Era un «sì» atteso e praticamente indotto dopo le note concessioni ottenute dal governo di Dublino, in particolare quella relativa al mantenimento del proprio commissario europeo. Era un «replay», come già accaduto a Dublino per il Trattato di Nizza, quando gli irlandesi furono chiamati una seconda volta alle urne dopo un primo secco «no». Infine si tratta di un voto sul quale pesa quel meno 9% di crescita di quella che ad oggi appare la ex-tigre celtica. La «sindrome islandese» ha pesato non poco nell’urna referendaria. Dunque scongiurato il «no», che avrebbe definitivamente archiviato il già malconcio Trattato di Lisbona, è tempo di fare qualche riflessione sul futuro dell’Ue, proprio alla luce del voto irlandese, per sottolinearne il carattere necessario ma non sufficiente. Innanzitutto è necessario riflettere sull’utilizzo del referendum per le ratifiche nazionali dei trattati europei. Francia e Olanda lo avevano clamorosamente evidenziato nel 2005, in parte qualche segnale era giunto anche dal referendum spagnolo dello stesso anno con la partecipazione ferma al 42% e oggi da Dublino arriva la clamorosa conferma. Che senso ha votare su un testo complesso e scarsamente conosciuto per via referendaria? Gli esiti sono oramai quasi scontati. O il referendum si trasforma nel catalizzatore degli umori in quel momento dominanti all’interno del singolo Stato nazionale (ad esempio il desiderio francese di dimissionare Chirac e la sindrome dell’idraulico polacco) e dunque da referendum europeo il voto si trasforma in scrutinio nazionale. Oppure, e questo è il caso del voto irlandese del 2 ottobre scorso, il voto popolare si tramuta in plebiscito sull’appartenenza, in questo caso dell’Irlanda, all’Unione. Dublino ha detto «sì» all’Unione, ben più che «sì» al Trattato di Lisbona. Forse per tentare di evitare questo “doppio inganno referendario” forse si dovrebbe cambiare registro. Se l’Unione ha il coraggio di sottomettere importanti ratifiche istituzionali al volere del popolo europeo sovrano dovrà farlo d’ora in poi organizzando un unico referendum contemporaneamente in tutti e 27 i Paesi membri, facendolo precedere da una reale opera di comunicazione, spiegazione e pedagogia collettiva. Insomma con la Dichiarazione di Laeken del dicembre del 2001 si era parlato di maggiore trasparenza, democrazia ed efficienza. Il Trattato di Lisbona e il suo lungo iter di ratifica sembrano andare nella direzione opposta. Secondo punto sul quale riflettere. Tutta l’attenzione sembra in questa fase catalizzata da un lato dalle due rimanenti ratifiche (quella polacca e quella ceca) e dall’altro dalla posizione che deciderà di assumere Cameron qualora, come sembra, riesca a succedere a Gordon Brown alle prossime elezioni di primavera. Non si vuole sottostimare la delicata partita che si sta giocando tra Varsavia e Praga. Il vero fulcro della situazione ci pare però altrove. E questo altrove riguarda la nomina del futuro Presidente dell’Ue, con durata di due anni e mezzo, rinnovabili una volta. E anche in questo caso il problema non è solo quello dei nomi, tra gli altri Blair, Balkenende, Juncker, Gonzalez, Fillon, Lipponen e addirittura lo stesso Gordon Brown. Dietro la battaglia delle differenti personalità c’è la ben più complessa questione dell’equilibrio tra le istituzioni comunitarie. Un Presidente del Consiglio europeo fortemente voluto dai grandi Paesi finirebbe per accentuare quella logica intergovernativa così evidente nel corso del semestre di presidenza francese del 2008. In realtà, sottotraccia sembrano esservi due differenti versioni di questo approccio intergovernativo. Quello esplicito di Parigi, e non a caso Sarkozy è lo sponsor numero uno di Blair e quello più mascherato, ma altrettanto potenzialmente decisivo, di