Quasi 400 milioni di euro in sei anni, per una media di circa 65 milioni e mezzo ogni dodici mesi: tanto costano complessivamente allo Stato gli speciali programmi di protezione. Misure eccezionali riservate ai collaboratori di giustizia, più noti come “pentiti”, che al 31 dicembre 2008 erano 833, e anche ai loro 3.054 familiari. E poi certo, ai benefìci in questione sono ammessi anche i testimoni considerati a rischio, veri eroi che si presentano in tribunale a deporre nonostante minacce e pericoli, e che però rispetto ai “pentiti” sono molti meno: 73, cui vanno aggiunti 243 congiunti. Ma insomma, senza voler intavolare discussioni sui vantaggi che le rivelazioni di soggetti non proprio trasparenti hanno portato alla lotta contro la criminalità, sono numeri che colpiscono. Vale la pena di capirne.
Parere ministeriale: Anche perché questa storia dei “pentiti” è adesso, come si dice, di stringente attualità. Il riferimento è all’ex killer Spatuzza e alle sue deposizioni, che additano Dell’Utri e Berlusconi come referenti politici di Cosa Nostra. Una prima domanda: ma chi decide che vale la pena di dargli ascolto? Chi delibera che colui che fu mafioso può essere ammesso ai vantaggi riservati a chi contribuisce a svelare verità finora nascoste? Dice: i magistrati. No, non basta. Certo, loro lo interrogano, il “pentito” di turno. Ne raccolgono le rivelazioni, dispongono le verifiche. E poi è logico, forniscono un parere fondamentale: nel caso dei “pentiti” di mafia - perché la legge prevede la possibilità di accedere alla tutela anche per reati eversivi o delitti associativi legati a traffico di stupefacenti e sequestri di persona a scopo d’estorsione - nel caso dei “pentiti” di mafia, dicevamo, la proposta di ammissione al programma di protezione viene inoltrata dalla Direzione Distrettuale Antimafia, con il benestare della Procura Nazionale. Ma, almeno formalmente, non può essere questa la valutazione determinante. Che invece spetta a una Commissione governativa. Una Commissione centrale che dipende dal Viminale, è infatti presieduta dal sottosegretario all’Interno, attualmente Alfredo Mantovano. Oltre a lui, i componenti sono sette: due magistrati e cinque funzionari, questi ultimi in rappresentanza delle diverse forze di Polizia. Quindi uno per i Carabinieri, un altro della Polizia, un altro ancora per la Guardia di Finanza, poi c’è il componente delegato dalla Direzione Investigativa Antimafia e, infine, uno che rappresenta l’ufficio di coordinamento delle forze di Polizia del Viminale stesso. A parte il sottosegretario, l’identità degli altri è sancita da un decreto ministeriale coperto, com’è comprensibile, da riservatezza. La legge stabilisce che le decisioni vadano deliberate a maggioranza, con la prevalenza del voto del presidente in caso di parità. Ma, storicamente, sono sempre state prese all’unanimità. O per lo meno così risulta agli atti.
Le tre fasi: Una disciplina, quella relativa ai “collaboratori di giustizia”, regolata inizialmente da una legge del ’91, poi modificata nel 2001 e integrata nel 2004. Semplificando, l’iter per arrivare ad essere “pentito certificato” attraversa tre stadi. Nell’immediato, dopo che il soggetto dichiara di voler collaborare, vengono disposte misure urgenti, per “mettere in sicurezza” la persona. Che, in pratica, viene subito allontanata fisicamente dal luogo considerato pericoloso, città o carcere che sia. E lo stesso si fa con i parenti. Poi si passa alla seconda fase, quella interlocutoria, con la collaborazione non ancora considerata “consolidata”: vengono appunto decise misure provvisorie, in genere durano sei mesi. Infine, se i presupposti lo consentono, si passa al “programma speciale di protezione” vero e proprio. Concretamente gestito dal Servizio centrale di protezione, che ha il compito di dare fisica esecuzione alle disposizioni della Commissione. Un organismo che s’appoggia su nuclei periferici, cosiddetti Nuclei Operativi di Protezione. E comunque, tornando al “programma”, può prevedere per il “pentito” e i suoi familiari la sistemazione in una località segreta e protetta e l’eventuale pagamento dell’affitto, e poi l’utilizzo di documenti di copertura (n casi estremi persino il cambio d’identità negli stessi archivi anagrafici), e naturalmente l’assistenza personale e medica, i trasferimenti, i supporti logistici. E un assegno di mantenimento, nel caso risulti impossibile lavorare, parametrato all’assegno sociale: si parla dunque di circa 900 euro mensili. Somma che, per i testimoni, è aumentata del 50 per cento. Accennavamo all’inizio ai numeri della questione. Per quanto riguarda la criminalità organizzata, la maggior quantità di “collaboratori” s’è riscontrata intorno alla metà degli anni Novanta. Quando, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, le istituzioni decisero di reagire. Nel ’96, fra “pentiti” e relativi congiunti, le persone sotto protezione erano addirittura 7.061. Il livello si è mantenuto alto, pur diminuendo. Anche se nel 2008, ultimo anno di cui sono disponibili dati definitivi, il numero di “collaboranti” ammessi alla tutela statale è salito di 42 unità rispetto al 2007. Un’ultima cosa: alla cessazione del programma di protezione, c’è la cosiddetta capitalizzazione: trattasi del versamento di una somma di denaro che deve servire al reinserimento, sociale e lavorativo, del collaboratore di giustizia.
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