venerdì 25 settembre 2009

Eurabia

Trend demografici e identità perdute. Bruxelles diventerà presto la prima capitale dell'Eurabia di Alessandro Di Pamparato

Nel 1974, in occasione di un discorso all’assemblea dell’ONU, Houari Boumédiene, ex presidente algerino disse: «Un giorno, milioni di uomini si muoveranno dall’emisfero sud del mondo per fare irruzione in quello nord. Sicuramente non avranno scopi amichevoli. Faranno irruzione per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo dei loro figli: è il ventre delle nostre donne che ci offrirà questa vittoria». Un terzo della popolazione di Bruxelles è già musulmana e, se la tendenza attuale si confermasse, gli islamici praticanti saranno la maggioranza tra 15 o 20 anni, in virtù della loro crescita demografica. Sulla base delle previsioni del Bureau du Plan, entro il 2020 a Bruxelles è previsto un aumento di 170.000 persone di fede musulmana. L’islamizzazione dell’Europa è un fenomeno inquietante. Quale sarà la prima capitale europea ad avere una maggioranza musulmana ? E’ la domanda che si è posto il canale americano Fox News in un breve reportage trasmesso il 24 Marzo 2009. Una cosa è certa: il tono dell’emittente americana era in netta contrapposizione con quello delle nostre televisioni. Non solo perché volontariamente diretto, addirittura brutale, ma anche perché più semplicemente Fox ha il coraggio di trattare un soggetto che i nostri media tacciono con uno zelo che sconfina quasi nella vigliaccheria. Sappiamo come va: non bisogna in nessun modo prestarsi «al gioco dell’estrema destra», dare l’impressione di «parteciapre al processo di lepenizzazione degli spiriti» e fare degli «amalgami» che ci «riportino alla memoria i momenti i più torbidi della storia». Ecco come il bel piccolo mondo dei media europei preferisce nascondere la testa sotto la sabbia. Se diamo un’occhiata alla lista del Partito Socialista delle ultime elezioni regionali a Bruxelles si può facilmente constatare che, su 72 candidati, 27 hanno nomi chiaramente «derivanti dalla diversità» per utilizzare un’espressione d’uso comune nella "neolingua" di orwelliana memoria (e multiculturalmente corretta), e cioè il 37,5 per cento del totale. A meno che Bruxelles non sia il ricettacolo di un eccellente vivaio di talenti della «diversità», si può ragionevolmente immaginare che la scelta di questi personaggi, in prima istanza, sia stata fatta sulla base di un criterio etnoculturale. Scegliere una persona destinata a esercitare delle funzioni politiche sulla base della sua appartenenza etnica, culturale, religiosa, non soltanto rappresenta il livello più abbietto della politica ma è precisamente quello che, in altri tempi, sarebbe stato tacciato di razzismo. Non abbiamo alcun pregiudizio sulle qualità di ciascuno dei candidati il cui patronimo lascia intravedere un’origina musulmana, ma ci si può legittimamente chiedere se essi abbiano rotto o meno con quegli innumerevoli punti della loro cultura che appaiono incompatibili con i valori occidentali – come la laicità, l’eguaglianza tra uomo e donna, il primato dell’individuo rispetto al gruppo e così via; e se gli spiriti ottimisti del Vecchio Continente ci assicurano che di questo non c’è neppure bisogno di parlarne, gli risponderemmo alla maniera del Talleyrand e cioè che sarebbe ancora meglio se lo si facesse. I compromessi e i tradimenti di cui sono capaci i partiti politici per vigliaccheria (pur di «comprare» la pace sociale) ed opportunismo elettorale – alcuni peggio di altri – abbondano, e ovviamente ci rassicurano ancora meno. Il fatto che il primo nome sulla lista della «diversità» sia oggetto di controversie per le sue posizioni apertamente negazioniste riguardo al genocidio armeno, e per aver fatto allestire a Bruxelles dei containers destinati a raccogliere gli scarti da macello nel periodo del Aïd el-Kebir (quando occupava la posizione di segretario di Stato alla Netezza Urbana) è un altro elemento che non aiuta a tranquillizzarci. La lista è un segno del volto di Bruxelles che cambia, e che cambia ad una velocità fulminea, mentre non abbiamo la benché minima idea dello spaventoso sconvolgimento demografico in atto. Ricordiamo che Mohamed è il nome proprio più quotato fra i neonati da più di 20 anni nella città belga ma anche a Marsiglia, a Saint Denis e sotto tutte le sue varianti anche a Milano. Aggiungiamo anche il fatto che questa tendenza oltrepassa le cadre del Belgio e della sua capitale. Nel quartiere di Molenbeek (un comune della città di Bruxelles), l’ambiente è teso e la presenza della polizia costante: il dominio della legge islamica su quella belga è all’origine di queste tensioni, visto che una semplice videocamera imbracciata da un occidentale viene considerata una provocazione agli occhi dei nuovi "padroni". In un contesto del genere, i ragazzi e le ragazze tra i 15 e i 25 anni si radicalizzano, rifiutando l’insieme dei valori del paese ospitante. Peggio: sempre più donne hanno come obiettivo ideale sposare un guerriero musulmano; le chiamano «donne del djihas». Il colmo è che i dirigenti europei sono soddisfatti di questa «dhimmitude», felici di aver consentito ai musulmani di Bruxelles di costituire un Consiglio consultivo delle moschee (dotato di portafoglio), aprire il macello pubblico durante la festa del sacrificio, redarre una lista elettorale a maggioranza musulmana, costruire nuove moschee, cimiteri, scuole, centri culturali… L’islamizzazione non è più un fantasma, nonostante il fatto che i benpensanti e altri politicanti utilizzino l’elevato tasso di disoccupazione di questa fetta di popolazione come un nuovo mezzo di propaganda. La forza dell’Islam in Europa è dovuta all’amnesia culturale degli europei, al rifiuto di riconoscere l’immenso patrimonio culturale europeo e cristiano. Una grossa responsabilità in questo senso è da attribuirsi alla divisione tra gli europei stessi, alla loro mancanza di unità e coraggio politico; emerge sempre di più la crisi dell’assunzione di responsabilità (il declino del rispetto degli impegni socio-politici), della fiducia (individualismo, regressione dell’identità, elogio del dubbio e dello scetticismo…), ed una visione politica strategica indirizzata unicamente verso una scadenza elettorale (demagogia politica). A nessuno, dico a nessuno, dotato di un minimo di comune senso di responsabilità, è sfuggito che la Costituzione europea non fa mai riferimento alle sue radici giudeo-cristiane: di conseguenza, nel quadro di un processo crescente di islamizzazione della società, il rifiuto di riconoscere al Cristianesimo il suo posto nella storia della fondazione dell’Europa è un modo di preparare lo sbarco di una nuova civiltà: la civiltà islamica europea. La prima fra tutte le questioni è proprio quella che papa Giovanni Paolo II sollevò durante la sua esortazione apostolica sulla Chiesa in Europa: «Riprendendo questo invito alla speranza, te lo ripeto di nuovo oggi, Europa che entri nel terzo millennio: ritrova te stessa. Sii te stessa. Scopri le tue origini. Fai rivivere le tue radici». L’attuale inerzia dell’Europa non si deve cercare altrove. Prima di andare più lontano nel processo di unificazione del Vecchio Continente, gli europei vogliono sapere in quale direzione stanno procedendo e occorre quindi fargli capire ciò che sono. Fino a quando il dibattito non si concentrerà sull’identità dell’Europa, l’Europa stessa resterà un’esca appetitosa, uno spaventapasseri, un «aggieggio» come diceva Bruno Gollnisch durante un dibattito politico condotto da Christine Ockrent. Ma in questo marasma ideologico, bisognerebbe porre una domanda che infastidisce. La domanda è: quali sono le radici dell’Europa? Qual’è il fermento d’unità che la anima? E’ interessante passare in rassegna la letteratura sull’argomento. L’essenziale di quanto si è scritto in proposito non fa altro che ricordarci le origini non cristiane dell’Europa, anche a costo di rasentare il ridicolo e il grottesco. Alcuni come Jean Paul Willaime (direttore della École pratique des hautes études, sezione di Scienze religiose alla Sorbona) non esitano a consacrare la totalità della loro ricerca nel contrasto delle posizioni sostenute dalla Chiesa cattolica. Posizione che, con Giovanni Paolo II, la Chiesa non ha mai smesso di riaffermare nel corso dei secoli: l’Europa ha ricevuto il tesoro della fede in Dio. La sua vita sociale è fondata sui principi del Vangelo le cui tracce si possono ammirare nell’arte, nella letteratura, nel speculazione filosofica e nella cultura delle nazioni. Ma questa eredità non appartiene solo al passato: è un progetto per il futuro da trasmettere alle generazioni future poiché è la matrice della vita degli individui e dei popoli che insieme hanno dato forma al continente europeo. Più che uno spazio geografico, questa eredità può essere inquadrata in un concetto a sfondo maggiormente culturale e storico, che caratterizza una realtà nata come continente grazie, tra l’altro, alla forza unificatrice del Cristianesimo; quest’ultimo ha saputo fondere tra di loro popoli differenti e culture diverse ed è per questo intimamente legato alla civiltà europea nel suo insieme. A questo punto diventa necessario un lavoro di fondo per fare luce e verità sul soggetto della discussione. Gli storici, gli insegnanti e i media cattolici ritrovano forse in questo lavoro la vera carta da giocare. Il futuro dell’Europa passa inevitabilmente attraverso l’accettazione della sua verità e del suo passato.

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