Merkel. Perlomeno questa è l’impressione dopo la sentenza di Karlsruhe e l’appoggio informale alla presidenza dell’opaco olandese Balkenende. Come per la Commissione la scelta è ricaduta sul “male minore”, (il malleabile Barroso), per il nuovo Presidente potrebbe accadere altrettanto. Se la parola chiave è mediazione (nella sua accezione più negativa) il candidato ideale diventa il lussemburghese Juncker. Potrebbe ottenere l’appoggio di tutti i piccoli, è una personalità che ha acquisito nel corso degli ultimi anni una forte visibilità grazie alla guida dell’Eurogruppo, è un uomo di consenso ed equilibrio e alla bisogna anche di compromesso. Potrebbe ottenere il sostegno di Berlino e anche quello di Roma (che punta, con Tremonti, a sostituirlo proprio alla guida dell’Eurogruppo e non a caso abbastanza sibillino è stato il giudizio del Ministro Frattini su Blair in un’intervista a «Il Corriere della Sera»). Unico vero problema: l’opposizione viscerale di Sarkozy il quale dall’autunno del 2008 lo vede come fumo negli occhi e lo accusa di essere stato scarsamente reattivo di fronte alla crisi economico-finanziaria. Il terzo punto non concerne congetture o ipotesi ma la necessità di guardare in maniera disincantata al Trattato di Lisbona. Il percorso iniziato quattro anni fa con le prime ratifiche dell’allora Trattato costituzionale è stato tormentato al punto che appare impossibile non porsi una domanda: e se Lisbona fosse giunto troppo tardi? Se quel percorso istituzionale pensato per rispondere all’impasse decisionale conseguente ad un affrettato allargamento oggi non avesse più molto senso? Semplificando otto anni fa, a Laeken, il fulcro sembrava essere politico e diplomatico. Oggi l’ago della bilancia sembra spostato sul fronte dell’economico e del finanziario. Ebbene se il Trattato di Lisbona fosse stato in vigore, l’Ue sarebbe stata in grado di intervenire in maniera diversa nella crisi economico-finanziaria? La risposta è no. Il Trattato di Lisbona migliorerà il coordinamento tra le politiche economiche dell’Ue, prefigurando un embrione di “governo economico” dell’Europa? La risposta è ancora negativa. A Pittsburgh, poche settimane fa, si sono gettate le basi di una rischiosa marginalizzazione economica del Vecchio Continente. Il Trattato di Lisbona dovrebbe fornire gli strumenti per evitare la paralisi decisionale dell’Europa unita. Per un suo reale protagonismo globale la strada è, però, ancora tutta in salita.
sabato 10 ottobre 2009
Il trattato di Lisbona
L'Irlanda ha detto sì ma il futuro dell'UE resta incerto di Michele Marchi
Era un «sì» atteso e praticamente indotto dopo le note concessioni ottenute dal governo di Dublino, in particolare quella relativa al mantenimento del proprio commissario europeo. Era un «replay», come già accaduto a Dublino per il Trattato di Nizza, quando gli irlandesi furono chiamati una seconda volta alle urne dopo un primo secco «no». Infine si tratta di un voto sul quale pesa quel meno 9% di crescita di quella che ad oggi appare la ex-tigre celtica. La «sindrome islandese» ha pesato non poco nell’urna referendaria. Dunque scongiurato il «no», che avrebbe definitivamente archiviato il già malconcio Trattato di Lisbona, è tempo di fare qualche riflessione sul futuro dell’Ue, proprio alla luce del voto irlandese, per sottolinearne il carattere necessario ma non sufficiente. Innanzitutto è necessario riflettere sull’utilizzo del referendum per le ratifiche nazionali dei trattati europei. Francia e Olanda lo avevano clamorosamente evidenziato nel 2005, in parte qualche segnale era giunto anche dal referendum spagnolo dello stesso anno con la partecipazione ferma al 42% e oggi da Dublino arriva la clamorosa conferma. Che senso ha votare su un testo complesso e scarsamente conosciuto