Da molti mesi Carlo De Benedetti non è più la tessera numero 1 del Partito democratico. L'ha abbandonata fragorosamente schierando i suoi giornali in prima linea nella battaglia per abbattere Silvio Berlusconi. Troppe titubanze nella opposizione parlamentare lo hanno convinto che è arrivato il momento di ritirare tutte le deleghe. Il Pd è un partito sfarinato, Veltroni, politico di riferimento del gruppo editoriale, ha abbandonato la segreteria e forse la sua stessa creatura, si profila la vittoria di Bersani, troppo D'Alema-dipendente. Altro non c'è. Il lungo innamoramento fra la sinistra e il suo capitalista di riferimento sta finendo. Ognuno per sé. Il Pd vive la contraddizione mortale. Ha ancora un cospicuo pacchetto di voti elettorali ma questa forza non si traduce in egemonia politica sulla opposizione. Carlo De Benedetti non perde tempo e con la sua armata editoriale prende la leadership degli antiberlusconiani. Per chi da anni sostiene che la crisi italiana è tutta racchiusa nella contesa Berlusconi-De Benedetti siamo di fronte al disvelamento della realtà. Per la sinistra è un duro risveglio. È in discussione non solo la sua autonomia politica ma forse la sua stessa esistenza. Quanto può reggere un partito assediato da una base in ebollizione guidata da una grande catena editoriale? De Benedetti per la sinistra non è stato solo il più importante editore di riferimento. L'innamoramento nasce prima, negli anni in cui l'ingegnere dapprima si cimenta poi si separa dalla Fiat. L'uomo che disse no a Gianni Agnelli e fu giubilato dalla dinastia di Torino è stato il primo dei "capitani coraggiosi" incoronati dalla sinistra. Il rapporto di questa con gli Agnelli era segnato da antiche divisioni e da reciproche diffidenze. Il Pci era ancora troppo operaista per consegnarsi nelle mani del più importante imprenditore italiano. Lama trattava con l'Avvocato ma il partito si manteneva estraneo e diffidente, anzi con Berlinguer appoggiò la più dura delle lotte operaie del dopoguerra. L'emergere di Carlo De Benedetti segnalava invece il protagonismo di un capitalista meno elitario e più disponibile a sporcarsi le mani con la politica. L'arrivo dell'ingegnere al gruppo Espresso-Repubblica segnò una ulteriore svolta. Nel passaggio dalla direzione di Eugenio Scalfari a quella di Ezio Mauro si interruppe un ciclo nella storia dell'affiancamento del quotidiano alla sinistra. Scalfari detestava Craxi e agiva a tutto campo. Lavorava ai fianchi il Pci per immetterlo nel circuito di governo, ma assediava anche la Dc. Con lui cresceva un grande giornale borghese che dettava l'agenda politica, favoriva e distruggeva carriere, ma lo faceva ex cathedra, non rinunciando mai alla propria separatezza. Era un monarca senza regno che si affidava alla sua capacità di interpretare gli umori profondi della politica e di creare relazioni politiche trasversali. Il dopo-Scalfari, quando si dispiegò a tutto tondo l'egemonia dell'ingegnere, spinse il quotidiano su una linea di più netto fiancheggiamento. Il giornale partecipò in prima persona a tutte le battaglie interne alla sinistra. Era con Prodi e Veltroni contro D'Alema, spinse Rutelli per bloccare Giuliano Amato, enfatizzò la resistibile ascesa di Sergio Cofferati. Non sempre era tutto lineare. Carlo De Benedetti ispirò la nascita di associazioni liberal favorevoli ai girotondi ma lui non rinunciava a invitare per le vacanze estive Piero Fassino sul suo yacht e un vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, una volta al mese, intervistava Massimo D'Alema per calmarne l'ira funesta. La nascita del Pd avrebbe dovuto sanzionare questo passaggio d'epoca. Un giornale liberal di massa per il partito più liberal della storia italiana. Ma qualcosa si rompe. E si rompe nel Pd. L'assalto veltroniano a Berlusconi fallisce e il progetto del Pd si affloscia. Il popolo di sinistra vive la sua più acuta fase di scoramento e anche le copie di Repubblica calano. Siamo alla terza fase, quella attuale. Il primo anno di governo di Berlusconi è travolgente. Una schiacciante maggioranza parlamentare, una opposizione inebetita, un premier che prende il centro della scena. Con il discorso del 25 aprile Berlusconi sembra aver varcato anche l'ultimo confine, quello dell'antifascismo militante. Per