Il percorso intrapreso da Gianfranco Fini ha una sola spiegazione razionale. Quella che ieri Francesco Cossiga riassumeva così: «Porre fin d’ora la sua candidatura alla presidenza di un governo istituzionale che segua ad un impedimento di Berlusconi a continuare a esercitare il suo mandato». L’alternativa, ovvero che Fini stia pensando al Quirinale, se e quando si giocherà la partita per la presidenza della Repubblica, sposta i tempi e l’obiettivo, ma non cambia di molto i termini della faccenda: Fini - non da oggi - lavora per diventare il leader di uno schieramento moderato molto diverso da quello berlusconiano, e si muove con il passo di chi vuole diventare il garante della transizione verso quello che a sinistra chiamano «un paese normale». Che poi - stringi stringi - altro non sarebbe che un’Italia senza il Cavaliere. L’abbraccio e le lacrime con Silvio Berlusconi all’ospedale San Raffaele, insomma, non sembrano avere cambiato i termini della vicenda: quell’istante di empatia ha reso un po’ più distesi i rapporti umani tra i due leader, ma non ha accorciato la distanza politica che li separa. Anche ieri, Fini ha fatto altri passi: ha invocato per il 2010 un’Italia diversa, nella quale le istituzioni collaborino tra loro (lasciando sottinteso che con Berlusconi questo non è avvenuto), è tornato a battere sul tasto di una nuova legge per l’immigrazione, sgradita al novanta per cento del PdL, e ha provato a usare la leva dell’ironia inviando in regalo al direttore del Giornale, Vittorio Feltri, una confezione di Valium «per festività serene, senza ossessioni e allucinazioni», come si legge nel suo bigliettino. Feltri gli ha risposto donandogli un vino bianco, «perché il rosso gli annebbia le idee». L’ironia di Fini, in realtà, è solo apparente. Anche perché i suoi, da giorni, diffondono la notizia - molto interessata, ma tutta da verificare - che Fini sarebbe riuscito ad ottenere da Berlusconi un mezzo impegno sulla rimozione di Feltri. E spiegano che, se questo non avvenisse, certe ferite non potrebbero rimarginarsi. Pochi giorni fa i parlamentari finiani hanno anche provato a contarsi per capire se erano abbastanza da mettere in piedi gruppi autonomi: sarebbe stata la rottura ufficiale. Lo strappo non si è compiuto solo perché, fatta la conta, i numeri apparivano risibili e perché tutti gli uomini di An hanno dato a Fini il mandato per rappresentarli. A patto, s’intende, che non provasse più a fare altri strappi dalla linea del partito: in quel caso, solo pochi di loro lo avrebbero seguito. Fini, in sostanza, è stato trattenuto a forza dentro il PdL, ma è chiaro che si tratta di una soluzione di corto respiro: i problemi restano tutti. Presto lui e Berlusconi si incontreranno ad Arcore. Più che un riavvicinamento tra i due, però, è auspicabile che si faccia chiarezza, ovunque questa possa portare. Un’intesa limpida e duratura sarebbe la soluzione auspicabile. Ma se, come sembra, non ce ne sono le condizioni, è molto meglio una separazione senza equivoci che una convivenza malvissuta come quella cui si è assistito negli ultimi mesi. È più che legittimo che un leader come lui, alla soglia dei 58 anni, aspiri a succedere a Berlusconi. Se è così, però, è venuto il momento di dirlo e di spiegare come intende raggiungere l’obiettivo. Quando Francesco Rutelli gli chiede se «pensa di continuare a lungo a essere una delle più amate icone della sinistra e puntare a ereditare la guida del centrodestra» gli pone la domanda che si fanno tutti. Perché Fini sta dando l’impressione di voler rimandare la resa dei conti a un momento in cui il PdL, il governo e lo stesso Berlusconi saranno - anche a causa sua - molto più logorati di adesso. E puntare allo sfaldamento del proprio partito per raccoglierne i cocci non sarebbe gesto degno del co-fondatore del PdL. Se non è questo ciò che ha in mente, il presidente della Camera deve comunque dire adesso cosa vuole fare da grande, perché la sua inquietudine è evidente. Serve un gesto di chiarezza: Fini lo deve sia agli elettori del PdL che a chi lo guarda come un possibile alleato. Last but not least, lo deve anche a se stesso e alla sua storia.
domenica 20 dicembre 2009
Gianfranco Fini
Se Fini scommette sul logoramento del PdL di Fausto Carioti
Il percorso intrapreso da Gianfranco Fini ha una sola spiegazione razionale. Quella che ieri Francesco Cossiga riassumeva così: «Porre fin d’ora la sua candidatura alla presidenza di un governo istituzionale che segua ad un impedimento di Berlusconi a continuare a esercitare il suo mandato». L’alternativa, ovvero che Fini stia pensando al Quirinale, se e quando si giocherà la partita per la presidenza della Repubblica, sposta i tempi e l’obiettivo, ma non cambia di molto i termini della faccenda: Fini - non da oggi - lavora per diventare il leader di uno schieramento moderato molto diverso da quello berlusconiano, e si muove con il passo di chi vuole diventare il garante della transizione verso quello che a sinistra chiamano «un paese normale». Che poi - stringi stringi - altro non sarebbe che un’Italia senza il Cavaliere. L’abbraccio e le lacrime con Silvio Berlusconi all’ospedale San Raffaele, insomma, non sembrano avere cambiato i termini della vicenda: quell’istante di empatia ha reso un po’ più distesi i rapporti umani tra i due leader, ma non ha accorciato la distanza politica che li separa. Anche ieri, Fini ha fatto altri passi: ha invocato per il 2010 un’Italia diversa, nella quale le istituzioni collaborino tra loro (lasciando sottinteso che con Berlusconi questo non è avvenuto), è tornato a battere sul tasto di una nuova legge per l’immigrazione, sgradita al novanta per cento del PdL, e ha provato a usare la leva dell’ironia inviando in regalo al direttore del Giornale, Vittorio Feltri, una confezione di Valium «per festività serene, senza ossessioni e allucinazioni», come si legge nel suo bigliettino. Feltri gli ha risposto donandogli un vino bianco, «perché il rosso gli annebbia le idee». L’ironia di Fini, in realtà, è solo apparente. Anche perché i suoi, da giorni, diffondono la notizia - molto interessata, ma tutta da verificare - che Fini sarebbe riuscito ad ottenere da Berlusconi un mezzo impegno sulla rimozione di Feltri. E spiegano che, se questo non avvenisse, certe ferite non potrebbero rimarginarsi. Pochi giorni fa i parlamentari finiani hanno anche provato a contarsi per capire se erano abbastanza da mettere in piedi gruppi autonomi: sarebbe stata la rottura ufficiale. Lo strappo non si è compiuto solo perché, fatta la conta, i numeri apparivano risibili e perché tutti gli uomini di An hanno dato a Fini il mandato per rappresentarli. A patto, s’intende, che non provasse più a fare altri strappi dalla linea del partito: in quel caso, solo pochi di loro lo avrebbero seguito. Fini, in sostanza, è stato trattenuto a forza dentro il PdL, ma è chiaro che si tratta di una soluzione di corto respiro: i problemi restano tutti. Presto lui e Berlusconi si incontreranno ad Arcore. Più che un riavvicinamento tra i due, però, è auspicabile che si faccia chiarezza, ovunque questa possa portare. Un’intesa limpida e duratura sarebbe la soluzione auspicabile. Ma se, come sembra, non ce ne sono le condizioni, è molto meglio una separazione senza equivoci che una convivenza malvissuta come quella cui si è assistito negli ultimi mesi. È più che legittimo che un leader come lui, alla soglia dei 58 anni, aspiri a succedere a Berlusconi. Se è così, però, è venuto il momento di dirlo e di spiegare come intende raggiungere l’obiettivo. Quando Francesco Rutelli gli chiede se «pensa di continuare a lungo a essere una delle più amate icone della sinistra e puntare a ereditare la guida del centrodestra» gli pone la domanda che si fanno tutti. Perché Fini sta dando l’impressione di voler rimandare la resa dei conti a un momento in cui il PdL, il governo e lo stesso Berlusconi saranno - anche a causa sua - molto più logorati di adesso. E puntare allo sfaldamento del proprio partito per raccoglierne i cocci non sarebbe gesto degno del co-fondatore del PdL. Se non è questo ciò che ha in mente, il presidente della Camera deve comunque dire adesso cosa vuole fare da grande, perché la sua inquietudine è evidente. Serve un gesto di chiarezza: Fini lo deve sia agli elettori del PdL che a chi lo guarda come un possibile alleato. Last but not least, lo deve anche a se stesso e alla sua storia.
Il percorso intrapreso da Gianfranco Fini ha una sola spiegazione razionale. Quella che ieri Francesco Cossiga riassumeva così: «Porre fin d’ora la sua candidatura alla presidenza di un governo istituzionale che segua ad un impedimento di Berlusconi a continuare a esercitare il suo mandato». L’alternativa, ovvero che Fini stia pensando al Quirinale, se e quando si giocherà la partita per la presidenza della Repubblica, sposta i tempi e l’obiettivo, ma non cambia di molto i termini della faccenda: Fini - non da oggi - lavora per diventare il leader di uno schieramento moderato molto diverso da quello berlusconiano, e si muove con il passo di chi vuole diventare il garante della transizione verso quello che a sinistra chiamano «un paese normale». Che poi - stringi stringi - altro non sarebbe che un’Italia senza il Cavaliere. L’abbraccio e le lacrime con Silvio Berlusconi all’ospedale San Raffaele, insomma, non sembrano avere cambiato i termini della vicenda: quell’istante di empatia ha reso un po’ più distesi i rapporti umani tra i due leader, ma non ha accorciato la distanza politica che li separa. Anche ieri, Fini ha fatto altri passi: ha invocato per il 2010 un’Italia diversa, nella quale le istituzioni collaborino tra loro (lasciando sottinteso che con Berlusconi questo non è avvenuto), è tornato a battere sul tasto di una nuova legge per l’immigrazione, sgradita al novanta per cento del PdL, e ha provato a usare la leva dell’ironia inviando in regalo al direttore del Giornale, Vittorio Feltri, una confezione di Valium «per festività serene, senza ossessioni e allucinazioni», come si legge nel suo bigliettino. Feltri gli ha risposto donandogli un vino bianco, «perché il rosso gli annebbia le idee». L’ironia di Fini, in realtà, è solo apparente. Anche perché i suoi, da giorni, diffondono la notizia - molto interessata, ma tutta da verificare - che Fini sarebbe riuscito ad ottenere da Berlusconi un mezzo impegno sulla rimozione di Feltri. E spiegano che, se questo non avvenisse, certe ferite non potrebbero rimarginarsi. Pochi giorni fa i parlamentari finiani hanno anche provato a contarsi per capire se erano abbastanza da mettere in piedi gruppi autonomi: sarebbe stata la rottura ufficiale. Lo strappo non si è compiuto solo perché, fatta la conta, i numeri apparivano risibili e perché tutti gli uomini di An hanno dato a Fini il mandato per rappresentarli. A patto, s’intende, che non provasse più a fare altri strappi dalla linea del partito: in quel caso, solo pochi di loro lo avrebbero seguito. Fini, in sostanza, è stato trattenuto a forza dentro il PdL, ma è chiaro che si tratta di una soluzione di corto respiro: i problemi restano tutti. Presto lui e Berlusconi si incontreranno ad Arcore. Più che un riavvicinamento tra i due, però, è auspicabile che si faccia chiarezza, ovunque questa possa portare. Un’intesa limpida e duratura sarebbe la soluzione auspicabile. Ma se, come sembra, non ce ne sono le condizioni, è molto meglio una separazione senza equivoci che una convivenza malvissuta come quella cui si è assistito negli ultimi mesi. È più che legittimo che un leader come lui, alla soglia dei 58 anni, aspiri a succedere a Berlusconi. Se è così, però, è venuto il momento di dirlo e di spiegare come intende raggiungere l’obiettivo. Quando Francesco Rutelli gli chiede se «pensa di continuare a lungo a essere una delle più amate icone della sinistra e puntare a ereditare la guida del centrodestra» gli pone la domanda che si fanno tutti. Perché Fini sta dando l’impressione di voler rimandare la resa dei conti a un momento in cui il PdL, il governo e lo stesso Berlusconi saranno - anche a causa sua - molto più logorati di adesso. E puntare allo sfaldamento del proprio partito per raccoglierne i cocci non sarebbe gesto degno del co-fondatore del PdL. Se non è questo ciò che ha in mente, il presidente della Camera deve comunque dire adesso cosa vuole fare da grande, perché la sua inquietudine è evidente. Serve un gesto di chiarezza: Fini lo deve sia agli elettori del PdL che a chi lo guarda come un possibile alleato. Last but not least, lo deve anche a se stesso e alla sua storia.
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2 commenti:
Mettiamo pure che Fini riuscisse, con gli intrighi di palazzo, a diventare il "leader" di una formazione "moderata" diversa da quella di Berlusconi e che, quindi, sposasse le cause della sinistra che portano l'Italia al degrado (immigrazione, omosessualità, fine vita, giustizia) tutte affrontate in modo totalmente difforme dai desiderata degli elettori del Centro Destra. Ma perchè un elettore del Centro Destra dovrebbe mai votarlo ?
Infatti, perchè? In teoria non dovrebbe votarlo, in pratica... bhe, si spera che gli elettori dell'ormai defunto An ci pensino bene e diano il loro voto ad altri.
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