per via referendaria? Gli esiti sono oramai quasi scontati. O il referendum si trasforma nel catalizzatore degli umori in quel momento dominanti all’interno del singolo Stato nazionale (ad esempio il desiderio francese di dimissionare Chirac e la sindrome dell’idraulico polacco) e dunque da referendum europeo il voto si trasforma in scrutinio nazionale. Oppure, e questo è il caso del voto irlandese del 2 ottobre scorso, il voto popolare si tramuta in plebiscito sull’appartenenza, in questo caso dell’Irlanda, all’Unione. Dublino ha detto «sì» all’Unione, ben più che «sì» al Trattato di Lisbona. Forse per tentare di evitare questo “doppio inganno referendario” forse si dovrebbe cambiare registro. Se l’Unione ha il coraggio di sottomettere importanti ratifiche istituzionali al volere del popolo europeo sovrano dovrà farlo d’ora in poi organizzando un unico referendum contemporaneamente in tutti e 27 i Paesi membri, facendolo precedere da una reale opera di comunicazione, spiegazione e pedagogia collettiva. Insomma con la Dichiarazione di Laeken del dicembre del 2001 si era parlato di maggiore trasparenza, democrazia ed efficienza. Il Trattato di Lisbona e il suo lungo iter di ratifica sembrano andare nella direzione opposta. Secondo punto sul quale riflettere. Tutta l’attenzione sembra in questa fase catalizzata da un lato dalle due rimanenti ratifiche (quella polacca e quella ceca) e dall’altro dalla posizione che deciderà di assumere Cameron qualora, come sembra, riesca a succedere a Gordon Brown alle prossime elezioni di primavera. Non si vuole sottostimare la delicata partita che si sta giocando tra Varsavia e Praga. Il vero fulcro della situazione ci pare però altrove. E questo altrove riguarda la nomina del futuro Presidente dell’Ue, con durata di due anni e mezzo, rinnovabili una volta. E anche in questo caso il problema non è solo quello dei nomi, tra gli altri Blair, Balkenende, Juncker, Gonzalez, Fillon, Lipponen e addirittura lo stesso Gordon Brown. Dietro la battaglia delle differenti personalità c’è la ben più complessa questione dell’equilibrio tra le istituzioni comunitarie. Un Presidente del Consiglio europeo fortemente voluto dai grandi Paesi finirebbe per accentuare quella logica intergovernativa così evidente nel corso del semestre di presidenza francese del 2008. In realtà, sottotraccia sembrano esservi due differenti versioni di questo approccio intergovernativo. Quello esplicito di Parigi, e non a caso Sarkozy è lo sponsor numero uno di Blair e quello più mascherato, ma altrettanto potenzialmente decisivo, di Merkel. Perlomeno questa è l’impressione dopo la sentenza di Karlsruhe e l’appoggio informale alla presidenza dell’opaco olandese Balkenende. Come per la Commissione la scelta è ricaduta sul “male minore”, (il malleabile Barroso), per il nuovo Presidente potrebbe accadere altrettanto. Se la parola chiave è mediazione (nella sua accezione più negativa) il candidato ideale diventa il lussemburghese Juncker. Potrebbe ottenere l’appoggio di tutti i piccoli, è una personalità che ha acquisito nel corso degli ultimi anni una forte visibilità grazie alla guida dell’Eurogruppo, è un uomo di consenso ed equilibrio e alla bisogna anche di compromesso. Potrebbe ottenere il sostegno di Berlino e anche quello di Roma (che punta, con Tremonti, a sostituirlo proprio alla guida dell’Eurogruppo e non a caso abbastanza sibillino è stato il giudizio del Ministro Frattini su Blair in un’intervista a «Il Corriere della Sera»). Unico vero problema: l’opposizione viscerale di Sarkozy il quale dall’autunno del 2008 lo vede come fumo negli occhi e lo accusa di essere stato scarsamente reattivo di fronte alla crisi economico-finanziaria. Il terzo punto non concerne congetture o ipotesi ma la necessità di