Mai come in questo caso verrebbe da dire, naturalmente in maniera paradossale, benedetta crisi economica! Se venerdì 2 ottobre, come tutti i sondaggi confermano, la maggioranza degli irlandesi voterà «sì» al referendum di ratifica al Trattato di Lisbona, una ragione determinante sarà proprio da individuare nella reazione popolare alla crisi finanziaria ed economica esplosa nell’autunno scorso. La «tigre celtica» ha smesso di ruggire e la sua popolazione si è improvvisamente scoperta filo-europeista. Secondo gli ultimi due sondaggi disponibili, pubblicati rispettivamente dal «Sunday Indipendent» e dal «Sunday Business Post», dovrebbero votare «sì» tra il 68 e il 55% dei cittadini. Ma soprattutto a rassicurare è il basso numero degli indecisi, tra il 15 e il 18%, mentre nella settimana precedente al voto del giugno 2008 fu proprio tra la nutrita truppa di indecisi che pescò la propaganda del «no». Dunque ben più delle parole elogiative nei confronti della Ue pronunciate dallo sfiduciato Primo ministro Brian Cowen (all’11% del gradimento, giudicato scarsamente affidabile e tardivo nel far fronte alla crisi d’autunno 2008), il senso di questa seconda campagna referendaria sul Trattato di Lisbona ben si coglie nelle parole del patron di Ryanair, Michael O’Leary: «l’Irlanda è un Paese sull’orlo del fallimento e la Bce, che ha iniettato 120 miliardi di euro nel suo sistema bancario, è tutto ciò che ci ha impedito di ripiombare nella miseria». In realtà la chiave della crisi economica (con l’immagine della bancarotta islandese a ricordare cosa sarebbe potuto accadere se Dublino si fosse trovata fuori dalla Ue e dall’eurozona) è certamente utile per comprendere le nuove intenzioni di voto della maggioranza dei cittadini irlandesi dopo il secco «no» di sedici mesi fa. Non bisogna però fermarsi a questo dato se si vuole avere il quadro completo della situazione. L’altra questione determinante riguarda la serie, abbastanza impressionante, di garanzie e deroghe, ottenute dal governo irlandese prima di accettare l’ipotesi di convocare un nuovo referendum. Magari il 3 ottobre prossimo, anche legittimamente, si potrà esultare e tirare un sospiro di sollievo perché il processo di revisione delle istituzioni avrà superato il complicato ostacolo irlandese. Ma a quale prezzo? Ebbene il prezzo è quello di muoversi sempre di più verso un’idea di «Europa à la carte», dove ognuno si ritaglia il suo modello di integrazione in base alle proprie specificità e alle proprie esigenze di politica interna. Guardare a Dublino è da questo punto di vista particolarmente interessante. Cowen, in occasione del Consiglio europeo di dicembre 2008, ha infatti ottenuto che venissero garantite alcune «specificità celtiche», in particolare che non si potesse modificare a livello europeo la restrittiva legge irlandese sull’aborto (che peraltro poco ha a che fare con il Trattato di Lisbona), che si mantenesse il principio della neutralità militare irlandese e che si garantissero le basse aliquote di imposizione fiscale alla base della grande crescita irlandese dell’ultimo quindicennio. Accanto a queste tre garanzie non si deve poi dimenticare quello che può davvero essere definito il «ricatto massimo». Dublino ha promesso il bis referendario (come peraltro già avvenuto per il Trattato di Nizza nel 2001-2002) solo in cambio dell’assicurazione di veder mantenuto il suo posto da commissario, scardinando così uno dei punti chiave del Trattato di Lisbona che in origine prevedeva la progressiva riduzione dei membri della Commissione fino a portarli ai due terzi del numero dei Paesi membri. Insomma al di là, e forse oltre, al semplice esito del referendum irlandese (peraltro Dublino è l’unico Paese membro ad avere l’obbligo costituzionale di sottoporre a ratifica referendaria ogni variazione istituzionale europea) l’occasione è di quelle propizie per guardare all’intero percorso istituzionale così