Era in Italia da 11 anni, ma la testa era rimasta là, negli angoli più bui di quel sobborgo di Casablanca dal quale un giorno era partito per cercare fortuna. El Katawi Dafani, 45 anni, il marocchino in carcere con l’accusa di aver sgozzato la figlia diciottenne, colpevole di avere una relazione con un italiano, dell’Occidente aveva preso scampoli di benessere (una casa, il lavoro di aiuto cuoco, una Ford Fiesta rossa fiammante) senza però riuscire a capire, ad accettare, tutto il resto: padre-padrone in casa con la moglie Fatna, totalmente sottomessa, figurarsi con Sanaa e i suoi 18 anni che sprizzavano vita, fascino, lei che del Marocco portava negli occhi e nei capelli i colori, ma che nell’anima era profondamente italiana. Da qualche tempo quella ragazza era diventata l’incubo di Dafani. Si era innamorata, totalmente persa, di un ragazzo di 31 anni, Massimo De Biasio, spigliato, pieno di energie. Italiano, di un’altra religione, più vecchio di lei di 13 anni: quanto di più lontano e pericoloso ci potesse per l’uomo che veniva da Casablanca. E quando poi Sanaa, stanca delle urla del padre («Sei la mia vergogna, non ci si comporta così» l’avevano spesso sentito gridare i vicini), aveva annunciato qualche settimana fa ai genitori che se ne sarebbe andata di casa per vivere con il suo Massimo, i fantasmi di Dafani sono diventati mostri ingovernabili. È finita così, per questo, la favola di Sanaa, tragicamente simile al dramma della pakistana Hina. Sanaa è morta in un boschetto in provincia di Pordenone, a Grizzo di Montereale Valcellina. Sgozzata, quasi decapitata da suo padre. Se l’è trovato di fronte, mentre viaggiava in auto con il fidanzato, diretti al lavoro, il ristorante «Spia», dove lei faceva la cameriera e lui era uno dei soci. Quando hanno visto l’uomo sul ciglio della strada, i due ragazzi si sono fermati. Dafani, armato di un grosso coltello, si è avventato su di loro. Massimo ha tentato di difendere Sanaa, facendole scudo con il suo corpo. Le prime coltellate lo hanno ferito all’addome e alle mani (operato, si salverà). Ma era Sanaa la preda. Il padre l’ha inseguita nel bosco e, quando l’ha raggiunta, l’ha ripetutamente colpita, tagliandole la gola. Ora Dafani è in carcere. «Non ha ammesso niente» ha affermato il comandante dei carabinieri, Pierluigi Grosseto. È accusato di omicidio pluriaggravato con l’aggravante della premeditazione, oltre che di tentato omicidio. Il procuratore capo di Pordenone, Luigi Delpino, dice che «fra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è anche quella dei motivi religiosi». E aggiunge: «Contro di lui ci sono elementi probanti». Almeno quattro: la versione del fidanzato di Sanaa, che prima di essere portato in ospedale, è riuscito a dire: «È stato lui, il padre»; la testimonianza di un passante che ha visto l’auto di Dafani sul luogo dell’aggressione; il coltello acquistato dall’uomo prima dell’omicidio; il ritrovamento in casa di vestiti con presunte tracce di sangue. A Pordenone, dove ci sono circa 7.500 musulmani e dove l’immigrazione è forte, la tensione è alta. La Diocesi e l’imam Mohamed Ovatq hanno lanciato un appello comune contro «qualsiasi strumentalizzazione o guerra di religione», nella speranza che «non venga colpevolizzato l’Islam». In subbuglio anche la politica. Il ministro Carfagna ha annunciato che il suo dicastero «si costituirà parte civile». E così faranno anche la Regione Friuli e il comitato delle Donne Marocchine in Italia.