guardare in maniera disincantata al Trattato di Lisbona. Il percorso iniziato quattro anni fa con le prime ratifiche dell’allora Trattato costituzionale è stato tormentato al punto che appare impossibile non porsi una domanda: e se Lisbona fosse giunto troppo tardi? Se quel percorso istituzionale pensato per rispondere all’impasse decisionale conseguente ad un affrettato allargamento oggi non avesse più molto senso? Semplificando otto anni fa, a Laeken, il fulcro sembrava essere politico e diplomatico. Oggi l’ago della bilancia sembra spostato sul fronte dell’economico e del finanziario. Ebbene se il Trattato di Lisbona fosse stato in vigore, l’Ue sarebbe stata in grado di intervenire in maniera diversa nella crisi economico-finanziaria? La risposta è no. Il Trattato di Lisbona migliorerà il coordinamento tra le politiche economiche dell’Ue, prefigurando un embrione di “governo economico” dell’Europa? La risposta è ancora negativa. A Pittsburgh, poche settimane fa, si sono gettate le basi di una rischiosa marginalizzazione economica del Vecchio Continente. Il Trattato di Lisbona dovrebbe fornire gli strumenti per evitare la paralisi decisionale dell’Europa unita. Per un suo reale protagonismo globale la strada è, però, ancora tutta in salita.
Era un «sì» atteso e praticamente indotto dopo le note concessioni ottenute dal governo di Dublino, in particolare quella relativa al mantenimento del proprio commissario europeo. Era un «replay», come già accaduto a Dublino per il Trattato di Nizza, quando gli irlandesi furono chiamati una seconda volta alle urne dopo un primo secco «no». Infine si tratta di un voto sul quale pesa quel meno 9% di crescita di quella che ad oggi appare la ex-tigre celtica. La «sindrome islandese» ha pesato non poco nell’urna referendaria. Dunque scongiurato il «no», che avrebbe definitivamente archiviato il già malconcio Trattato di Lisbona, è tempo di fare qualche riflessione sul futuro dell’Ue, proprio alla luce del voto irlandese, per sottolinearne il carattere necessario ma non sufficiente. Innanzitutto è necessario riflettere sull’utilizzo del referendum per le ratifiche nazionali dei trattati europei. Francia e Olanda lo avevano clamorosamente evidenziato nel 2005, in parte qualche segnale era giunto anche dal referendum spagnolo dello stesso anno con la partecipazione ferma al 42% e oggi da Dublino arriva la clamorosa conferma. Che senso ha votare su un testo complesso e scarsamente conosciuto per via referendaria? Gli esiti sono oramai quasi scontati. O il referendum si trasforma nel catalizzatore degli umori in quel momento dominanti all’interno del singolo Stato nazionale (ad esempio il desiderio francese di dimissionare Chirac e la sindrome dell’idraulico polacco) e dunque da referendum europeo il voto si trasforma in scrutinio nazionale. Oppure, e questo è il caso del voto irlandese del 2 ottobre scorso, il voto popolare si tramuta in plebiscito sull’appartenenza, in questo caso dell’Irlanda, all’Unione. Dublino ha detto «sì» all’Unione, ben più che «sì» al Trattato di Lisbona. Forse per tentare di evitare questo “doppio inganno referendario” forse si dovrebbe cambiare registro. Se l’Unione ha il coraggio di sottomettere importanti ratifiche istituzionali al volere del popolo europeo sovrano dovrà farlo d’ora in poi organizzando un unico referendum contemporaneamente in tutti e 27 i Paesi membri, facendolo precedere da una reale opera di comunicazione, spiegazione e pedagogia collettiva. Insomma con la Dichiarazione di Laeken del dicembre del 2001 si era parlato di maggiore trasparenza, democrazia ed efficienza. Il Trattato di Lisbona e il suo lungo iter di ratifica sembrano andare nella direzione opposta. Secondo punto sul quale riflettere. Tutta l’attenzione sembra in questa