l'ingegnere si profila una sconfitta politica. Anni e anni di lavoro ai fianchi della sinistra, di certosina ricerca di leadership credibili, di sostegno elettorale rischiano di andare in fumo. Il campo antiberlusconiano non è presidiato da «riflessivi professori», come quelli dei girotondi, ma da un tribuno sconclusionato, quell'Antonio Di Pietro che Repubblica non ama. Di qui la scelta di ritirare le deleghe alla politica e di fare tutto da soli o quasi. Come ha scritto Eugenio Scalfari, nel suo fondo di domenica dedicato alla manifestazione per la libertà di stampa, è stato evocato un popolo. Il giornale non ha più solo lettori davanti a sé ma un movimento di opinione che si va strutturando. Quello che accadrà lo capiremo fra qualche tempo. Ma è facile immaginare che si farà più forte nel gruppo editoriale la tentazione di dare al popolo una guida. Il Pd assiste attonito a questo scempio di sé. Una parte del partito ha già rinunciato alla battaglia e si è adattata alla egemonia del gruppo editoriale. Un'altra parte vive questa stagione con la sofferenza di chi si accorge che si vanno restringendo i margini per l'autonomia della politica. Lo scontro frontale fra De Benedetti e Berlusconi è all'ultimo round. La sinistra, se non ritrova un ruolo e una leadership, ha già perso.
giovedì 8 ottobre 2009
Contro
Ognuno per se, CDB per tutti - La (ex) tessera numero 1 non delega più al Pd smarrito. La strategia per abbattere Silvio - Non c'è più feeling tra la sinistra e il suo capitalista di riferimento e De Benedetti prende la leadership degli antiberlusconiani, grazie alla sua armata editoriale di Peppino Caldarola per "il Riformista"
Da molti mesi Carlo De Benedetti non è più la tessera numero 1 del Partito democratico. L'ha abbandonata fragorosamente schierando i suoi giornali in prima linea nella battaglia per abbattere Silvio Berlusconi. Troppe titubanze nella opposizione parlamentare lo hanno convinto che è arrivato il momento di ritirare tutte le deleghe. Il Pd è un partito sfarinato, Veltroni, politico di riferimento del gruppo editoriale, ha abbandonato la segreteria e forse la sua stessa creatura, si profila la vittoria di Bersani, troppo D'Alema-dipendente. Altro non c'è. Il lungo innamoramento fra la sinistra e il suo capitalista di riferimento sta finendo. Ognuno per sé. Il Pd vive la contraddizione mortale. Ha ancora un cospicuo pacchetto di voti elettorali ma questa forza non si traduce in egemonia politica sulla opposizione. Carlo De Benedetti non perde tempo e con la sua armata editoriale prende la leadership degli antiberlusconiani. Per chi da anni sostiene che la crisi italiana è tutta racchiusa nella contesa Berlusconi-De Benedetti siamo di fronte al disvelamento della realtà. Per la sinistra è un duro risveglio. È in discussione non solo la sua autonomia politica ma forse la sua stessa esistenza. Quanto può reggere un partito assediato da una base in ebollizione guidata da una grande catena editoriale? De Benedetti per la sinistra non è stato solo il più importante editore di riferimento. L'innamoramento nasce prima, negli anni in cui l'ingegnere dapprima si cimenta poi si separa dalla Fiat. L'uomo che disse no a Gianni Agnelli e fu giubilato dalla dinastia di Torino è stato il primo dei "capitani coraggiosi" incoronati dalla sinistra. Il rapporto di questa con gli Agnelli era segnato da antiche divisioni e da reciproche diffidenze. Il Pci era ancora troppo operaista per consegnarsi nelle mani del più importante imprenditore italiano. Lama trattava con l'Avvocato ma il partito si manteneva estraneo e diffidente, anzi con Berlinguer appoggiò la più dura delle lotte operaie del dopoguerra. L'emergere di Carlo De Benedetti segnalava invece il protagonismo di un capitalista meno elitario e più disponibile a sporcarsi le mani con la politica. L'arrivo dell'ingegnere al gruppo Espresso-Repubblica segnò una ulteriore svolta. Nel passaggio dalla direzione di Eugenio Scalfari a quella di Ezio Mauro si interruppe un ciclo nella storia dell'affiancamento del quotidiano alla sinistra. Scalfari detestava Craxi e agiva a tutto campo. Lavorava ai fianchi il Pci per immetterlo nel circuito di governo, ma assediava anche la Dc. Con lui cresceva un grande giornale borghese che dettava l'agenda politica, favoriva e