come avviato dopo Laeken nel 2001. Come non notare il progressivo svuotamento di significato, di efficacia e di coerenza del progetto costituzionale che dal Trattato costituzionale del 2004 giunge oggi al ben più modesto Trattato di Lisbona, dopo una serie impressionante di bocciature referendarie e mediazioni a livello di Capi di Stato e di governo. Dopo il crollo del Muro di Berlino, la costruzione europea ha terminato la sua più importante e storica missione: contribuire, sotto l’ombrello di difesa americano, alla diffusione di benessere e democrazia e giungere a quella riunificazione tra la sua componente occidentale e quella orientale, strumentalmente divise dalla logica di Guerra Fredda. Da quel momento in poi si è marciato a vista, senza più proporre una missione, ma nemmeno degli obiettivi chiari da raggiungere gradualmente. Per descrivere il livello di autoreferenzialità e di distacco dal reale al quale sembra sempre più spesso giungere l’Ue basti pensare che, riflettendo sulla probabile ratifica irlandese (a quel punto mancheranno solo le controfirme dei presidenti della Repubblica polacco e ceco) e sulle nuove nomine previste dal Trattato di Lisbona, per l’importante poltrona di Alto Rappresentante per la politica estera si è fatto il nome dell’ex Ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Probabilmente si tratta di rumors, ma anche soltanto ventilare l’ipotesi che un leader nazionale così indebolito dalla recente debacle elettorale, membro di un partito che ha ottenuto il peggior risultato della sua storia, possa essere scelto soltanto perché la Germania è sottorappresentata nelle istituzioni europee, qualche dubbio, penso legittimo, sulla coerenza del progetto comunitario è legittimo che sorga. Infine, a testimonianza che il cammino tormentato del Trattato di Lisbona appare sempre più come una mission impossible, si aggiungono le dichiarazioni del Presidente ceco Klaus. Da Praga hanno fatto sapere che le intenzioni sarebbero quelle di ritardare la controfirma per attendere la probabile vittoria dei conservatori britannici alle elezioni di giugno 2010 e la convocazione (come promesso da Cameron) di un referendum sul Trattato di Lisbona, che non gode di grande sostegno in terra d’Albione. Nel momento in cui su clima, immigrazione, lotta al terrorismo e crisi economico-finanziaria servirebbe una risposta coerente e salda dell’Ue la notizia davvero preoccupante è questa: dopo Dublino quasi certamente continuerà il «calvario istituzionale» dell’Unione. Al peggio non esiste limite?
venerdì 2 ottobre 2009
Irlanda
Referendum a Dublino. La "Tigre celtica" non ruggisce più e l'Irlanda rivota per entrare in Europa di Michele Marchi
Mai come in questo caso verrebbe da dire, naturalmente in maniera paradossale, benedetta crisi economica! Se venerdì 2 ottobre, come tutti i sondaggi confermano, la maggioranza degli irlandesi voterà «sì» al referendum di ratifica al Trattato di Lisbona, una ragione determinante sarà proprio da individuare nella reazione popolare alla crisi finanziaria ed economica esplosa nell’autunno scorso. La «tigre celtica» ha smesso di ruggire e la sua popolazione si è improvvisamente scoperta filo-europeista. Secondo gli ultimi due sondaggi disponibili, pubblicati rispettivamente dal «Sunday Indipendent» e dal «Sunday Business Post», dovrebbero votare «sì» tra il 68 e il 55% dei cittadini. Ma soprattutto a rassicurare è il basso numero degli indecisi, tra il 15 e il 18%, mentre nella settimana precedente al voto del giugno 2008 fu proprio tra la nutrita truppa di indecisi che pescò la propaganda del «no». Dunque ben più delle parole elogiative nei confronti della Ue pronunciate dallo sfiduciato Primo ministro Brian Cowen (all’11% del gradimento, giudicato scarsamente affidabile e tardivo nel far fronte alla crisi d’autunno 2008), il senso di questa seconda campagna referendaria sul Trattato di Lisbona ben si coglie