giovedì 17 settembre 2009

Islam

Il cuoco marocchino accusato di omicidio premeditato. Il padre di Sanaa: «Era la mia vergogna». La figlia uccisa perché conviveva con un italiano. Il pm: la pista dei motivi religiosi

Era in Ita­lia da 11 anni, ma la testa era rimasta là, negli angoli più bui di quel sobborgo di Casa­blanca dal quale un giorno era partito per cercare fortu­na. El Katawi Dafani, 45 anni, il marocchino in carcere con l’accusa di aver sgozzato la fi­glia diciottenne, colpevole di avere una relazione con un ita­liano, dell’Occidente aveva preso scampoli di benessere (una casa, il lavoro di aiuto cuoco, una Ford Fiesta rossa fiammante) senza però riusci­re a capire, ad accettare, tutto il resto: padre-padrone in ca­sa con la moglie Fatna, total­mente sottomessa, figurarsi con Sanaa e i suoi 18 anni che sprizzavano vita, fascino, lei che del Marocco portava ne­gli occhi e nei capelli i colori, ma che nell’anima era profon­damente italiana. Da qualche tempo quella ragazza era di­ventata l’incubo di Dafani. Si era innamorata, totalmente persa, di un ragazzo di 31 an­ni, Massimo De Biasio, spiglia­to, pieno di energie. Italiano, di un’altra religione, più vec­chio di lei di 13 anni: quanto di più lontano e pericoloso ci potesse per l’uomo che veni­va da Casablanca. E quando poi Sanaa, stanca delle urla del padre («Sei la mia vergo­gna, non ci si comporta così» l’avevano spesso sentito gri­dare i vicini), aveva annuncia­to qualche settimana fa ai ge­nitori che se ne sarebbe anda­ta di casa per vivere con il suo Massimo, i fantasmi di Dafani sono diventati mostri ingover­nabili. È finita così, per questo, la favola di Sanaa, tragicamente simile al dramma della paki­stana Hina. Sanaa è morta in un boschetto in provincia di Pordenone, a Grizzo di Monte­reale Valcellina. Sgozzata, qua­si decapitata da suo padre. Se l’è trovato di fronte, mentre viaggiava in auto con il fidan­zato, diretti al lavoro, il risto­rante «Spia», dove lei faceva la cameriera e lui era uno dei soci. Quando hanno visto l’uo­mo sul ciglio della strada, i due ragazzi si sono fermati. Dafani, armato di un grosso coltello, si è avventato su di loro. Massimo ha tentato di difendere Sanaa, facendole scudo con il suo corpo. Le pri­me coltellate lo hanno ferito all’addome e alle mani (opera­to, si salverà). Ma era Sanaa la preda. Il padre l’ha inseguita nel bosco e, quando l’ha rag­giunta, l’ha ripetutamente col­pita, tagliandole la gola. Ora Dafani è in carcere. «Non ha ammesso niente» ha afferma­to il comandante dei carabi­nieri, Pierluigi Grosseto. È ac­cusato di omicidio pluriaggra­vato con l’aggravante della premeditazione, oltre che di tentato omicidio. Il procurato­re capo di Pordenone, Luigi Delpino, dice che «fra le ipote­si al vaglio degli investigatori c’è anche quella dei motivi re­ligiosi». E aggiunge: «Contro di lui ci sono elementi proban­ti». Almeno quattro: la versio­ne del fidanzato di Sanaa, che prima di essere portato in ospedale, è riuscito a dire: «È stato lui, il padre»; la testimo­nianza di un passante che ha visto l’auto di Dafani sul luo­go dell’aggressione; il coltello acquistato dall’uomo prima dell’omicidio; il ritrovamento in casa di vestiti con presunte tracce di sangue. A Pordenone, dove ci sono circa 7.500 musulmani e dove l’immigrazione è forte, la ten­sione è alta. La Diocesi e l’imam Mohamed Ovatq han­no lanciato un appello comu­ne contro «qualsiasi strumen­talizzazione o guerra di reli­gione», nella speranza che «non venga colpevolizzato l’Islam». In subbuglio anche la politica. Il ministro Carfa­gna ha annunciato che il suo dicastero «si costituirà parte civile». E così faranno anche la Regione Friuli e il comitato delle Donne Marocchine in Italia.