distruggeva carriere, ma lo faceva ex cathedra, non rinunciando mai alla propria separatezza. Era un monarca senza regno che si affidava alla sua capacità di interpretare gli umori profondi della politica e di creare relazioni politiche trasversali. Il dopo-Scalfari, quando si dispiegò a tutto tondo l'egemonia dell'ingegnere, spinse il quotidiano su una linea di più netto fiancheggiamento. Il giornale partecipò in prima persona a tutte le battaglie interne alla sinistra. Era con Prodi e Veltroni contro D'Alema, spinse Rutelli per bloccare Giuliano Amato, enfatizzò la resistibile ascesa di Sergio Cofferati. Non sempre era tutto lineare. Carlo De Benedetti ispirò la nascita di associazioni liberal favorevoli ai girotondi ma lui non rinunciava a invitare per le vacanze estive Piero Fassino sul suo yacht e un vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, una volta al mese, intervistava Massimo D'Alema per calmarne l'ira funesta. La nascita del Pd avrebbe dovuto sanzionare questo passaggio d'epoca. Un giornale liberal di massa per il partito più liberal della storia italiana. Ma qualcosa si rompe. E si rompe nel Pd. L'assalto veltroniano a Berlusconi fallisce e il progetto del Pd si affloscia. Il popolo di sinistra vive la sua più acuta fase di scoramento e anche le copie di Repubblica calano. Siamo alla terza fase, quella attuale. Il primo anno di governo di Berlusconi è travolgente. Una schiacciante maggioranza parlamentare, una opposizione inebetita, un premier che prende il centro della scena. Con il discorso del 25 aprile Berlusconi sembra aver varcato anche l'ultimo confine, quello dell'antifascismo militante. Per l'ingegnere si profila una sconfitta politica. Anni e anni di lavoro ai fianchi della sinistra, di certosina ricerca di leadership credibili, di sostegno elettorale rischiano di andare in fumo. Il campo antiberlusconiano non è presidiato da «riflessivi professori», come quelli dei girotondi, ma da un tribuno sconclusionato, quell'Antonio Di Pietro che Repubblica non ama. Di qui la scelta di ritirare le deleghe alla politica e di fare tutto da soli o quasi. Come ha scritto Eugenio Scalfari, nel suo fondo di domenica dedicato alla manifestazione per la libertà di stampa, è stato evocato un popolo. Il giornale non ha più solo lettori davanti a sé ma un movimento di opinione che si va strutturando. Quello che accadrà lo capiremo fra qualche tempo. Ma è facile immaginare che si farà più forte nel gruppo editoriale la tentazione di dare al popolo una guida. Il Pd assiste attonito a questo scempio di sé. Una parte del partito ha già rinunciato alla battaglia e si è adattata alla egemonia del gruppo editoriale. Un'altra parte vive questa stagione con la sofferenza di chi si accorge che si vanno restringendo i margini per l'autonomia della politica. Lo scontro frontale fra De Benedetti e Berlusconi è all'ultimo round. La sinistra, se non ritrova un ruolo e una leadership, ha già perso.
Da molti mesi Carlo De Benedetti non è più la tessera numero 1 del Partito democratico. L'ha abbandonata fragorosamente schierando i suoi giornali in prima linea nella battaglia per abbattere Silvio Berlusconi. Troppe titubanze nella opposizione parlamentare lo hanno convinto che è arrivato il momento di ritirare tutte le deleghe. Il Pd è un partito sfarinato, Veltroni, politico di riferimento del gruppo editoriale, ha abbandonato la segreteria e forse la sua stessa creatura, si profila la vittoria di Bersani, troppo D'Alema-dipendente. Altro non c'è. Il lungo innamoramento fra la sinistra e il suo capitalista di riferimento sta finendo. Ognuno per sé. Il Pd vive la contraddizione mortale. Ha ancora un cospicuo pacchetto di voti elettorali ma questa forza non si traduce in egemonia politica sulla opposizione. Carlo De Benedetti non perde tempo e con la sua armata editoriale prende la leadership degli antiberlusconiani. Per chi da anni sostiene che la crisi italiana è tutta racchiusa nella contesa Berlusconi-De Benedetti siamo di fronte al disvelamento della realtà. Per la sinistra è un duro risveglio. È in discussione non solo la sua autonomia politica ma forse la sua stessa esistenza. Quanto può reggere un partito assediato da una base in ebollizione guidata da una grande catena editoriale? De Benedetti per la sinistra non