fase catalizzata da un lato dalle due rimanenti ratifiche (quella polacca e quella ceca) e dall’altro dalla posizione che deciderà di assumere Cameron qualora, come sembra, riesca a succedere a Gordon Brown alle prossime elezioni di primavera. Non si vuole sottostimare la delicata partita che si sta giocando tra Varsavia e Praga. Il vero fulcro della situazione ci pare però altrove. E questo altrove riguarda la nomina del futuro Presidente dell’Ue, con durata di due anni e mezzo, rinnovabili una volta. E anche in questo caso il problema non è solo quello dei nomi, tra gli altri Blair, Balkenende, Juncker, Gonzalez, Fillon, Lipponen e addirittura lo stesso Gordon Brown. Dietro la battaglia delle differenti personalità c’è la ben più complessa questione dell’equilibrio tra le istituzioni comunitarie. Un Presidente del Consiglio europeo fortemente voluto dai grandi Paesi finirebbe per accentuare quella logica intergovernativa così evidente nel corso del semestre di presidenza francese del 2008. In realtà, sottotraccia sembrano esservi due differenti versioni di questo approccio intergovernativo. Quello esplicito di Parigi, e non a caso Sarkozy è lo sponsor numero uno di Blair e quello più mascherato, ma altrettanto potenzialmente decisivo, di Merkel. Perlomeno questa è l’impressione dopo la sentenza di Karlsruhe e l’appoggio informale alla presidenza dell’opaco olandese Balkenende. Come per la Commissione la scelta è ricaduta sul “male minore”, (il malleabile Barroso), per il nuovo Presidente potrebbe accadere altrettanto. Se la parola chiave è mediazione (nella sua accezione più negativa) il candidato ideale diventa il lussemburghese Juncker. Potrebbe ottenere l’appoggio di tutti i piccoli, è una personalità che ha acquisito nel corso degli ultimi anni una forte visibilità grazie alla guida dell’Eurogruppo, è un uomo di consenso ed equilibrio e alla bisogna anche di compromesso. Potrebbe ottenere il sostegno di Berlino e anche quello di Roma (che punta, con Tremonti, a sostituirlo proprio alla guida dell’Eurogruppo e non a caso abbastanza sibillino è stato il giudizio del Ministro Frattini su Blair in un’intervista a «Il Corriere della Sera»). Unico vero problema: l’opposizione viscerale di Sarkozy il quale dall’autunno del 2008 lo vede come fumo negli occhi e lo accusa di essere stato scarsamente reattivo di fronte alla crisi economico-finanziaria. Il terzo punto non concerne congetture o ipotesi ma la necessità di guardare in maniera disincantata al Trattato di Lisbona. Il percorso iniziato quattro anni fa con le prime ratifiche dell’allora Trattato costituzionale è stato tormentato al punto che appare impossibile non porsi una domanda: e se Lisbona fosse giunto troppo tardi? Se quel percorso istituzionale pensato per rispondere all’impasse decisionale conseguente ad un affrettato allargamento oggi non avesse più molto senso? Semplificando otto anni fa, a Laeken, il fulcro sembrava essere politico e diplomatico. Oggi l’ago della bilancia sembra spostato sul fronte dell’economico e del finanziario. Ebbene se il Trattato di Lisbona fosse stato in vigore, l’Ue sarebbe stata in grado di intervenire in maniera diversa nella crisi economico-finanziaria? La risposta è no. Il Trattato di Lisbona migliorerà il coordinamento tra le politiche economiche dell’Ue, prefigurando un embrione di “governo economico” dell’Europa? La risposta è ancora negativa. A Pittsburgh, poche settimane fa, si sono gettate le basi di una rischiosa marginalizzazione economica del Vecchio Continente. Il Trattato di Lisbona dovrebbe fornire gli strumenti per evitare la paralisi decisionale dell’Europa unita. Per un suo reale protagonismo globale la strada è, però, ancora tutta in salita.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento