La casa di Hanaa era popolata di fantasmi. Il primo - lei lo chiama così - è quella donna che suo marito aveva portato in camera da letto. Un altro spettro era quel matrimonio, nato per amore e finito in una prigionia domestica di violenze e ricatti. Pugni in testa, denti che cadono, denunce. Un uomo diviso con un’altra. E figli picchiati, minacciati, rapiti.Eppure quando 22 anni fa ha lasciato il Marocco Hanaa non era in fuga. Aveva un lavoro, governante in un albergo nel sud del Paese. Era giovane e indipendente. Non portava il velo, non era il medioevo. Era arrivata in Italia in vacanza, in un bar all’aperto le si presentò quell’egiziano. Faceva il pizzaiolo da qualche anno in Italia, e le si offrì come guida turistica. Bello, arabo, gentile. «Era come un’amicizia - ricorda - poi mi disse “mi piaci, siamo arabi, resta qui” e io l’ho fatto. Ero innamorata». Arrivati i documenti dal Marocco lo ha sposato, prima in una piccola moschea e infine in ambasciata. Nell’89 era già nata una figlia. Dieci anni dopo erano già quattro. Ma dieci anni dopo tutto era cambiato: «Ho scoperto un lato di lui che non conoscevo. Era nervoso, manesco. Dopo il nostro primo figlio mi ha picchiata per la prima volta. Venti giorni di Pronto soccorso, e non è mai venuto a trovarmi». Tante volte ha pensato di lasciarlo. E tante volte si è detta che era meglio sopportare: «Per paura, per i miei figli. Non sapevo che fare, dove andare. Ero terrorizzata dal fatto che mi portasse via i miei bambini. Qualche volta lo ha fatto, per un giorno o due, solo per mettermi paura». Dopo l’ennesimo pestaggio e ricovero, al suo ritorno a casa, ha trovato l’altra donna. Suo marito l’aveva sposata in moschea: «Abitavamo tutti nella stessa casa. Camera, cucina e bagno. Io non la volevo dentro casa, e sapevo che lui non poteva tenerla lì, che aveva falsificato qualcosa. Ma non ne potevo più. Una volta lui mi ha fatto cadere tutti i denti. Ma facevo finta che quella donna non esistesse, come un fantasma. Ho sopportato tutto per i miei bambini. Non le parlavo, ma provavo più rabbia per lui che per lei». «Più umiliazioni subivo e più mi convincevo di tenere duro - racconta -. Ho iniziato anche portare il velo, cosa mai fatta in Marocco. Lo faceva portare anche alle bambine. Alla più grande aveva impedito di iscriversi a ingegneria come sognava». Quella convivenza assurda è andata avanti per sei anni. «A casa facevo tutto io - ricorda - cucinavo e facevo le pulizie. Lei niente. Per il resto facevo in modo di starci il meno possibile. C’era sempre qualche bambino da accompagnare o andare a prendere per non stare in quella casa». Tre anni fa lui se n’è andato, abbandonando tutti. Portando via i più piccoli, di 7 e 11 anni. «Sono in Egitto. Li ho sentiti solo due volte da allora - si rammarica - la ragazza mi chiesto di andarla a prendere. Mi ha raccontato che sulla schiena ha i segni delle botte. Ha detto che il maschio è diventato balbuziente. Qui in Italia non lo era. Lui sta facendo col bambino quel che suo padre ha fatto a lui. Gli insegna la violenza. Sulle donne, sulle persone». «Io so che gli uomini violenti ci sono in Egitto come in Marocco, in Italia come in ogni altro Paese, ma lì sono educati alla violenza. Il problema sono le cose che fin da piccoli gli insegnano. Da generazioni e generazioni. È un lavaggio del cervello nella loro testa. La violenza sulle donne diventa tradizione». I figli grandi per fortuna vivono in Italia. Il maschio fa il barista, è cittadino italiano. La ragazza si è iscritta all’università: «Quale facoltà? Quella che voleva lei. E spero che trovi l’uomo giusto, non importa se italiano, marocchino o egiziano». La sua figlia maggiore è più o meno coetanea di Sanaa, la marocchina uccisa dal padre perché aveva un fidanzato italiano: «Quella ragazza - osserva lei - è stata uccisa nell’ultima settimana del Ramadan, non è un caso. Quelle cose un padre non le fa. Ma mio marito sarebbe stato capace. Negli occhi della madre di Sanaa che ha giustificato il marito io ho visto la paura che provavo io».
