata certamente il primo passo verso il vero obiettivo del “dar al islam”: la chiamata alla preghiera del muezzin. Gli imam avrebbero usato microfoni e altoparlanti tenuti ben alti, superiori ai clacson delle macchine e al traffico. La prima chiamata alla preghiera sarebbe stata alle quattro del mattino. Non c’è bisogno di andare alla Mecca per averne conferma. Già avviene alla East London Mosque, dove la chiamata alla preghiera serale compete con il rumore del traffico in Whitechapel Road. A Rotterdam ogni venerdì l’imam chiama alla preghiera, così a Colonia e a Bruxelles, dove la comunità turca sta trattando sul volume del muezzin, non certo sulla sua opportunità. E quando la combattiva ministra della famiglia del Marocco, Nouzha Skalli, femminista ex comunista, ha presentato una proposta di legge per tagliare i decibel dei minareti, specie nelle zone turistiche, i fondamentalisti l’hanno accusata di volere “zittire l’islam” e favorire gli “infedeli”. Due anni fa è scoppiata la guerra dei muezzin a Oxford. Tutto è cominciato come in Svizzera, quando la Oxford Central Mosque chiese di trasmettere con gli altoparlanti la preghiera. Il vescovo anglicano Michael Nazir-Ali disse che consentire il canto dei muezzin rappresentava il tentativo di “imporre il carattere islamico” al Regno Unito. Avrebbe dovuto essere questo il commento del Vaticano sul caso svizzero, non la solita stanca profferta multiculturale di accoglienza degli emigranti. Senza citare il problema della corsa all’altezza. In molte parti di Europa si cerca di fare i minareti più alti di qualunque cosa, soprattutto delle chiese. Caso da manuale è Betlemme, dove la comunità cristiana si sta estinguendo per l’islamizzazione massiccia. Come ci ha spiegato Samir Qumsieh, direttore di al Mahdeh, la televisione dei cristiani, “i muezzin gridano più forte vicino alle chiese. Dove una volta suonavano le campane ora si sentono soltanto le preghiere musulmane con gli altoparlanti a tutto volume. Tra vent’anni a Betlemme non ci sarà più un cristiano”. Con i loro orologi e le mucche pezzate, gli svizzeri non volevano fare la stessa fine.

Il FOGLIO - Angelo Mellone: "Islam in garage"

La posizione da tenere sull’esempio svizzero è tutta una faccenda di posizionamento: dietro o davanti. La politica deve scegliere dove stare. Dietro la paura, a suo rimorchio, con la scusa che il popolo la pensa così. O davanti, provando a dare alla paura una forma compatibile con la decenza del vivere civile, svegliando la coscienza di questo nostro occidente sazio, disperato e spaventato, che si autoassolve dalle sue dimenticanze. Il popolo si riunisce e decide che quelli lì, gli islamici, è meglio che restino nei garage a farsi la religione loro, religio che non lega più nessuno se non insicurezze a insicurezze. Niente minareti: si prende il problema e lo butta in garage, come la polvere sotto il tappeto. Quello che è successo in Svizzera interrogherà pure problemi di mucche e paesaggi, raffigurati dalle distonie estetiche tra campanili e minareti, o questioni profondissime come il dilemma della reciprocità mancata nella tolleranza religiosa. Sarà anche questo, sì, la paura di arredi urbani e montani screziati da salmodie fuori luogo e merletti fuori dal genius loci. In Svizzera, quando entri nei bistrot e chiedi l’insalata al posto delle patate come contorno ai würstel, ti rispondono che non è previsto dal menu, ovvio che il minareto non sia previsto nel menu delle cartoline, che ogni anno devono essere ristampate uguali. Sarà anche questo, storia di paesaggi e di raclette, ma non solo. In nome del popolo, si sbriga la faccenda della convivenza nella comunità e tra le comunità ripulendo le piazze dal conflitto e dalla politica. Il populismo, quando si fonde con la dinamicità dell’azione sociale, porta a risultati apprezzabili. Il berlusconismo, per dire, è una forma di populismo positiva perché nella sua forma migliore è una rete che tesse intimamente la leadership alla modernizzazione: non blocca la società, la vuole cambiare. Ma quando il populismo devia il suo corso, e nel caso svizzero anche letteralmente scantona, quando mischia l’ethos all’ethnos e magari attribuisce per via ideologica all’ethnos una patente di religiosità, diventa difesa pericolosa di un ordine sociale immobile e ripetitivo. La Svizzera è una democrazia diretta e partecipativa di antico conio, che ha risolto a fatica proprio i conflitti religiosi, ove vivono ancora gli echi dei massacri di protestanti, del Sacro Macello di Valtellina del 1620, dei calvinisti ostili a che i cattolici costruissero i loro campanili, di lotte di forche e fucili che sono durate sino all’Ottocento. Gli svizzeri, dunque, hanno memoria delle guerre di religione, sanno dove porta la degenerazione della religione a strumento di guerra ideologica e sanno qual è la cura. Eppure il voto di domenica ha fatto emergere prima di tutto, e con virulenza e scioccante trasparenza, lo spavento preventivo per l’apocalisse delle tradizioni. E questo scatena un processo imitativo in tutta Europa, ben oltre i confini impraticabili delle destre estreme, perché la ripoliticizzazione della religione è un ottimo stratagemma per chi deve fare caccia grossa e facile di consensi. Il nemico è pronto, chiaro, riconoscibile. La via è nell’integrazione repubblicana C’è una canzone dei Sottofasciasemplice, gruppo rock della destra radicale, che fa così: “Quelli poche chiacchiere / e se la Lega ce l’ha duro / Quelli c’hanno solo i denti e te li cacciano nel culo”. Appunto. Paura chiama paura. Invece servirebbe l’opposto, e l’ha detto bene il ministro francese dell’immigrazione, Eric Besson: l’unica via percorribile è l’integrazione degli islamici nei valori repubblicani. Tiriamoli fuori dai garage, dal culto della diversità ostile che produce fondamentalismo, sciogliamo il multicomunitarismo nell’appartenenza alla nazione come presidio di libertà per l’individuo, offriamo legittimazione pubblica e pretendiamo lealtà pubblica. Il politicamente corretto non c’entra nulla. Chi entra in occidente deve siglare un patto che preveda il dovere di seguire le regole e rispettare la tradizione di chi ti ospita, e una cornice di diritti, tra cui sta la possibilità di praticare pubblicamente il proprio credo religioso. Il resto, l’ha detto anche Vittorio Messori, lo sta già facendo l’individualismo che scioglie i tribalismi e il potere seduttivo nei costumi e nei consumi della nostra società. Più delle crociate, per l’occidentalizzazione dell’Islam possono i supermercati e la paziente pedagogia alla res publica.

