domenica 4 ottobre 2009

Libertà di stampa

La faccia tosta di chi mi oscurava di Giampaolo Pansa

Ve lo immaginate Silvio Berlusconi che convoca a Palazzo Chigi l’editore di un grande giornale e comincia a strapazzarlo? E dopo averlo strapazzato, urlando come un ossesso, gli chiede di cacciare il giornalista politico più importante del quotidiano, colpevole di averlo criticato? Io non riesco a immaginarlo. Prima di tutto perché il Cavaliere sarà bollito, però non è fesso. Avrebbe una gran voglia di provarci, ma si rende conto che oggi non si può fare quel che si faceva nei regimi passati. In Italia, nonostante la parata antagonista di Roma sostenga il contrario, la libertà di stampa c’è sempre ed è forte. Alla faccia di chi grida al fascismo in arrivo. Pur sapendo che è soltanto l’invenzione di una sinistra che non sa più a quale santo votarsi. Vediamo che cosa accadde nella Prima Repubblica. Eravamo nel gennaio 1971. Guidava “La Stampa” Alberto Ronchey, un grande giornalista che ho avuto come direttore. Alla fine dell’anno si sarebbe concluso il settennato di Giuseppe Saragat con l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica. Ronchey decise di occuparsene per tempo. E affidò a Vittorio Gorresio un’inchiesta di un’ampiezza e un impegno insoliti per le consuetudini frettolose dei quotidiani. Gorresio, la star della “Stampa” per la politica interna, era un signore di 61 anni, di etnia cuneese, figlio di un generale. Un uomo piccoletto, asciutto, sempre elegante, con i capelli tagliati all’umberta e la erre arrotata. Lui e Ronchey s’intendevano a meraviglia. Erano due laici: Vittorio un liberale e Alberto, 45 anni, un repubblicano. Il progetto di Ronchey prevedeva che Gorresio scrivesse una sessantina di articoli. Un lungo racconto che, partendo dai ritratti dei vecchi presidenti, si doveva concludere con il diario dell’elezione di quello nuovo. L’impresa aveva due scopi. Il primo di creare la versione italiana del libro scritto undici anni prima dall’americano Theodore White, “The making of the President”. Il secondo, come ricorderà Gorresio alla fine del suo lavoro, di «saggiare quale misura di libertà ci sia consentita in Italia nell’esercizio di un mestiere che la Costituzione della Repubblica ci garantisce libero».
Le vite di Fanfani.
Nel cuore dell’estate Gorresio aveva già percorso molta strada. Il 21 luglio 1971 pubblicò sulla terza pagina della “Stampa” un ritratto del candidato numero uno al Quirinale: “Le vite parallele di Fanfani”. Le notizie sul Professore erano le solite. E anche lo stile di Gorresio era quello di sempre: pungente, ma con garbo da gran signore. Tuttavia emerse un problema. Già irritato per gli articoli precedenti, Fanfani s’infuriò.L’incavolatura del Mezzotoscano non si poteva prendere sotto gamba. Infatti si trattava di un democristiano fra i più potenti. Era già stato segretario della Dc, capo di ben quattro governi, presiedeva il Senato e due anni più tardi sarebbe tornato a guidare la Balena Bianca. Per di più, Fanfani aveva preteso di sfogarsi non con Ronchey, bensì con l’editore della “Stampa”, l’avvocato Giovanni Agnelli. Applicando la vecchia regola di Winston Churchill che diceva: «Io non parlo mai con i giornalisti. Parlo soltanto con le proprietà dei giornali». L’incontro avvenne a Palazzo Madama, nell’ufficio di Fanfani. Il match fu burrascoso. Il Professore urlava, l’Avvocato gli replicava. Dallo studio filtravano nel corridoio voci concitate. Qualche anno dopo, mentre preparavo “Comprati e venduti”, un libro sul potere e i giornali negli anni Settanta, chiesi ad Agnelli di narrarmi com’era andata. L’Avvocato mi raccontò: «Non appena misi la testa nel suo studio, Fanfani entrò subito in argomento. Ossia sull’articolo di Gorresio che, disse, l’aveva offeso. Stigmatizzò la mancanza di serietà di certa stampa. Spiegò che il momento era grave: occorreva che politici e industriali si rendessero conto delle funzioni e dei compiti comuni che incombevano su di loro. Poi aggiunse che non si poteva rischiare di compromettere posizioni personali per il divertimento di qualche irresponsabile. Non avevo mai visto Fanfani così irritato, la voce alterata. Restai affascinato dalla sua capacità di dar vita a scenate a freddo». Le «posizioni personali da non compromettere» erano quelle dell’Avvocato come capo della Fiat. L’«irresponsabile» era Gorresio, in combutta con Ronchey. Poteva succedere un patatrac, ma non accadde nulla. Ronchey difese con fermezza l’inchiesta sul Quirinale e ribadì ad Agnelli che Gorresio era il più adatto a scriverla. Poi respinse sdegnato la proposta di allontanare Vittorio, inviandolo a fare il corrispondente negli Stati Uniti. E avvertì la proprietà che la serie dei suoi articoli continuava. Ma Fanfani era un signore che si legava le cose al dito. E ricominciò a prendersela con Gorresio. Lo fece di nuovo in dicembre, durante le votazioni a Camere riunite per il presidente della Repubblica, che poi risulterà Giovanni Leone. Vittorio seguitò a scrivere la sua lunga inchiesta. Poi la pubblicò in un libro per Rizzoli, “Il sesto presidente”, uscito nel febbraio 1972.
La stoffa del direttore. Indro Montanelli lo recensì sul “Corriere della sera”. Scrivendo che Fanfani aveva chiesto ad Agnelli la testa dell’«irresponsabile». Il presidente del Senato smentì con una lettera al direttore del “Corriere”, Giovanni Spadolini: «L’asserzione di Montanelli non ha alcun fondamento. Né in quella occasione né mai, ho chiesto ai direttori e ai proprietari di organi di stampa di prendere misure contro i loro collaboratori che mi avessero criticato». La faccenda finì lì. Quel che rimane sono le righe scritte da Montanelli nel concludere la recensione al libro di Gorresio. A sentire Indro, Ronchey aveva risposto ad Agnelli che l’allontanamento di Gorresio avrebbe provocato le proprie dimissioni. E l’Avvocato si guardò bene dal prendere una decisione tanto pericolosa.Morale della favola? Scrisse Montanelli: «Questo conferma la nostra vecchia opinione: che la prevaricazione vince solo quando trova gente disposta a subirla, e che in Italia di questa gente ce n’è molta». Traduco alla mia maniera: Ronchey era un direttore con le palle, disse no all’Avvocato e a Fanfani, salvando Gorresio e la sua inchiesta sulla battaglia del Quirinale.Ritorniamo ai giorni nostri. E domandiamoci: hanno le palle i direttori dei quotidiani più in vista? Vale a dire Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro, Mario Calabresi, Gianni Riotta, Roberto Napoletano, Pierluigi Visci, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Antonio Polito, Antonio Padellaro, per citare soltanto quelli che lì per lì mi vengono in mente? Io penso di sì. Sono tutti signori che ce le hanno.Come è giusto che sia, non la pensano nella stessa maniera. E spesso si combattono, senza riguardo. Ma la battaglia tra i giornali è un fatto salutare. La libertà di stampa si difende anche così. Con direttori orgogliosi del loro modo di servire i lettori. Il risultato è sotto i nostri occhi: in pochi altri paesi esiste una stampa più libera della nostra. Il fatto che lo dica pure Berlusconi non cancella questa verità.Ma allora a che cosa serve l’adunata di protesta a Roma? Soltanto a dare una boccata d’ossigeno alle tante sinistre che perdono voti e rispetto. Non è un incontro per la libertà dei giornalisti e dei lettori. Infatti è una parata politica di tanti soggetti ai quali non importa nulla dell’autonomia dell’informazione. E si agitano furiosi contro il Caimano nella speranza di non morire. Anche a me il Cavaliere non piace. Lo vedo stressato, con i nervi a fior di pelle, travolto sul piano emotivo. E azzoppato dalla faccenda delle escort. Tanto che gli ho suggerito per due volte di dimettersi. Però mi piace ancora di meno la compagnia che scende in piazza oggi.Posso capire “Repubblica”. Continua a perdere lettori e si aggrappa alla battaglia contro “Papi” per recuperarne qualcuno. Ma gli altri? Vediamo un po’ chi ci sarà questo pomeriggio in piazza del Popolo. Per esempio, l’Arci, parrocchia ricreativa della sinistra più vecchia. Poi l’Anpi, un impasto di ex partigiani rossi e di giovanotti antagonisti. Poi ancora Libertà e Giustizia, girotondini presuntuosi. Quindi, come garantisce “Repubblica”, l’intera babilonia dei partiti e partitini rossi o rosa: il Pd, l’Idv, il Pdci, il Prc, il Partito Socialista, la Sinistra Democratica, Sinistra e Libertà “e Bruno Tabacci dell’Udc”. Infine la Fnsi, il sindacato dei giornalisti.
Il ruolo del sindacato. Ma il vero calibro da novanta sarà la Cgil. Spetterà ai burocrati di Gugliemo Epifani garantire che la protesta sia davvero di massa. Secondo i giornali, porteranno in piazza almeno cinquantamila persone, con pullman, treni e navi. Il fulcro dell’impegno sindacale saranno gli anziani dello Spi, il sindacato pensionati della Cgil.Sono tutte presenze rispettabili. Ma che non hanno niente a che fare con la libertà di stampa. Li conosco, i miei polli. Li ho avuti sempre contro quando ho scritto cose che li infastidivano. Il punto è proprio questo: le tante sinistre, così come le tante destre, detestano i giornali e i giornalisti non allineati. O stai ai loro ordini, oppure sei un nemico della democrazia. Accadeva la stessa cosa ai tempi del vecchio Pci. Le Botteghe Oscure erano implacabili. Se non ti comportavi da compagno di strada, eri un avversario da combattere. Il Pci è morto da un pezzo. Però la sua sostanza cattiva si è trasmessa ai suoi tanti eredi. Gli orfanelli vanno di nuovo in piazza per convincere i giornalisti a scrivere quello che piace a loro e nient’altro. Ma questa, come risulta evidente, non è per nulla la libertà di stampa.

Quelli che... la libertà di stampa vogliono oscurare Minzolini.

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