venerdì 25 settembre 2009
Ordinaria follia
«Io e l’altra sotto lo stesso tetto Sono rimasta per i miei figli»
La casa di Hanaa era popolata di fantasmi. Il primo - lei lo chiama così - è quella donna che suo marito aveva portato in camera da letto. Un altro spettro era quel matrimonio, nato per amore e finito in una prigionia domestica di violenze e ricatti. Pugni in testa, denti che cadono, denunce. Un uomo diviso con un’altra. E figli picchiati, minacciati, rapiti.Eppure quando 22 anni fa ha lasciato il Marocco Hanaa non era in fuga. Aveva un lavoro, governante in un albergo nel sud del Paese. Era giovane e indipendente. Non portava il velo, non era il medioevo. Era arrivata in Italia in vacanza, in un bar all’aperto le si presentò quell’egiziano. Faceva il pizzaiolo da qualche anno in Italia, e le si offrì come guida turistica. Bello, arabo, gentile. «Era come un’amicizia - ricorda - poi mi disse “mi piaci, siamo arabi, resta qui” e io l’ho fatto. Ero innamorata». Arrivati i documenti dal Marocco lo ha sposato, prima in una piccola moschea e infine in ambasciata. Nell’89 era già nata una figlia. Dieci anni dopo erano già quattro. Ma dieci anni dopo tutto era cambiato: «Ho scoperto un lato di lui che non conoscevo. Era nervoso, manesco. Dopo il nostro primo figlio mi ha picchiata per la prima volta. Venti giorni di Pronto soccorso, e non è mai venuto a trovarmi». Tante volte ha pensato di lasciarlo. E tante volte si è detta che era meglio sopportare: «Per paura, per i miei figli. Non sapevo che fare, dove andare. Ero terrorizzata dal fatto che mi portasse via i miei bambini. Qualche volta lo ha fatto, per un giorno o due, solo per mettermi paura». Dopo l’ennesimo pestaggio e ricovero, al suo ritorno a casa, ha trovato l’altra donna. Suo marito l’aveva sposata in moschea: «Abitavamo tutti nella stessa casa. Camera, cucina e bagno. Io non la volevo dentro casa, e sapevo che lui non poteva tenerla lì, che aveva falsificato qualcosa. Ma non ne potevo più. Una volta lui mi ha fatto cadere tutti i denti. Ma facevo finta che quella donna non esistesse, come un fantasma. Ho sopportato tutto per i miei bambini. Non le parlavo, ma provavo più rabbia per lui che per lei». «Più umiliazioni subivo e più mi convincevo di tenere duro - racconta -. Ho iniziato anche portare il velo, cosa mai fatta in Marocco. Lo faceva portare anche alle bambine. Alla più grande aveva impedito di iscriversi a ingegneria come sognava». Quella convivenza assurda è andata avanti per sei anni. «A casa facevo tutto io - ricorda - cucinavo e facevo le pulizie. Lei niente. Per il resto facevo in modo di starci il meno possibile. C’era sempre qualche bambino da accompagnare o andare a prendere per non stare in quella casa». Tre anni fa lui se n’è andato, abbandonando tutti. Portando via i più piccoli, di 7 e 11 anni. «Sono in Egitto. Li ho sentiti solo due volte da allora - si rammarica - la ragazza mi chiesto di andarla a prendere. Mi ha raccontato che sulla schiena ha i segni delle botte. Ha detto che il maschio è diventato balbuziente. Qui in Italia non lo era. Lui sta facendo col bambino quel che suo padre ha fatto a lui. Gli insegna la violenza. Sulle donne, sulle persone». «Io so che gli uomini violenti ci sono in Egitto come in Marocco, in Italia come in ogni altro Paese, ma lì sono educati alla violenza. Il problema sono le cose che fin da piccoli gli insegnano. Da generazioni e generazioni. È un lavaggio del cervello nella loro testa. La violenza sulle donne diventa tradizione». I figli grandi per fortuna vivono in Italia. Il maschio fa il barista, è cittadino italiano. La ragazza si è iscritta all’università: «Quale facoltà? Quella che voleva lei. E spero che trovi l’uomo giusto, non importa se italiano, marocchino o egiziano». La sua figlia maggiore è più o meno coetanea di Sanaa, la marocchina uccisa dal padre perché aveva un fidanzato italiano: «Quella ragazza - osserva lei - è stata uccisa nell’ultima settimana del Ramadan, non è un caso. Quelle cose un padre non le fa. Ma mio marito sarebbe stato capace. Negli occhi della madre di Sanaa che ha giustificato il marito io ho visto la paura che provavo io».
La casa di Hanaa era popolata di fantasmi. Il primo - lei lo chiama così - è quella donna che suo marito aveva portato in camera da letto. Un altro spettro era quel matrimonio, nato per amore e finito in una prigionia domestica di violenze e ricatti. Pugni in testa, denti che cadono, denunce. Un uomo diviso con un’altra. E figli picchiati, minacciati, rapiti.Eppure quando 22 anni fa ha lasciato il Marocco Hanaa non era in fuga. Aveva un lavoro, governante in un albergo nel sud del Paese. Era giovane e indipendente. Non portava il velo, non era il medioevo. Era arrivata in Italia in vacanza, in un bar all’aperto le si presentò quell’egiziano. Faceva il pizzaiolo da qualche anno in Italia, e le si offrì come guida turistica. Bello, arabo, gentile. «Era come un’amicizia - ricorda - poi mi disse “mi piaci, siamo arabi, resta qui” e io l’ho fatto. Ero innamorata». Arrivati i documenti dal Marocco lo ha sposato, prima in una piccola moschea e infine in ambasciata. Nell’89 era già nata una figlia. Dieci anni dopo erano già quattro. Ma dieci anni dopo tutto era cambiato: «Ho scoperto un lato di lui che non conoscevo. Era nervoso, manesco. Dopo il nostro primo figlio mi ha picchiata per la prima volta. Venti giorni di Pronto soccorso, e non è mai venuto a trovarmi». Tante volte ha pensato di lasciarlo. E tante volte si è detta che era meglio sopportare: «Per paura, per i miei figli. Non sapevo che fare, dove andare. Ero terrorizzata dal fatto che mi portasse via i miei bambini. Qualche volta lo ha fatto, per un giorno o due, solo per mettermi paura». Dopo l’ennesimo pestaggio e ricovero, al suo ritorno a casa, ha trovato l’altra donna. Suo marito l’aveva sposata in moschea: «Abitavamo tutti nella stessa casa. Camera, cucina e bagno. Io non la volevo dentro casa, e sapevo che lui non poteva tenerla lì, che aveva falsificato qualcosa. Ma non ne potevo più. Una volta lui mi ha fatto cadere tutti i denti. Ma facevo finta che quella donna non esistesse, come un fantasma. Ho sopportato tutto per i miei bambini. Non le parlavo, ma provavo più rabbia per lui che per lei». «Più umiliazioni subivo e più mi convincevo di tenere duro - racconta -. Ho iniziato anche portare il velo, cosa mai fatta in Marocco. Lo faceva portare anche alle bambine. Alla più grande aveva impedito di iscriversi a ingegneria come sognava». Quella convivenza assurda è andata avanti per sei anni. «A casa facevo tutto io - ricorda - cucinavo e facevo le pulizie. Lei niente. Per il resto facevo in modo di starci il meno possibile. C’era sempre qualche bambino da accompagnare o andare a prendere per non stare in quella casa». Tre anni fa lui se n’è andato, abbandonando tutti. Portando via i più piccoli, di 7 e 11 anni. «Sono in Egitto. Li ho sentiti solo due volte da allora - si rammarica - la ragazza mi chiesto di andarla a prendere. Mi ha raccontato che sulla schiena ha i segni delle botte. Ha detto che il maschio è diventato balbuziente. Qui in Italia non lo era. Lui sta facendo col bambino quel che suo padre ha fatto a lui. Gli insegna la violenza. Sulle donne, sulle persone». «Io so che gli uomini violenti ci sono in Egitto come in Marocco, in Italia come in ogni altro Paese, ma lì sono educati alla violenza. Il problema sono le cose che fin da piccoli gli insegnano. Da generazioni e generazioni. È un lavaggio del cervello nella loro testa. La violenza sulle donne diventa tradizione». I figli grandi per fortuna vivono in Italia. Il maschio fa il barista, è cittadino italiano. La ragazza si è iscritta all’università: «Quale facoltà? Quella che voleva lei. E spero che trovi l’uomo giusto, non importa se italiano, marocchino o egiziano». La sua figlia maggiore è più o meno coetanea di Sanaa, la marocchina uccisa dal padre perché aveva un fidanzato italiano: «Quella ragazza - osserva lei - è stata uccisa nell’ultima settimana del Ramadan, non è un caso. Quelle cose un padre non le fa. Ma mio marito sarebbe stato capace. Negli occhi della madre di Sanaa che ha giustificato il marito io ho visto la paura che provavo io».
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