MILANO - «Cerco un lavoro, posso chiedere a voi?». Si è presentata così a un incontro per le straniere promosso dallo Sportello Donna del Comune di Abbiategrasso un’islamica le cui generalità devono rimanere segrete. Da allora la sua vita è cambiata. Il lavoro non l'ha ancora trovato. Ma ha ottenuto qualcosa di più importante: un posto in una casa famiglia, in una località segreta in Lombardia, dove può riprendere in mano le redini della sua vita. La donna, che ha 33 anni, forse avrebbe fatto la fine di Hina, o di Sanaa, le due giovani assassinate per aver scelto uno stile di vita «troppo occidentale». Anche lei si è sentita dire «Ti ammazzo» dai suoi fratelli e dagli zii che la segregavano in casa e la obbligavano a indossare il «niqab», il velo che lascia scoperto solo gli occhi attraverso una fessura, perfino tra le mura domestiche. Se si ribellava, erano botte. Una vita che lei, cresciuta fino all'adolescenza in una città della Toscana, dove aveva anche frequentato le scuole dell'obbligo, non era più disposta a sopportare. Ha raccontato la verità alle operatrici dello sportello comunale. «Non è vero che cerco lavoro. Sono scappata di casa, ma se mi trovano è finita». Così, in collaborazione con il Comune dove abitava, è partito l'iter che le ha permesso di trovare alloggio in una casa famiglia fuori provincia. «Sta imparando di nuovo a vivere in società - spiegano gli educatori - Per anni le è stato imposto di tenere gli occhi abbassati quando parlava con i capifamiglia o semplicemente altri uomini». Alle operatrici dello sportello donna, ha fatto avere un messaggio: «Ho finalmente trovato qualcuno che mi ha ascoltata. Non sono ancora pronta per trovare un impiego e vivere da sola, ma ce la farò». «Quando si è presentata a quell'incontro, promosso insieme a un consultorio le abbiamo proposto di fare domanda come commessa. Lei invece voleva fare la badante - racconta chi ha raccolto il suo sfogo - Poi mentre parlava, è scoppiata in lacrime». Così, ha raccontato la sua storia. «Per un po' ho lavorato in una mensa. Ora mi costringono a curare i miei nipoti, a indossare il velo in casa e non posso uscire. Ho protestato, mi hanno picchiata e mi hanno detto che mi ammazzano. Ho preso l'autobus e sono scappata». Dal Comune precisano che la donna non viveva a Abbiategrasso, dove, fra l'altro, c'è una comunità islamica che collabora costantemente con il municipio e la parrocchia. «L'episodio in questione è molto grave, ma è importantissimo non fare di tutta l'erba un fascio - sottolinea invece Elena Sachsl, direttore sanitario dell'ambulatorio del «Naga», l'associazione milanese che offre assistenza medica e legale e agli immigrati - la violenza sulle donne non c'entra nulla con la religione. L'islam insegna all'uomo che la donna va protetta e tutelata, anche l'uso del velo nasce in questo senso. Poi ci sono invece gli abusi, come quello in questione. Si tratta però di usanze culturali, e non religiose, e la cultura non si cambia da un giorno all'altro. Inoltre, il clima persecutorio che le famiglie immigrate vivono in questo periodo di certo non aiuta, anzi inasprisce le situazioni già delicate».
Giovanna Maria Fagnani
2 commenti:
è ovvio che sia colpa di noi Italiani razzisti e xenofobi, ignoranti e incapaci di capire l'altrui cultura
Artemisia
Ma che cretina quella tipa, non ha capito un c***o... 'la religione non c'entra', eh già no.
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