Francesco Alberti

Sanaa, gli amici su Facebook e un paio di jeans «Voglio una vita mia». La madre del fidanzato della 18enne uccisa in un boschetto: «Avevano paura»

MONTEREALE VALCELLINA (Por­denone) — Jeans e maglietta. La gonna quando era lontana da casa, ma mai troppo corta. Un filo di truc­co. Il profilo su Facebook. Amici ma­rocchini. Anche tanti italiani. Sanaa non ricordava praticamente nulla di Casablanca. Anche se in casa il padre le ripete­va in maniera quasi ossessiva che «lei veniva da un’altra terra, che cer­te cose non sono ammesse». Ora, piangendola, gli amici di scuola, del­le medie di Azzano Decimo, la ricor­dano durante la ricreazione, l’ora delle merenda: «Lei andava pazza per i panini, ma sapeva benissimo, perché il padre non perdeva occasio­ne per dirglielo, che è vietato ai mu­sulmani mangiare prosciutto e sala­me: si metteva in disparte e ingoia­va tutto in un sol colpo, facendoci il gesto di stare zitti, di non dire nulla ai suoi». Un panino, un morso di na­scosto: l’integrazione, la voglia di normalità, passa anche di qui. E Sa­naa, capelli neri a cadere sulle spal­le, una luce intensa negli occhi, il sorriso sempre pronto, voleva im­mergersi fino in fondo in questa vi­ta, vita italiana, con i suoi riti e le sue brutture, ma comunque lontana anni luce da quella che sentiva rac­contare in casa dal padre, sovrano assoluto di una famiglia di sole don­ne: la moglie Fatna e le due sorelli­ne, 7 e 4 anni.

Troppo lontani lei e quel genito­re. «Fino a qualche anno fa — rac­contano alla trattoria Lido, dove Da­fani lavora da 9 anni come aiuto cuo­co senza mai dare problemi —, Sa­naa ogni tanto veniva a trovare il pa­dre». Poi le visite si sono diradate sempre più. Indizi di quelli che il procuratore capo ha eufemistica­mente definito «dissidi familiari». Sempre più profondi man mano che Sanaa cresceva. La prima vera frattura si è aperta qualche anno fa quando la ragazza, concluse le medie, ha comunicato al padre l’intenzione di abbandonare la scuola. «Voglio lavorare, voglio guadagnare, così posso anche aiutar­vi ». Il genitore sognava altro, ma non c’è stato niente da fare. «Bella, sorridente e volonterosa» la ricorda tra Azzano Decimo e Tiezzo chi le diede i primi lavoretti, in alcuni bar e pub. Sempre più sicura di sé e deci­sa a trovare un’occupazione stabile, la ragazza ha allargato a Pordenone la sua ricerca ed è stato qui, nella piz­zeria Barrique, che ha conosciuto Massimo De Biasio, titolare del loca­le. Quel giorno, più che un lavoro, Sanaa ha trovato l’amore. Assunta in un altro locale di cui l’uomo è so­cio, la «Spia» a Montereale Valcel­lina, tra i due è na­ta una relazione. «Facevano sul serio, erano molto uniti — racconta il padre di Massimo, Gianni —. Quando mi hanno det­to che pensavano di andare a convivere, ho dato loro un apparta­mento. Sanaa era diventata una di fa­miglia: quando poteva, veniva ad aiutarmi nel panificio». Solo per un po’ la ragazza è riusci­ta a tenere nascosta al padre la sto­ria con quell’uomo italiano, di un’al­tra religione, così lontano dal mon­do di El Katawi Dafani.

Un incubo. «Spesso si sentivano delle urla in ca­sa» racconta Flavia Bortolussi, che vive a Piezzo vicino all’appartamen­to di Dafani. E quando Sanaa, forte del fatto di essere diventata maggio­renne, ha deciso di lasciare la fami­glia per trasferirsi con il fidanzato, qualcosa si è rotto nella mente del­l’aiuto cuoco. Racconta la madre di Massimo: «I due ragazzi avevano paura. Negli ultimi tempi quell’uo­mo telefonava sempre più spesso a casa, minacciando la figlia. Nessuno certa immaginava una fine del gene­re. È terribile, Sanaa voleva solo vi­vere la sua vita. E il mio Massimo è salvo per miracolo...». Se n’erano ac­corti anche in paese. Racconta un amico: «L’avevo detto a De Biasio di stare alla larga da quell’uomo, ma lui mi diceva che prima o poi la cosa si sarebbe risolta...». E invece no: Sa­naa ha perso la sua battaglia come la perse tre anni fa Hina, la pakista­na di 20 anni, pure lei uccisa dal pa­dre. Quando l’integrazione diventa disintegrazione.

Francesco Alberti

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