è stato solo il più importante editore di riferimento. L'innamoramento nasce prima, negli anni in cui l'ingegnere dapprima si cimenta poi si separa dalla Fiat. L'uomo che disse no a Gianni Agnelli e fu giubilato dalla dinastia di Torino è stato il primo dei "capitani coraggiosi" incoronati dalla sinistra. Il rapporto di questa con gli Agnelli era segnato da antiche divisioni e da reciproche diffidenze. Il Pci era ancora troppo operaista per consegnarsi nelle mani del più importante imprenditore italiano. Lama trattava con l'Avvocato ma il partito si manteneva estraneo e diffidente, anzi con Berlinguer appoggiò la più dura delle lotte operaie del dopoguerra. L'emergere di Carlo De Benedetti segnalava invece il protagonismo di un capitalista meno elitario e più disponibile a sporcarsi le mani con la politica. L'arrivo dell'ingegnere al gruppo Espresso-Repubblica segnò una ulteriore svolta. Nel passaggio dalla direzione di Eugenio Scalfari a quella di Ezio Mauro si interruppe un ciclo nella storia dell'affiancamento del quotidiano alla sinistra. Scalfari detestava Craxi e agiva a tutto campo. Lavorava ai fianchi il Pci per immetterlo nel circuito di governo, ma assediava anche la Dc. Con lui cresceva un grande giornale borghese che dettava l'agenda politica, favoriva e distruggeva carriere, ma lo faceva ex cathedra, non rinunciando mai alla propria separatezza. Era un monarca senza regno che si affidava alla sua capacità di interpretare gli umori profondi della politica e di creare relazioni politiche trasversali. Il dopo-Scalfari, quando si dispiegò a tutto tondo l'egemonia dell'ingegnere, spinse il quotidiano su una linea di più netto fiancheggiamento. Il giornale partecipò in prima persona a tutte le battaglie interne alla sinistra. Era con Prodi e Veltroni contro D'Alema, spinse Rutelli per bloccare Giuliano Amato, enfatizzò la resistibile ascesa di Sergio Cofferati. Non sempre era tutto lineare. Carlo De Benedetti ispirò la nascita di associazioni liberal favorevoli ai girotondi ma lui non rinunciava a invitare per le vacanze estive Piero Fassino sul suo yacht e un vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, una volta al mese, intervistava Massimo D'Alema per calmarne l'ira funesta. La nascita del Pd avrebbe dovuto sanzionare questo passaggio d'epoca. Un giornale liberal di massa per il partito più liberal della storia italiana. Ma qualcosa si rompe. E si rompe nel Pd. L'assalto veltroniano a Berlusconi fallisce e il progetto del Pd si affloscia. Il popolo di sinistra vive la sua più acuta fase di scoramento e anche le copie di Repubblica calano. Siamo alla terza fase, quella attuale. Il primo anno di governo di Berlusconi è travolgente. Una schiacciante maggioranza parlamentare, una opposizione inebetita, un premier che prende il centro della scena. Con il discorso del 25 aprile Berlusconi sembra aver varcato anche l'ultimo confine, quello dell'antifascismo militante. Per l'ingegnere si profila una sconfitta politica. Anni e anni di lavoro ai fianchi della sinistra, di certosina ricerca di leadership credibili, di sostegno elettorale rischiano di andare in fumo. Il campo antiberlusconiano non è presidiato da «riflessivi professori», come quelli dei girotondi, ma da un tribuno sconclusionato, quell'Antonio Di Pietro che Repubblica non ama. Di qui la scelta di ritirare le deleghe alla politica e di fare tutto da soli o quasi. Come ha scritto Eugenio Scalfari, nel suo fondo di domenica dedicato alla manifestazione per la libertà di stampa, è stato evocato un popolo. Il giornale non ha più solo lettori davanti a sé ma un movimento di opinione che si va strutturando. Quello che accadrà lo capiremo fra qualche tempo. Ma è facile immaginare che si farà più forte nel gruppo editoriale la tentazione di dare al popolo una guida. Il Pd assiste attonito a questo scempio di sé. Una parte del partito ha già rinunciato alla battaglia e si è adattata alla egemonia del gruppo editoriale. Un'altra parte vive questa stagione con la sofferenza di chi si accorge che si vanno restringendo i margini per l'autonomia della politica. Lo scontro frontale fra De Benedetti e Berlusconi è all'ultimo round. La sinistra, se non ritrova un ruolo e una leadership, ha già perso.
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