nelle parole del patron di Ryanair, Michael O’Leary: «l’Irlanda è un Paese sull’orlo del fallimento e la Bce, che ha iniettato 120 miliardi di euro nel suo sistema bancario, è tutto ciò che ci ha impedito di ripiombare nella miseria». In realtà la chiave della crisi economica (con l’immagine della bancarotta islandese a ricordare cosa sarebbe potuto accadere se Dublino si fosse trovata fuori dalla Ue e dall’eurozona) è certamente utile per comprendere le nuove intenzioni di voto della maggioranza dei cittadini irlandesi dopo il secco «no» di sedici mesi fa. Non bisogna però fermarsi a questo dato se si vuole avere il quadro completo della situazione. L’altra questione determinante riguarda la serie, abbastanza impressionante, di garanzie e deroghe, ottenute dal governo irlandese prima di accettare l’ipotesi di convocare un nuovo referendum. Magari il 3 ottobre prossimo, anche legittimamente, si potrà esultare e tirare un sospiro di sollievo perché il processo di revisione delle istituzioni avrà superato il complicato ostacolo irlandese. Ma a quale prezzo? Ebbene il prezzo è quello di muoversi sempre di più verso un’idea di «Europa à la carte», dove ognuno si ritaglia il suo modello di integrazione in base alle proprie specificità e alle proprie esigenze di politica interna. Guardare a Dublino è da questo punto di vista particolarmente interessante. Cowen, in occasione del Consiglio europeo di dicembre 2008, ha infatti ottenuto che venissero garantite alcune «specificità celtiche», in particolare che non si potesse modificare a livello europeo la restrittiva legge irlandese sull’aborto (che peraltro poco ha a che fare con il Trattato di Lisbona), che si mantenesse il principio della neutralità militare irlandese e che si garantissero le basse aliquote di imposizione fiscale alla base della grande crescita irlandese dell’ultimo quindicennio. Accanto a queste tre garanzie non si deve poi dimenticare quello che può davvero essere definito il «ricatto massimo». Dublino ha promesso il bis referendario (come peraltro già avvenuto per il Trattato di Nizza nel 2001-2002) solo in cambio dell’assicurazione di veder mantenuto il suo posto da commissario, scardinando così uno dei punti chiave del Trattato di Lisbona che in origine prevedeva la progressiva riduzione dei membri della Commissione fino a portarli ai due terzi del numero dei Paesi membri. Insomma al di là, e forse oltre, al semplice esito del referendum irlandese (peraltro Dublino è l’unico Paese membro ad avere l’obbligo costituzionale di sottoporre a ratifica referendaria ogni variazione istituzionale europea) l’occasione è di quelle propizie per guardare all’intero percorso istituzionale così come avviato dopo Laeken nel 2001. Come non notare il progressivo svuotamento di significato, di efficacia e di coerenza del progetto costituzionale che dal Trattato costituzionale del 2004 giunge oggi al ben più modesto Trattato di Lisbona, dopo una serie impressionante di bocciature referendarie e mediazioni a livello di Capi di Stato e di governo. Dopo il crollo del Muro di Berlino, la costruzione europea ha terminato la sua più importante e storica missione: contribuire, sotto l’ombrello di difesa americano, alla diffusione di benessere e democrazia e giungere a quella riunificazione tra la sua componente occidentale e quella orientale, strumentalmente divise dalla logica di Guerra Fredda. Da quel momento in poi si è marciato a vista, senza più proporre una missione, ma nemmeno degli obiettivi chiari da raggiungere gradualmente. Per descrivere il livello di autoreferenzialità e di distacco dal reale al quale sembra sempre più spesso giungere l’Ue basti pensare che, riflettendo sulla probabile ratifica irlandese (a quel punto mancheranno solo le controfirme dei presidenti della Repubblica polacco e ceco) e sulle nuove nomine previste dal Trattato di Lisbona, per l’importante poltrona di Alto Rappresentante