Francesco Alberti
Sanaa, gli amici su Facebook e un paio di jeans «Voglio una vita mia». La madre del fidanzato della 18enne uccisa in un boschetto: «Avevano paura»
MONTEREALE VALCELLINA (Pordenone) — Jeans e maglietta. La gonna quando era lontana da casa, ma mai troppo corta. Un filo di trucco. Il profilo su Facebook. Amici marocchini. Anche tanti italiani. Sanaa non ricordava praticamente nulla di Casablanca. Anche se in casa il padre le ripeteva in maniera quasi ossessiva che «lei veniva da un’altra terra, che certe cose non sono ammesse». Ora, piangendola, gli amici di scuola, delle medie di Azzano Decimo, la ricordano durante la ricreazione, l’ora delle merenda: «Lei andava pazza per i panini, ma sapeva benissimo, perché il padre non perdeva occasione per dirglielo, che è vietato ai musulmani mangiare prosciutto e salame: si metteva in disparte e ingoiava tutto in un sol colpo, facendoci il gesto di stare zitti, di non dire nulla ai suoi». Un panino, un morso di nascosto: l’integrazione, la voglia di normalità, passa anche di qui. E Sanaa, capelli neri a cadere sulle spalle, una luce intensa negli occhi, il sorriso sempre pronto, voleva immergersi fino in fondo in questa vita, vita italiana, con i suoi riti e le sue brutture, ma comunque lontana anni luce da quella che sentiva raccontare in casa dal padre, sovrano assoluto di una famiglia di sole donne: la moglie Fatna e le due sorelline, 7 e 4 anni.
Troppo lontani lei e quel genitore. «Fino a qualche anno fa — raccontano alla trattoria Lido, dove Dafani lavora da 9 anni come aiuto cuoco senza mai dare problemi —, Sanaa ogni tanto veniva a trovare il padre». Poi le visite si sono diradate sempre più. Indizi di quelli che il procuratore capo ha eufemisticamente definito «dissidi familiari». Sempre più profondi man mano che Sanaa cresceva. La prima vera frattura si è aperta qualche anno fa quando la ragazza, concluse le medie, ha comunicato al padre l’intenzione di abbandonare la scuola. «Voglio lavorare, voglio guadagnare, così posso anche aiutarvi ». Il genitore sognava altro, ma non c’è stato niente da fare. «Bella, sorridente e volonterosa» la ricorda tra Azzano Decimo e Tiezzo chi le diede i primi lavoretti, in alcuni bar e pub. Sempre più sicura di sé e decisa a trovare un’occupazione stabile, la ragazza ha allargato a Pordenone la sua ricerca ed è stato qui, nella pizzeria Barrique, che ha conosciuto Massimo De Biasio, titolare del locale. Quel giorno, più che un lavoro, Sanaa ha trovato l’amore. Assunta in un altro locale di cui l’uomo è socio, la «Spia» a Montereale Valcellina, tra i due è nata una relazione. «Facevano sul serio, erano molto uniti — racconta il padre di Massimo, Gianni —. Quando mi hanno detto che pensavano di andare a convivere, ho dato loro un appartamento. Sanaa era diventata una di famiglia: quando poteva, veniva ad aiutarmi nel panificio». Solo per un po’ la ragazza è riuscita a tenere nascosta al padre la storia con quell’uomo italiano, di un’altra religione, così lontano dal mondo di El Katawi Dafani.
Un incubo. «Spesso si sentivano delle urla in casa» racconta Flavia Bortolussi, che vive a Piezzo vicino all’appartamento di Dafani. E quando Sanaa, forte del fatto di essere diventata maggiorenne, ha deciso di lasciare la famiglia per trasferirsi con il fidanzato, qualcosa si è rotto nella mente dell’aiuto cuoco. Racconta la madre di Massimo: «I due ragazzi avevano paura. Negli ultimi tempi quell’uomo telefonava sempre più spesso a casa, minacciando la figlia. Nessuno certa immaginava una fine del genere. È terribile, Sanaa voleva solo vivere la sua vita. E il mio Massimo è salvo per miracolo...». Se n’erano accorti anche in paese. Racconta un amico: «L’avevo detto a De Biasio di stare alla larga da quell’uomo, ma lui mi diceva che prima o poi la cosa si sarebbe risolta...». E invece no: Sanaa ha perso la sua battaglia come la perse tre anni fa Hina, la pakistana di 20 anni, pure lei uccisa dal padre. Quando l’integrazione diventa disintegrazione.
Francesco Alberti
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