CORRIERE della SERA - Ian Buruma: "Europa, la paura dei musulmani nasce da quell’identità che non c’è più"

Ian Buruma ritiene che il referendum sia l'espressione del timore degli svizzeri nei confronti dell'islam e che questo nasca dalla mancanza di identità dell'occidente. Buruma scrive: "L’affrancamento dalla fede e dalla tradizione non ha sempre prodotto maggiore felicità, ma al contrario è stata spesso causa di un diffuso smarrimento, di timori e risentimenti (...) Giustificano l’ostilità verso l’islam affermando di difendere «i valori dell’Illuminismo», mentre in realtà lamentano il crollo di un credo (...) Se le élite sono odiate per aver provocato il malessere moderno, i musulmani sono invidiati perché hanno ancora una fede, sanno chi sono, hanno valori per cui vale la pena morire". Buruma è totalmente fuori strada. Il timore nei confronti dell'islam non deriva da una sorta di "invidia" perchè i musulmani sono riusciti a conservare una fede più salda dei cristiani, ma dalle sue derive integraliste e dal suo innegabile legame con il terrorismo. Il terrorismo rappresenta la minaccia maggiore per le democrazie occidentali ed esso, al giorno d'oggi, è legato quasi esclusivamente all'islam. Ritenere che un referendum contro la costruzione di minareti sia nato dall'assenza di valori del mondo occidentale ha dell'assurdo. L'occidente ha dei valori ben precisi ( democrazia, libertà di espressione, di culto, di parola, di stampa, di opinione,... ) che non sono condivisi dall'islam. Il referendum è stato la risposta degli svizzeri ad Eurabia in arrivo. Ecco l'articolo:

La Svizzera ha quattro moschee con minareto e una popolazione di 350 mila musulmani, per lo più europei provenienti dalla Bosnia e dal Kosovo, di cui il 13% circa si reca regolarmente a pregare. Non lo si sarebbe detto un gran problema. Con un recente referendum, il 57,5% dei votanti svizzeri ha però optato per un divieto costituzionale alla costruzione di minareti, apparentemente per timore del «fondamentalismo» e di una strisciante islamizzazione della Svizzera. Gli svizzeri sono più intolleranti degli altri europei? Probabilmente no. I referendum misurano i sentimenti viscerali della popolazione, piuttosto che opinioni ponderate, e i sentimenti viscerali raramente sono liberali. Se si tenesse un referendum del genere in altri Paesi europei, si avrebbe verosimilmente un risultato simile. Attribuire all’islamofobia la messa al bando dei minareti da parte degli svizzeri (un’idea propugnata dal partito di destra svizzero Svp senza la partecipazione di altre forze politiche) sarebbe probabilmente fuori luogo. Una lunga storia di reciproche ostilità tra cristiani e musulmani e i recenti casi di violenza da parte di islamisti radicali hanno sicuramente creato nei confronti dell’islam una diffusa paura che non c’è, ad esempio, verso l’induismo o il buddismo. E il minareto, che sale verso il cielo come un missile, può facilmente divenire in modo distorto l’immagine di questi timori. Se gli svizzeri e gli altri europei avessero maggiori certezze sulla loro identità, sarebbero ancora così spaventati dai cittadini musulmani? Probabilmente no. È da qui che credo nasca il problema. Fino a non molto tempo fa, la maggioranza dei cittadini del mondo occidentale aveva indiscussi simboli di fede e di identità collettiva. Le guglie delle chiese che ancora abbelliscono molte città europee avevano un preciso significato per la maggior parte della gente, e pochi si sposavano con persone di altra religione. In un recente passato, molti europei credevano ai loro re e regine, sventolavano la bandiera, cantavano l’inno nazionale, apprendevano le vicende eroiche della storia nazionale. Il loro Paese era la loro casa. I viaggi all’estero erano riservati ai marinai, ai soldati, ai ricchi. «L’identità» non era ancora vista come un problema. La globalizzazione, il progetto dell’Europa unita, la sconfitta delle aspirazioni nazionaliste in due catastrofiche guerre mondiali e soprattutto la diffusa perdita del sentimento religioso hanno cambiato le cose. La maggior parte di noi vive oggi in un mondo laico, liberale, disincantato. Gli europei sono ora quasi ovunque più liberi di quanto siano mai stati. Non ci viene più detto da preti o da superiori cosa fare o pensare. E se ancora accade, di solito non ce ne curiamo. Questa recente libertà ha però un prezzo. L’affrancamento dalla fede e dalla tradizione non ha sempre prodotto maggiore felicità, ma al contrario è stata spesso causa di un diffuso smarrimento, di timori e risentimenti. Le espressioni di identità collettiva, pur non essendo del tutto scomparse, sono confinate per lo più agli stadi di calcio, dove si trasformano facilmente in violenza e risentimento. I demagoghi populisti attribuiscono alle élite della politica, della cultura e del commercio la colpa delle tensioni del mondo moderno. Esse sono accusate, non senza qualche ragione, di scaricare sull’uomo comune i problemi causati dall’immigrazione di massa, dalla crisi economica e dalla perdita di identità nazionale. Se le élite sono odiate per aver provocato il malessere moderno, i musulmani sono invidiati perché hanno ancora una fede, sanno chi sono, hanno valori per cui vale la pena morire. Non importa che molti musulmani europei siano disincantati e laici come i loro concittadini non musulmani. Quel che conta è la percezione. Gli svettanti minareti e i volti velati rappresentano minacce perché gettano sale sulla ferita di chi soffre la perdita della sua fede. Non è un caso che il populismo anti musulmano abbia trovato alcuni dei suoi adepti più accaniti tra gli ex militanti della sinistra, perché anche loro hanno perso la fede: nella rivoluzione mondiale o in qualcosa di analogo. Molti di loro, tra l’altro, provenivano da famiglie religiose e hanno quindi subito una doppia perdita. Giustificano l’ostilità verso l’islam affermando di difendere «i valori dell’Illuminismo», mentre in realtà lamentano il crollo di un credo. Non c’è, ahimè, una cura immediata al disagio sociale manifestatosi nel referendum svizzero. Il Papa ha una risposta, ovviamente. Vorrebbe che la gente tornasse tra le braccia della Chiesa. Anche i predicatori evangelici hanno una ricetta per la salvezza, e lo stesso vale per i neo conservatori americani. Essi vedono nel malessere europeo una forma della tipica decadenza del Vecchio mondo, uno stato di nichilismo collettivo dovuto al welfare state e a una passiva dipendenza dalla potenza statunitense. Quel che vogliono è ridare slancio al mondo occidentale, guidato dall’America, per combattere con le armi una crociata per la democrazia. Ma nessuna di queste prospettive sembra promettente, a meno di non essere cattolici, evangelici, o neocon. Il meglio che possiamo sperare è piuttosto che le democrazie liberali escano da questo periodo di malessere, che resistano alle tentazioni demagogiche e riescano a contenere gli impulsi violenti. In passato le democrazie hanno superato crisi ben peggiori. Sarebbe meglio, però, se ci fossero meno referendum, perché, al contrario di quanto solitamente si crede, non rafforzano la democrazia ma la indeboliscono, costringendo chi abbiamo eletto ad assecondare i sentimenti viscerali degli arrabbiati anziché governare in modo assennato.

CORRIERE della SERA - Maria Serena Natale: "Minareti, l’Onu accusa: «Un voto discriminatorio»"

Navi Pillay accusa il referendum svizzero di essere discriminatorio. Curioso che non abbia mosso la stessa critica alla decisione di eliminare i crocifissi dai luoghi pubblici. Non è la stessa cosa? Minareto e crocifisso sono entrambi simboli religiosi. I cattolici sono tali anche se non hanno perennemente un crocifisso davanti agli occhi. Per quale motivo non può valere la stessa cosa per i musulmani? Ma la posizione di Pillay non ci stupisce. E' la stessa che accusa Israele di essere uno Stato di apatheid. Non ci aspettavamo da lei niente di diverso. Nell'articolo vengono riportate anche le dichiarazioni del premier turco, Recep Erdogan: "non si mettono ai voti i diritti e le li­bertà fondamentali". Parole da vero democratico. Vorrà chiarire allora come mai non ha bloccato nel suo Paese i processi a carico dello scrittore Pamuk, colpevole di aver scritto frasi "offensive" nei confronti dell'islam? La libertà di parola non è fondamentale?

Un voto «democratico» ma «chiaramente discrimina­torio». L’Alto commissario dell’Onu per i Diritti Umani Navi Pillay interviene con de­cisione nel dibattito sul refe­rendum che ha vietato la co­struzione di nuovi minareti in Svizzera. Sudafricana, già paladina della lotta all’apar­theid e presidente del Tribu­nale penale internazionale per il Ruanda, il giudice Pil­lay denuncia «senza esitazio­ni le campagne allarmiste e xenofobe» rinvigorite in tut­ta Europa dopo la consulta­zione di domenica. La Confederazione s’inter­roga sui limiti dell’istituto re­ferendario, che da pilastro di un sistema democratico di contropotere si è trasforma­to, denunciano molti com­mentatori, nella cassa di riso­nanza di istinti e paure da te­nere lontano dalla politica. Le destre di Paesi come Dani­marca, Olanda e Francia han­no già annunciato di voler ri­correre al voto popolare per proibire la costruzione di mi­nareti e moschee. «Ma non si mettono ai voti i diritti e le li­bertà fondamentali», ha det­to ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan. Poche ore prima il suo ministro degli Esteri aveva auspicato che il governo svizzero trovasse il modo di «correggere la deci­sione». In Italia l’idea di un re­ferendum sul modello elveti­co piace sempre alla Lega e al ministro dell’Interno Rober­to Maroni, che dichiara: «Non ho obiezioni, il referen­dum è lo strumento principe della sovranità popolare». Il caso svizzero potrebbe arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo: Verdi e organizzazioni umanitarie si richiamano all’articolo 9 del­la Convenzione europea che garantisce «la libertà di mani­festare la propria religione e le proprie convinzioni indivi­dualmente o collettivamen­te, in pubblico o in privato». Dubbi sulla realizzabilità del progetto sono stati però avanzati dallo stesso presi­dente della Corte di Strasbur­go, il giudice Jean-Paul Co­sta: «Si tratta di un caso com­plesso, perché prima biso­gna esaurire i ricorsi interni e in Svizzera non si può ricor­rere contro un voto popola­re» . Da Atene, sede di una riu­nione dell’Organizzazione per la sicurezza e la coopera­zione in Europa, la ministra degli Esteri federale Micheli­ne Calmy-Rey lancia l’allar­me: «Ogni provocazione ri­schia di innescarne un’altra e infiammare l’estremismo. Qualsiasi attacco alla convi­venza di culture e religioni di­verse mette in pericolo la no­stra sicurezza che non è più garantita se non possiamo vi­vere insieme in armonia». In serata un tribunale libi­co ha condannato a sedici mesi di reclusione due uomi­ni d’affari svizzeri trattenuti da oltre un anno per evasio­ne fiscale e irregolarità dei vi­sti. La sentenza potrebbe ag­gravare la crisi diplomatica in corso tra i due Paesi da quando nel luglio 2008 il fi­glio del leader libico Muam­mar Gheddafi fu arrestato a Ginevra con l’accusa di aver aggredito due domestici. Una condanna che molti in Svizzera aspettavano da do­menica sera.

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