per la politica estera si è fatto il nome dell’ex Ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Probabilmente si tratta di rumors, ma anche soltanto ventilare l’ipotesi che un leader nazionale così indebolito dalla recente debacle elettorale, membro di un partito che ha ottenuto il peggior risultato della sua storia, possa essere scelto soltanto perché la Germania è sottorappresentata nelle istituzioni europee, qualche dubbio, penso legittimo, sulla coerenza del progetto comunitario è legittimo che sorga. Infine, a testimonianza che il cammino tormentato del Trattato di Lisbona appare sempre più come una mission impossible, si aggiungono le dichiarazioni del Presidente ceco Klaus. Da Praga hanno fatto sapere che le intenzioni sarebbero quelle di ritardare la controfirma per attendere la probabile vittoria dei conservatori britannici alle elezioni di giugno 2010 e la convocazione (come promesso da Cameron) di un referendum sul Trattato di Lisbona, che non gode di grande sostegno in terra d’Albione. Nel momento in cui su clima, immigrazione, lotta al terrorismo e crisi economico-finanziaria servirebbe una risposta coerente e salda dell’Ue la notizia davvero preoccupante è questa: dopo Dublino quasi certamente continuerà il «calvario istituzionale» dell’Unione. Al peggio non esiste limite?
Mai come in questo caso verrebbe da dire, naturalmente in maniera paradossale, benedetta crisi economica! Se venerdì 2 ottobre, come tutti i sondaggi confermano, la maggioranza degli irlandesi voterà «sì» al referendum di ratifica al Trattato di Lisbona, una ragione determinante sarà proprio da individuare nella reazione popolare alla crisi finanziaria ed economica esplosa nell’autunno scorso. La «tigre celtica» ha smesso di ruggire e la sua popolazione si è improvvisamente scoperta filo-europeista. Secondo gli ultimi due sondaggi disponibili, pubblicati rispettivamente dal «Sunday Indipendent» e dal «Sunday Business Post», dovrebbero votare «sì» tra il 68 e il 55% dei cittadini. Ma soprattutto a rassicurare è il basso numero degli indecisi, tra il 15 e il 18%, mentre nella settimana precedente al voto del giugno 2008 fu proprio tra la nutrita truppa di indecisi che pescò la propaganda del «no». Dunque ben più delle parole elogiative nei confronti della Ue pronunciate dallo sfiduciato Primo ministro Brian Cowen (all’11% del gradimento, giudicato scarsamente affidabile e tardivo nel far fronte alla crisi d’autunno 2008), il senso di questa seconda campagna referendaria sul Trattato di Lisbona ben si coglie nelle parole del patron di Ryanair, Michael O’Leary: «l’Irlanda è un Paese sull’orlo del fallimento e la Bce, che ha iniettato 120 miliardi di euro nel suo sistema bancario, è tutto ciò che ci ha impedito di ripiombare nella miseria». In realtà la chiave della crisi economica (con l’immagine della bancarotta islandese a ricordare cosa sarebbe potuto accadere se Dublino si fosse trovata fuori dalla Ue e dall’eurozona) è certamente utile per comprendere le nuove intenzioni di voto della maggioranza dei cittadini irlandesi dopo il secco «no» di sedici mesi fa. Non bisogna però fermarsi a questo dato se si vuole avere il quadro completo della situazione. L’altra questione determinante riguarda la serie, abbastanza impressionante, di garanzie e deroghe, ottenute dal governo irlandese prima di accettare l’ipotesi di convocare un nuovo referendum. Magari il 3 ottobre prossimo, anche legittimamente, si potrà esultare e tirare un sospiro di sollievo perché il processo di revisione delle istituzioni avrà superato il complicato ostacolo irlandese. Ma a quale prezzo? Ebbene il prezzo è quello di muoversi sempre di più verso un’idea di «Europa à la carte», dove ognuno si ritaglia il suo modello di integrazione in base alle proprie specificità e alle proprie esigenze di politica interna. Guardare a Dublino è da questo punto di vista particolarmente interessante. Cowen, in occasione del Consiglio europeo di dicembre 2008, ha infatti ottenuto che venissero garantite alcune «specificità celtiche», in particolare che non si potesse modificare a livello europeo la restrittiva legge irlandese sull’aborto (che peraltro poco ha a che fare con il Trattato di Lisbona), che si mantenesse il principio della neutralità militare irlandese e che si garantissero le basse aliquote di imposizione fiscale alla base della grande crescita irlandese dell’ultimo quindicennio. Accanto a queste tre garanzie non si deve poi dimenticare quello che può davvero essere definito il «ricatto massimo». Dublino ha promesso il bis referendario (come peraltro già avvenuto per il Trattato di Nizza nel 2001-2002) solo in cambio dell’assicurazione di veder mantenuto il suo posto da commissario, scardinando così uno dei punti chiave del Trattato di Lisbona che in origine prevedeva la progressiva riduzione dei membri della Commissione fino a portarli ai due terzi del numero dei Paesi membri. Insomma al di là, e forse oltre, al semplice esito del referendum irlandese (peraltro Dublino è l’unico Paese membro ad avere l’obbligo costituzionale di sottoporre a ratifica referendaria ogni variazione istituzionale europea) l’occasione è di quelle propizie per guardare all’intero percorso istituzionale così come avviato dopo Laeken nel 2001. Come non notare il progressivo svuotamento di significato, di efficacia e di coerenza del progetto costituzionale che dal Trattato costituzionale del 2004 giunge oggi al ben più modesto Trattato di Lisbona, dopo una serie impressionante di bocciature referendarie e mediazioni a livello di Capi di Stato e di governo. Dopo il crollo del Muro di Berlino, la costruzione europea ha terminato la sua più importante e storica missione: contribuire, sotto l’ombrello di difesa americano, alla diffusione di benessere e democrazia e giungere a quella riunificazione tra la sua componente occidentale e quella orientale, strumentalmente divise dalla logica di Guerra Fredda. Da quel momento in poi si è marciato a vista, senza più proporre una missione, ma nemmeno degli obiettivi chiari da raggiungere gradualmente. Per descrivere il livello di autoreferenzialità e di distacco dal reale al quale sembra sempre più spesso giungere l’Ue basti pensare che, riflettendo sulla probabile ratifica irlandese (a quel punto mancheranno solo le controfirme dei presidenti della Repubblica polacco e ceco) e sulle nuove nomine previste dal Trattato di Lisbona, per l’importante poltrona di Alto Rappresentante per la politica estera si è fatto il nome dell’ex Ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Probabilmente si tratta di rumors, ma anche soltanto ventilare l’ipotesi che un leader nazionale così indebolito dalla recente debacle elettorale, membro di un partito che ha ottenuto il peggior risultato della sua storia, possa essere scelto soltanto perché la Germania è sottorappresentata nelle istituzioni europee, qualche dubbio, penso legittimo, sulla coerenza del progetto comunitario è legittimo che sorga. Infine, a testimonianza che il cammino tormentato del Trattato di Lisbona appare sempre più come una mission impossible, si aggiungono le dichiarazioni del Presidente ceco Klaus. Da Praga hanno fatto sapere che le intenzioni sarebbero quelle di ritardare la controfirma per attendere la probabile vittoria dei conservatori britannici alle elezioni di giugno 2010 e la convocazione (come promesso da Cameron) di un referendum sul Trattato di Lisbona, che non gode di grande sostegno in terra d’Albione. Nel momento in cui su clima, immigrazione, lotta al terrorismo e crisi economico-finanziaria servirebbe una risposta coerente e salda dell’Ue la notizia davvero preoccupante è questa: dopo Dublino quasi certamente continuerà il «calvario istituzionale» dell’Unione. Al peggio non esiste limite?
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